Una giornata implume, senza creanza, tagliata di forza e di noia, scolpendo il tempo con malavoglia.
Le cose cominciano al mattino, dopo che si è pulito il viso dai sogni della notte.
Con questa consapevolezza scorrono le ore, il dissipare che galleggia come schiuma sulla birra, e necessita il passare attraverso l’inconsistente per giungere al fresco, al frizzante che raschia la gola, al dolce amaro che disseta e placa.
Sulle labbra resta la schiuma,
così è il sapore di questo giorno
ch’è scorza da sfogliare e togliere,
per trovare linfa e tagli dritti di luce,
nuvole e vuoto da colmare.
Villano il tempo a noi
che scorriamo i giorni con sagacia di colore,
mentre è lo scontento che ribolle,
e così si è prigionieri d’un bisogno.
Villano il tempo
nel dire la molla che sospinge,
nel tacere al giudice che, muto, dinega il capo.
Utile sarebbe usare i polpastrelli per modellare pensieri acuminati, ricoprirli d’ironia, farli ridere spesso. Bisognerebbe, sarebbe, si dovrebbe, condizionali pieni di bisogno invece possiedo solo un mantra che mi ripeto tra le ore.
Che sia il giorno per noi efficace.
Che le ore siano senza colpa,
senza traccia,
senza righe per scrivere ordinato,
senza saluti inutili,
senza parole gonfie di vuoto.
Che sia una giornata senza,
scavata di bellezza,
non lo scorrere rozzo,
non questo buttare tutto avanti,
non le mani annegate nella timidezza delle tasche.
Serve al giorno un cuore gentile che alla notte si nega, il coraggio leggero della corsa breve. l’incoscienza della distanza per raggiungere la vita utile a sé.
Per placare la sete bisogna attraversare l’impalpabile diverso.
Si è levato un forte vento che scuote gli alberi del giardinetto. Il vento si vede così, nello scuotere di foglie, nel sollevare mantelli che ormai non ci sono più e nel pulire le cose e l’aria. La vita queta osserva da dentro casa, dai bar, dalle finestre di alberghi in cui resteremo qualche notte. A volte una. Quanti alberghi ho cambiato durante gli anni dei vari lavori, stanze linde stili che riflettevano il Paese, luoghi al limite dell’accettazione in Africa o in Medio Oriente. Il vento continua a folate e mi torna a mente un albergo sul Carso Triestino che aveva una finestra che guardava il golfo verso Muggia. Le folate di bora increspavano l’acqua in modo uniforme e il riflesso la rendeva un tessuto dalla plissettatura infinita. Ho una particolare predilezione per il golfo di Trieste, per me è uno dei luoghi che nel mondo si dovrebbero vedere e assaporare, la città lo accoglie con il vestito della festa ed è un susseguirsi di piazze e palazzi che guardano il mare. In piccolo, questa struttura che assomiglia ad un abbraccio si ripete nei piccoli paesi che sono lungo il crinale carsico, come vi fosse un invito al vento e una necessità di vedere nella sua interezza l’arco del golfo. E’ una cosa strana per chi viene dalla pianura ed è abituato alle piazze che si chiudono in se stesse e nei palazzi che le circondano, vedere questo mostrarsi al mare è una generosità reciproca che accoglie e chiede protezione.
In ogni albergo c’era una poltroncina e ovunque mi sono seduto vicino alla finestra, per leggere il libro che avevo con me o per completare una relazione e gli occhi, ogni tanto, si sollevavano dalle parole e guardavano fuori. Spesso era sera, prima di cena e il cielo si scuriva, rendeva diverse le cose, una parola, l’ultima lettta, voleva dire di più. Essere scavata nel significato e messa in quel luogo come un segnalibro della mente. Da una parola è facile saltare ad altro, evocare un ricordo che apparentemente non ha relazione con nulla di ciò che attornia, oppure la parola trasformata suscita un sentimento e questo cerca una corrispondenza dentro di sé e al tempo stesso in ciò che gli occhi vedono in quel paesaggio strano che sono i panorami fuori delle finestre degli alberghi. Così il cielo non è più estraneo, le cose sembrano già viste e gli uomini hanno lo stesso linguaggio, le stesse passioni che sento, ma cambiate e ognuna riportata in una casa , in un angolo dove ci si siede per leggere, in mobili che non conosco ma che a quella persona sono familiari. Ciò che ci unisce è il sentire le emozioni, la forma dei desideri prima che vengano distorti da ogni educazione, la capacità di pensare e riflettere. Ciascuno a suo modo e con la sua profondità e nulla è banale o scontato.
Molti anni or sono, stavo facendo una traversata a piedi dell’appennino e giunto sul passo trovai due case, l’una di fronte all’altra, in una c’era un negozio emporio, piccolo, con la porta a vetri incorniciati e il campanello che suonava quando qualcuno entrava. C’era di tutto disposto su scaffali di legno, il cibo era su un tavolo di marmo che fungeva da bancone e i panini erano veramente ottimi, curiosai in mezzo alle tante cose e c’erano gli oggetti non venduti di un passato che si era accumulato pacificamente in attesa. La casa di fronte era del 1500, solida e con la forma di un edificio che doveva durare. Una lapide accanto alla porta riportava il nome di un antico, forse famoso, proprietario, che al servizio del Granduca di Toscana ritornava a questa casa per essere se stesso. E lì aveva trascorso gli anni della vecchiezza in studi e pensieri nuovi. Mi aveva colpito come in tempi in cui non c’era nessuna comodità vicina, ci fosse stata una scelta di quel genere e come Montaigne l’immaginai in una poltrona vicino alla finestra e attorniato dai suoi libri, che confrontava il suo tempo e la sua casa con ciò che passava per una strada di passo.
Penso che da qualche parte, in ciascuno, esista una casa interiore, un luogo dove essere accolto e che quella casa abbia un angolo di desiderio di quiete da cui guardare se stessi e fermare il tempo delle cose per essere in sintonia con il tempo nostro. Il kairos interiore che ripropone la vita, il significato dell’occasione, la pace e l’equilibrio del sentirsi parte di qualcosa di molto più grande ma di essere unici e irripetibili. Non c’è nostalgia in questo tempo, solo il mettere i sensi al suo servizio e cogliere il vento, le luci che s’affiocano, il libro, le parole che sussurrano di altre vite e il tepore di questa casa interiore dove domina la quiete e l’attesa del buono.
La chiesa del Servi è una chiesa bella e strana. Parallela alla via Roma, una delle strade importanti del centro cittadino, ha la facciata romanica chiusa tra case, in vicolo corto e ortogonale senza il piazzale che contraddistingue l’accesso alle chiese. Ha un bellissimo e largo porticato, sopraelevato rispetto alla strada, contraddistinto da archi leggeri, sorretti da dieci colonne esili di marmo rosso che provengono dalla chiesa del Santo. L’ingresso principale è proprio sotto questo portico e quindi laterale rispetto alla navata. Questo mi ricordo che varcavo, accompagnato da mia nonna, il giorno di san Valentino. Di certo non guardavo il meraviglioso crocifisso ligneo di Donatello, neppure notavo gli affreschi o l’altare maggiore, perché lo scopo era di far benedire una piccola chiave di alluminio o bronzo, molto strana perché aveva una testa trilobata che non vedevo in nessuna chiave, e che mi sarebbe stata appesa al maglione per qualche giorno. L’altare presso cui avveniva la benedizione è un altare imponente e incongruo rispetto alla chiesa. Barocco, di grandi dimensioni, proprio in corrispondenza della porta laterale e che per questo sembrava l’altare principale, come se chiesa fosse un pensiero disordinato, privo di equilibrio. Guardavo le statue, l’affollarsi di bambini, nonni e mamme, i ceri accesi, le colonne tortili e aspettavo finisse perché il premio sarebbe stato qualche dolciume prima di tornare a casa.
Per molti anni mi sono chiesto cosa significasse quella piccola chiave, perché chiaramente era un simbolo e ciò di cui mi parlava mia nonna non era cosa che conoscessi: san Valentino proteggeva dal mal caduco. Non si parlava di innamorati, quelli vennero poi, e non sapendo di quale male si parlasse, semplicemente accettavo il tutto come una delle ritualità magiche che costellavano l’educazione di un bimbo in quegli anni. Poi ho capito che il male era l’epilessia e che il dialetto era molto esplicito, riferendosi al cadere a terra convulso. Però restava l’enigma della chiavetta e quello l’ho collegato poi, alla povera terapia immediata del popolo perché si metteva una chiave tra i denti della persona in crisi epilettica per evitarne il soffocamento.
Passando sotto al portico dei Servi, riflettevo, qualche giorno fa, sulla potenza dei simboli. Ne ho parlato con mio figlio, che non ha nessuna di queste esperienze, e capisco che con la mia generazione si chiude un’epoca. Non riguarda solo una religiosità popolare che pervadeva di processioni, reliquie e miracoli, città e campagne, ma di un modo di intendere la vita dove magico, religione e speranza interagivano con la vita quotidiana. Di fronte all’impossibilità e al mistero, non restava che il miracolo, il rito e la protezione del simbolo. Non rimpiango nulla, capisco solo che è finita e che ciò che era vivo ora si trasferisce nei testi di antropologia.
Certo, non è così lineare il ragionamento religioso ufficiale, c’è altro se due santi, uno anche dalla mia città, sono stati portati a Roma, proprio per riconoscere che il rapporto con il mistero non ha un canone, non c’è una regola, anzi si riconosce che il popolo si costruisce una sua religiosità che deve trovare riscontro in quella ufficiale sennò semplicemente si tiene la sua. Questo mi farebbe pensare a un relativismo ufficiale, da parte di chi lo ha sempre rifiutato agendo attraverso il dogma, e quindi un capire, un ammettere il dubbio e il diverso nel proprio terreno. Alla buon’ ora per chi, come me, non ha dogmi, ma principi, non ha religione ma rispetto e dubbi per ciò che non capisce, ma non è questo che mi fa riflettere. È il senso di un mondo che c’è nelle persone e che cerca nei simboli comuni. Un mondo che reinterpreta la paura e l’insicurezza ma non collega, e ha una cultura fatta di singolarità. Servirebbe De Martino per capire cosa ci sia dentro la società fluida e come essa sia nei gesti e nelle credenze di tutti i giorni. Io avevo una maestra , mia nonna, che mi trasmetteva un passato con riferimenti tangibili, mio figlio questo lo può avere solo attraverso i libri o dei ricordi. Finisce un’epoca, per l’appunto, i ricordi sono passato quando non interagiscono col presente, e l’irrazionale non può essere controbattuto. Ho l’impressione di una povertà senza nome, e un rimpianto, non di un’epoca o di riti, ma di qualcosa su cui ragionare e differenziare le vite avendo un senso comune.
La distrazione è naturale.
Mi sono lavato le mani. Con cura e soddisfazione. Ho sciacquato con l’acqua pulita lo sporco che era sfuggito sul lavandino. Fuori c’è una giornata di sole. Turisti e persone con la valigia. Forse partono o arrivano. Anche qui fuori ho visto che c’è un signore con la valigia, attende il suo turno al bagno. Penso.
Perché ci sia un furto serve l’incontro tra un ladro e qualcosa da rubare. Serve anche un attimo di disattenzione oppure molta costante fiducia del derubando.
Il ladro non ha nazionalità o etnia, anzi i migliori sono quelli che conoscono cultura e abitudini del luogo in cui esercitano l’attività.
Il ladro può rubare per bisogno (è il caso migliore) oppure per altri svariati motivi, tralasciamo la patologia che non ci interessa e che pur avendo gli stessi effetti porta ad essere comprensivi. Una caratteristica del ladro è che non deve avere sentimenti nei confronti della vittima, non deve chiedersi se ciò che ruba ha un valore sentimentale, se procurerà un danno psicologico, oltre che patrimoniale. Non si chiede se ciò che ruba potrà essere rimpiazzato, non si fa domande che non lo riguardino. Quindi è una persona che sospende una relazione con i potenziali derubati, non dovrà avere rimorsi, replicherà le sue azioni di furto.
Sull’altro versante, il derubato, non si capacita del perché gli sia accaduto, pensa di essere un allocco perché ha perso qualcosa di importante oltre al valore economico:la fiducia immediata su chi gli è per caso vicino.
Il furto è un atto sociale e relazionale, incrina rapporti e rompe un patto di fiducia. Quello che non si considera adeguatamente è che esso testimonia molte carenze di cultura comune, differenzia e segmenta le persone. Ma tutto questo non è percezione diffusa, non è così importante, per essere tale deve passare attraverso la paura oppure il subire un furto. Un furto non si dimentica e questo non è ininfluente perché educa al negativo.
Fuori è una giornata di sole, una borsa con molto di ciò che è una piccola, costosa, passione, non c’è più. Non era abbandonata, è bastato un momento di distrazione.
Ora mi chiedo cosa significhi tutto questo, oltre al danno di ciò che è perduto, perché oltre a essere stato derubato non accetto di subire un cambiamento del mio modo di pormi, non voglio che mi si rubi l’umore, una passione, il sentire, un pezzo d’anima.
È una ingiustizia importante, devo capire me, non il ladro, capire come tutto questo sia compatibile con ciò che resta e resterà.
Apparentemente è qualcosa di non fatto, un non essere come tu mi vuoi, oppure semplicemente l’ assentire forzato che considero obbligato. Mi adatto a fatica, non sono molto adattabile. Non è una qualità, l’uomo dovrebbe adattarsi all’ambiente in cui vive o adattare l’ambiente a sé. Io al più convivo con esso.
Eppoi sono geloso del mio tempo, mi creo un ordine in testa che mette alcune cose prima e altre poi. Dirai: lo fanno tutti, ma il mio è solo mio. Credo che anche questo accada a tutti, però così gli ordini non sono sovrapponibili. E non è solo importanza è un equilibrio faticosamente raggiunto.
A volte emerge, nel bene, un sottile ricatto: la paura d’essere lasciati soli si trasforma in una priorità di attenzioni. Non credo di funzionare così, la mia attenzione c’è e si esprime secondo le modalità che conosco. È qui forse nasce quel mi spiace che si nutre di sensazioni, quella tra tutte di non corrispondere come mi verrebbe richiesto.
Assomiglio più a un rivolo, a una vena d’acqua che a un onda, il molteplice sono io non ciò che m’investe. E per capire mi chiuderei in un silenzio profondo, per rimettere il mio ordine dentro. Con un silenzio che è una pausa alle risposte. A tutte le risposte che si devono dare pro bono pacis.
Siccome non do ragione dei miei malumori in parole, poi mi spiace. E cerco d’aggiustare l’incrinatura, di spiegare l’inspiegabile, il parziale, l’imperfetto, cioè me. Fatica aggiuntiva e improba, giustificata e poco utile, perché la sensazione tornerà.
Ma vorrei rassicurarti: non sei tu la fonte del dispiacere.
Su Internazionale, Goffredo Fofi, parla de il richiamo della foresta di Jack London. Mi ha leggermente emozionato questa sintonia su un autore che per me è stato importante. E lo è ancora. Forse sono discorsi che con l’età vengono più facili, ma è come si fosse ricordata, tra amici, una ragazza amata da entrambi e che mai è stata dell’uno o dell’altro, per cui è rimasta la bellezza e il piacere di averla conosciuta.
Per me, Jack London era l’altra faccia di Pavese, di Melville, di Fenoglio. Quello che precedeva Hemingway senza la dolce vita e il mito maledetto dello scrittore. Era il Salgari che viveva davvero le sue storie. Era il rosso, il socialista,senza teoria. Colui che aderiva al cuore della rivoluzione perché questa era la vita realizzata per un momento, per un anno, per quel tanto che ancora restava ideale in realizzazione. Era il John Reed che correva in Messico e poi a Mosca. Era la somma di tutto questo e insieme ciò che è bello essere in quell’idea di uomo e d’avventura che spinge di una forza incontrollabile uomo e popolo verso un destino più alto e bello, verso un buono e un giusto da condividere. Poi si sa come è andata, ma vivere all’interno di questa spinta era l’idea di vita che da giovani si coltivava. E c’era amore, molto amore, e scoperta, natura, confronto, solitudine e l’essere forti e bastevoli con i piedi posati su solidi principi.
Leggetelo nuovamente London, e non solo il richiamo della foresta,è l’invito a restare giovani per sempre vivendo cio in cui si crede. Ma è anche il racconto eroico della solitudine dell’uomo che si misura con se stesso e ne esce forte, tentando di darsi una risposta, anche se le domande non si esauriscono mai.
(Ci) Sono sempre frammenti da ricomporre anche se pare tutto intero. E tutto quello che non scegli mica si dilegua. Ma ogni tanto torna. E queste storie che sembrano compiute non si compiono per davvero. Capisci che c’è un principio e un’apparente fine. Ma qualcosa torna sempre. Resta ed è un fantasma piccolino che sorride e poi scompare. E tu mica hai capisci cos’è rimasto ancora. A volte mi par d’essere la stazione degli autobus. Sono tutti così uguali. E magari chi parte ti pare di conoscerlo perché sembra quello che da poco è arrivato. Invece è diverso com’è per ogni storia nuova. O almeno così sembra. E allora penso all’Africa, ai suoi pulmini colmi di persone, di fagotti di cui non è possibile far senza, però se lo perdono mica ci pensano poi troppo. Forse è nostalgia di colori e di precarietà che si respira assieme, di profumo di persone che sperano così forte che si sente, e ti contagia come un’allegria. Oppure è quel viaggiare che va in ogni posto e non si ripete mai, che riapre storie. È che ognuno raggiunge qualcosa di suo, quando deve, ma quando si può chissà se mai finisce. E forse loro non han frammenti da riattaccare. E neppure gran motivi per restare in quel posto che sembra non bastare. E forse neppur hanno i fantasmi piccolini che gli fanno compagnia di tanto in tanto. Forse. Ma magari è differente e non si capisce bene. E allora penso che non ci sia una regola. Non una che vale poi per tutti.
Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.
La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.
La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.
Il tempo: troppo quando rimando.
Troppo poco, devo andare.
Meglio scrivere sul margine del tempo,
cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale
lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.
Dispettoso e allegro, pensoso.
Chissà dove andrà a parare?
Inseguirlo e meravigliarsi un poco.
Farò a tempo.
Arriverò in ritardo.
Ce la faccio.
Bello scrivere quando il tempo è poco,
e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.
La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.
Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.
La pioggia aspetterà.
Non aspetta. Cade.
Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.
Aspetta ancora un poco. Per favore.
o meglio così:
Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore.
È una pressione continua. Una notizia elide la precedente e tutto alla fine sembra uguale. Chi produce realtà sa che bisogna alzare la posta, colpire l’immaginazione e il sentire, perché le notizie vengono e svaniscono subito. Siamo finiti in una dittatura del presente senza futuro.
Sembra che il rifiuto della condizione di incertezza produca una bulimia di nuovo senza conclusione. Ed è aria mossa da chiacchiere che si sovrappongono, di cui non resta traccia se non in quel senso di mancanza che fa capolino quando ci si ferma. Anche tutto questo connettersi, il mi piace senza il contrario, la conversazione momentanea, è un chiudersi al rischio del rapporto profondo, alla domanda del che fare di noi.
È sommamente triste dipendere dalla velocità di una risposta e dalla riconferma che se l’indeterminato altro esiste allora, forse, anch’io esisto.
p.s. nulla come il walzer, per me, rappresenta il rifiuto di ogni fine. La maschera del momento che dura il tempo della festa.