molti anni fa

Molti anni fa a quest’ora nascevo. Erano in pochi attorno, però il loro amore non mi sarebbe mai mancato nella vita. Magari a volte non eravamo d’accordo, ma l’amore era li a testimoniare che nascere è già un legame forte che implica la crescita assieme.
Posso dire che il legno dei tavolati di abete si sarà spruzzato d’acqua calda e un po’ di sangue per benedirlo, che la ruvidezza del lino con cui mi hanno avvolto sarà stata un motivo per cui strillare più forte, che la copertina di lana era pronta da tempo e che, dopo un bel po’ di trambusto e di pianti, il suo calore aiutò il sonno. Magari ancora non vedevo, ma in quei momenti, sentivo il sorriso di mia madre e la sua stanchezza felice. Sentivo anche la felicità di mio padre e quella perplessa di mio fratello che guardava dal lettino. Mi avvolse, assieme alla coperta, la felicità intensa di mia nonna che mi vide con gli occhi sereni di chi aveva visto molto nella vita.
Sentivo attorno il caldo e i temporali di giugno, l’uno e l’altro sono frequenti da queste parti e se non era piovuto da poco, l’aria sarà stata calda e mossa dalle persone che si affacendavano attorno al letto.
Era notte fonda ed ero stato svegliato, in un’aria mai sentita, la casa era nuova come ogni cosa, c’erano ombre, colori e sensazioni mai provate. Cosa si prova nascendo? Credo si provi il distacco che si sentirà per sempre, il tradimento delle nostre illusioni che dovremo poi instancabili, cercare di colmare e per farlo, come il bimbo di sant’ Agostino, cercheremo di spostare il mare con una conchiglia. In quel momento abbiamo trovato noi presenti e la nostra assenza di certezze, e abbiamo condensati i bisogni in grida prima che in parole.

Ma io sono stato fortunato e ho potuto avere un amore che mi ha accompagnato, un volermi insegnare che ha creato la coscienza dell’ignoranza e la voglia di apprendere. Ho avuto la fortuna di avere amori che mutavano con me, che mi aspettavano quando mi attardavo, che mi precedevano se c’era pericolo. Lì in quella stanza, al secondo piano, eravamo tutti ignoranti di futuro, non ne sapevamo nulla ma c’era amore e fiducia e questo l’ho sentito anche quando il cielo era più scuro.
Eravamo tutti pronti a crescere, anche quelli che erano già grandi, con i timori e la sconsideratezza che accompagna la crescita, eravamo già pronti a parlarci, ad essere assieme, a prenderci cura, a camminare tenendo una mano.
Le mani si sono scambiate nel tempo, quella che teneva è stata tenuta ed è stato bello che sia accaduto perché i percorsi si sono chiusi e si sono aperti in un’ incessante voglia di bene.

Sapete qual’è il vero miracolo che si è compiuto allora in me e, in altri momenti, in ciascuno di voi? Che quel bene di allora è stato trasmesso altrove, ha abbracciato e stretto altri corpi, altri cuori si sono messi in sintonia, altro bene è stato generato e si è moltiplicato.
Di tutti quelli che erano in quella stanza è rimasto mio fratello, ce lo siamo ripetuti qualche volta e dopo un momento di sospensione ci siamo anche detti che ci vogliamo bene. Più di allora.
E abbiamo sorriso.

amo la vita

In fondo, per amar la vita, amo l’erba libera dei viadotti,
le loro transenne prive di cura,
tutto ciò che osserva il balenare della fretta,
tra solitarie parole nelle auto,
e cartelli che sbiadiscono i divieti.
Amo l’indifferente solitudine di chi sparge i suoi semi,
la costanza indocile di chi cresce nei declivi,
e apprezzo la fatica della pietra che non rotola,
mentre cerca sodali e non li trova.
Amo la tenue profondità del muschio,
il suo gratuito verde,
e l’infinita tenerezza che a noi, davvero inutili,
regala erba per presepi personali
di stagnola e carta pesta.

buona festa della repubblica

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Possedevo una collezione di cartoline. Erano centinaia e centinaia, formato 15 x 10 , in bianco e nero, alcune colorate a mano, quelle recenti a colori. Le tenevo tutte diligentemente in tre scatole da scarpe, conservate nel mio mobile dei tesori, in soffitta. E lì rimasero in un trasloco poco attento. 

Per costituire la raccolta, conservavo quelle che arrivavano in famiglia, ma la maggior parte le ricevevo in regalo da chi eliminava ricordi o raccoglieva i francobolli e lasciava il resto. Erano per me la scoperta familiare del mondo, le ordinavo per Paese e per città. Qualche volta, con un epidoscopio, le proiettavo sul muro e  guardavo ingranditi, i luoghi immobili, le persone fissate in pose attonite o indifferenti, le fogge d’ abiti e le insegne fuori moda. Le città erano fatte di piazze con statue e caffè, molti Garibaldi e Vittorio Emanuele 2°, tavolini con tovaglie e camerieri in frac, e avventori distratti. Oppure erano chiese, palazzi, presi di mezzogiorno o di notte, quasi sempre vuoti di presenze. Molte terme e file di persone schifate con grandi bicchieri d’acqua in mano. Altre ancora, erano cartoline folcloristiche con donne e uomini in posa nei costumi tradizionali. Il Vesuvio fumava, la curva del Golfo era presa da un angolo che doveva avere un punto geodetico vista la costanza dell’arco. Il mare ovunque fosse, aveva tramonti o albe costanti. Le montagne, a parte qualche appenninica confusione di rocce e bosco, erano scabre: molte tre torri di Lavaredo , oppure le grandi vette del Bianco e del Cervino sbalzate contro il cielo nelle loro nevi immense. Quelle spedite durante il ventennio avevano piazze con edifici squadrati decorati da fasci di marmo e statue del duce. Erano foto di poste, prefetture, case del fascio, in un biancore metafisico che svuotava l’idea che ci fossero state persone attorno. Non poche, durante quegli anni, venivano dalle città nuove dei territori di bonifica: i veneti scrivevano ai parenti rimasti in Veneto. C’erano anche quelle delle colonie che, Asmara a parte, avevano sempre indigeni allampanati con lance e un tucul sullo sfondo. Qualcuna osè mostrava ragazze giovani col seno nudo (a me sembravano bellissime) con un commento allusivo alle libertà sessuali dello scrivente. Venezia era fatta del palazzo Ducale, san Marco, Rialto e la Salute. Torino era la Mole e Palazzo Madama, Milano il Duomo e la Galleria. Firenze, palazzo Vecchio, il David, ponte Vecchio prima della cura. Roma, rigorosamente san Pietro, che in un paio di cartoline facevo fatica a riconoscere in quanto scattate prima dell’apertura di via della Conciliazione. New York  aveva la statua della Libertà, il ponte di Brooklyn, e con Chicago condivideva i grattacieli. Era una iconografia talmente codificata che sembrava uscisse da un libro di geografia. Ma a me sembrava un mondo più vero di quello dei libri, perché qualcuno era partito, aveva visto e spedito una traccia che voleva far conoscere. Guardavo e vedevo città lontane, posti inusitati, due cartoline venivano persino da Tien tsin, la legazione italiana in Cina, ed erano di legno sottile, bamboo penso, senza fotografie e con dei disegni sfumati vagamente montani. 

Immaginavo i luoghi e chi le aveva spedite. C’erano molti anni di cartoline, dalle prime ingiallite dell’inizio secolo, con molte stazioni e strutture di ferro, fino agli anni ’60. E non mi accontentavo di guardare le fotografie o i disegni, leggevo l’indirizzo, i nomi, le frasi. Le parole si ripetevano, da quelle formali, più antiche che davano del lei, rassicuravano sulla salute e sull’affetto in corso a quelle più confidenziali e recenti, che parlavano di pensieri inusuali (il tanto si ripeteva molto), di abbracci, di desideri (vorrei tu fossi qui), di baci non meglio specificati. C’erano gli auguri, qualche notizia sul tempo o sulla città (di solito bella o bellissima), notizie sui parenti visitati, sul cibo sempre abbondante, sul clima. Molte, le più recenti, avevano i soli saluti e la firma. Le calligrafie mutavano negli anni e diventavano più appuntite, meno panciute e accurate, non di rado all’inizio, c’erano firme malferme che nel tempo si erano mutate in geroglifici. C’erano cartoline di emigranti in sud America e negli Stati Uniti,  che raccontavano della voglia di incontrarsi e chiedevano notizie.

Fino al 1945, gran parte delle cartoline erano firmate da uomini, oppure da coppie. Erano rare quelle con firme femminili e comunque erano indirizzate sempre a famiglie o altre donne. Insomma le ragazze della mia raccolta, viaggiavano accompagnate, oppure non scrivevano. Immaginavo viaggi e luoghi prevalentemente maschili, avventure di cui però, non riuscivo a percepire le modalità perché non sapevo come si muovessero per davvero. Qui non serviva Salgari, questa era la normalità eccezionale del viaggiare d’allora: c’erano navi, treni, corriere, ma cosa avvenisse durante quei viaggi non lo diceva nessuno. Così mi facevo raccontare. In famiglia si era viaggiato parecchio per lavoro, così emergevano disagi, tempi lunghi, orari molto precari. Capivo però che non era quello che capitava alle mie cartoline. Dovetti leggere per capire di più e per connettere il senso delle frasi che leggevo con le vite. Studiare sociologia mi ha aiutato a ripensare a quel mondo che si muoveva con relativa difficoltà e per il quale ogni viaggio era una cosa singolare da testimoniare. Parecchi anni dopo capii anche perché luoghi, grafie e messaggi erano mutati. Più stringati, più liberi di dire, più frequenti per le mete di vacanza vera, il mare, la montagna. Senza più alcuna restrizione sul destinatario, con allusioni più esplicite al rapporto affettuoso tra chi scriveva e chi riceveva. Dall’Italia Umbertina, si era passati attraverso il fascismo (spesso le cartoline del ventennio riportavano accanto alla data, l’indicazione in numeri romani dell’anno fascista, qualcuna i saluti fascisti), poi nella Repubblica. Le donne e gli uomini avevano cambiato le loro possibilità di movimento, erano più liberi. E cambiavano i soggetti delle fotografie, meno monumenti e più luoghi di vacanza. Insomma si era messa in moto l’Italia e lo scriveva attraverso una cartolina che testimoniava una possibilità, una libertà e non più una necessità.

Non so perché mi sia venuto in mente questo collegamento, ma credo che la festa di oggi c’entri: buona festa della Repubblica a tutti.

http://https://www.youtube.com/watch?v=Y8HfQ7C8NFQ

non dare caramelle agli sconosciuti

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Fuori il cielo è diventato color piombo. Ha anche la stessa consistenza. Solo le nubi verso occidente sfrangiano al giallo. A chi conosce un po’ di chimica qualitativa viene da sorridere perché i sali di piombo sono rivelati dal giallo e l’aranciato. Intanto cumuli nembi, incuranti delle spiegazioni sui colori, si sono caricati di lampi, e adesso tutto si sussegue con quel timore atavico che lega l’uomo alla folgore. Finita la festa di saette, alcune vicine, sarà la pioggia ad avvolgere strade e case.

Tutto consequenziale, prevedibile, si può essere persino grati del rumore sul tetto e del brontolio che s’allontana. Evidentemente, non c’è nulla da capire, basta sentire e vedere.

Nell’uso delle parole, ben più pericolose delle saette, c’è un senso che appartiene a chi le dice. Chi ascolta, non di rado, manifesta una prevedibilità che coincide col desiderio. Si vorrebbe finisse in un certo modo la frase, il racconto, oppure capire così tanto da coincidere con la testa di chi ha scritto. Ma questo è il caso migliore, perché la maggior parte ascolta o legge distrattamente: non vuole fare fatica. Per questo non si deve spiegare, evitare le glosse che peggiorano l’incomprensibilità. Pensate ai vostri anni scolastici o ai libri complicati, chi leggeva davvero le noiose note a piè di pagina, o peggio a fine volume, spesso più oscure del testo e soprattutto quando si leggeva, quell’andare avanti e indietro non peggiorava forse l’attenzione,  rivelando i buchi e l’ignoranza pregressa?

C’era però un fatto piacevole in tutto ciò, l’attenzione sviava verso angoli inattesi, poco spieganti, ma interessanti e fecondi. Spesso emergeva l’idea che superata la fatica quei pensieri così freschi e nuovi sarebbero stati ripresi, che qualcosa di originale sarebbe nato da quello che si comprendeva più o meno. Non andava così, ma l’impressione che qualcosa di utile fosse nato dall’incomprensione restava.

 Per questo bisogna accettare l’oscurità.  Anche propria. Perché è feconda e perché le parole nel migliore dei casi sono imprecise. E poi non si vuole davvero dire tutto, ma ciò che conta è selezionare chi è curioso, e può diventare complice. Cioè talmente vicino da interagire con le nostre presunte oscurità.

E per questo penso sia meglio non dare caramelle agli sconosciuti, le masticherebbero, impazienti, chiedendone altre. Una caramella come una nube, non si spiega, ma  che fine farebbe la dolcezza di ciò che davvero si vuole condividere?

a proposito di enigmi, meglio il primo o il secondo brano? 🙂

allure

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Queste strade medievali sono gole di montagna, tengono luce, odori, uomini, tutto stretto e frammisto alle pietre, ai balconi, alle porte, a quel taglio di cielo che sembra sopra, lontanissimo, ma oltre ogni nube, azzurro. E alla fine ci si riconosce, prima che per i volti, per una allure comune che non c’è altrove. Questo è un senso di vicinanza lieve. Cittadina e da borgo, assieme. Sotto il portico d’una casa importante, del ‘500, c’è una delle poche pescherie della città. Già di primissima mattina i banchi di marmo inclinato, si riempiono di pesci che vengono da Chioggia, Porto Levante, Codigoro, Caorle, poi verso le 11, cominciano ad arrostire e friggere, perché il pesce c’è chi lo vuole vivo, o quasi e chi lo vuole cotto. E stamattina l’odore delle sarde, dei calamari, dei totani, delle schie, degli scampi, delle rade e preziose moeche, invadeva la strada. Veniva spinto ad ondate, ben oltre la pescheria, dal movimento delle poche auto, dalle bici, e soprattutto, dai passanti che pareva volessero uscire dal profumo di fritto e però rallentavano annusando. Chissà cosa pensavano le teste che già erano nella zona dell’appetito, della crisi ipoglicemica di tarda mattina. Fame non era, qui non c’è fame, mai, però appetito, quello sì. E salivazione accelerata che ferma i discorsi e rallenta il passo, perché si associa, si pensa al pranzo, a ciò che lo accompagna. E non era finita la festa perché bastava fare pochi passi e il forno, pochi metri più in là, cambiava la mappa del senso, con ondate di profumo di sfilatini croccanti appena sfornati, di paciose pagnotte, di morbide mantovane, teneri ferraresi, e di dolci : crostate quasi casalinghe, con marmellate dense dai colori scuri, spumiglie colorate, fugazze da vino, e ancora, prosciutto appena affettato pronto a finire nella morbida croccantezza di un panino già tagliato. Insomma un insieme che annullava il fritto precedente e confondeva definitivamente l’aria. Ti prendeva per mano e ti accompagnava nella gloria del bar all’angolo dove il caffè cedeva il posto, vista l’ora, all’aperitivo, agli sguardi lunghi delle coppie sedute, alle chiacchiere al banco, ai salatini distratti, al guardare l’orologio per accorgersi che era quasi ora di pranzo.

Questa è l’allure, il fascino che diventa profumo per quei mitocondri che s’annodano da qualche parte del cervello e che rendono un posto, luogo, casa e ricordo. L’inconcepibile essenza che altrove non sarà uguale e che allora, con moderazione, diventerà nostalgia. Leggerissima nostalgia per un ritorno ipotizzato, a volte impossibile, se si è lontani, e che consentirà di non essere mai definitivamente sopraffatti dal presente perché c’è un’allure che è nostalgia di un luogo, di un profumo, di un suono, in cui abbiamo sentito diversamente. Proustianamente felici d’una piccolissima assenza e infelicità.

p.s. in questa strada ci sono nato e quindi la conosco bene. E distinguo il ricordo dall’adesso. L’adesso è ancora questa atmosfera particolare che si realizza con ingredienti nuovi. E questo mi fa un po’ felice di una vitalità che resterà in altri ricordi e appartenenze.

http://https://www.youtube.com/watch?v=chtb72sLenc

problemino

Che fare degli incompetenti, dei furbi, degli arruffoni, degli scansafatiche, dei disonesti, degli imbecilli, presi ciascuno nella sua peculiarità, e di cui tutti abbiamo nozione e non per sentito dire, perché sono attorno. Ovunque. E che fare dei meccanismi per cui non di rado, alcune di queste persone, arrivano a posti di responsabilità, presunta, perché quella vera non se la prendono? Insomma il problema è come fare in modo che esista una responsabilità personale, anche di chi li assume, li promuove, li giudica. Finora l’esercizio della pubblica opinione, anche quella avvertita, raziocinante, meno eticamente ottusa, si è esercitato sulla politica. Non che questa sia esente da responsabilità, anzi, le responsabilità sono proprio nella sua incapacità, passata e attuale al netto delle tante riforme spacciate per tali, di incidere sull’efficienza, sull’eliminazione della furbizia e del privilegio, sulla convenienza e sui poteri occulti. Che essendo occulti, questi ultimi, mica si mostrano, ma fanno e per fare hanno bisogno di una galassia di inefficienze, di controlli assenti, di controllori comprabili, di procedure farraginose e lavoratori svogliati, ecc. ecc. La politica è responsabile, ma chi governa o è all’opposizione, di più, perché dalla teoria e dalle promesse deve passare alla pratica. Quindi alla politica, seguendo il concetto di sussidiarietà, ovvero a partire da quella più vicina e non da quella più distante e irraggiungibile, va chiesto di provvedere. Però la cosa non si esaurisce qui. Cerco di esemplificare con un episodio recente. Ad una riunione di piccoli imprenditori, c’erano alti lai sull’inefficienza della politica, sui balzelli intollerabili della tassazione, sulla burocrazia e sui controlli e tutti, dico tutti, dicevano che bisognava cambiare, ovvero togliere controlli, togliere tassazione, rendere libero il mercato del lavoro, eliminare le contrattazioni sindacali, ecc. ecc. Tutto vero ma nessuno che chiedesse una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, controlli reali sul lavoro nero, una lotta vera alla corruzione, un fisco equo che facesse pagare però le tasse a chi non le paga. Sommessamente è stato chiesto dov’erano quando andavano in comune a chiedere i condoni edilizi per l’edificazione abusiva dei capannoni in area verde, per necessità magari, ma abusivi. Dov’erano quando invece di investire nell’azienda costruivano appartamenti, investivano all’estero, esportavano capitali. Dov’erano quando il lavoro senza tutele era un elemento forte di controllo della produzione, con il nero, l’evasione dei contributi, la riduzione dei livelli di sicurezza perché costavano. Dov’erano quando invece di pagare le tasse aspettavano il condono tombale e intanto compravano le auto di lusso, le barche da 21 metri, le ville in collina. Erano in un altro Paese oppure in questo, e se il sistema era, ed è ancora, quello, che classe politica ne sarebbe uscita che consentisse il patto tra crescita e potere? Non ci sono state risposte sul merito, ma è stata rivendicata l’onestà dei presenti. Cosa che io credo, ma la realtà mi dice altro e allora credo che il problema del dov’erano verrà rimosso assieme all’invito di chi dice cose maleducate. 
Preciso, la società dei migliori non esiste e non è neppure possibile, e forse è meglio così perché sarebbe terribile nella sua ricchezza di giudici, però esiste un utile comune, qualcosa che più o meno suona così: non faremo il massimo però un accordo su quello che è mediamente equo e fa stare meglio si può trovare. E questo accordo è compito della politica oppure di chi sente che le cose così non vanno, io penso di entrambi, non di uno solo, di entrambi.

la gioiosa fatica dell’incerta direzione

Quando emergeranno le conseguenze nessuno di quelli che aveva sostenuto ciò che le ha generate riconoscerà l’errore fatto. Questa certezza mi fa pensare di essere sempre dalla parte sbagliata, di non vincere mai davvero e questo mi rincuora, mi dice che è sempre l’evidenza a cambiare le cose oltre a quello che posso fare. Un senso di onnipotenza che se va, un essere minoranza congeniale al dubbio, al non avere fedi trascendenti. I dogmi, i proclami, rassicurano chi avrà sempre ragione, vincono più che convincere e al loro rovesciarsi diranno che è la storia, la logica, a determinare le conseguenze. Ma questa è una storia diversa da quella in cui confido, perché una fede sotto sotto ce l’ho ed è nell’uomo, nella somma positiva che genera la sua voglia di vivere. La stessa voglia che prima gli fa credere alle chiacchiere che non includono la realtà ma una sua visione di comodo e poi lo spingono a disfarsene. E così mi fido di ciò che accadrà, dell’ evidenza che fa combattere le battaglie che si pensano giuste, che non rincorre un consenso di potere, e alla fine, quando si sbaglia, è pure contenta e fa riconoscere il proprio errore. È questo vedersi in movimento, nella gioiosa fatica dell’incerta direzione contraria che fa sentire vivi e dentro al mondo. Quello che ci approssima e quello che è.

http://https://www.youtube.com/watch?v=BRA8cTxdJEE

transizione

Ci fosse stata una solida ragione,

un puntello logico,

un sostegno alla certezza di non essere nell’ eterno transitare.

Non c’era, e per questo, abbiamo accumulato oggettività fugaci,

costellato di specchi le pareti,

e ci siamo additati, con pacche sulle spalle, allegri,

riconoscendo le solidità apparenti,

sicuri d’esser vivi nel tempo che per noi faceva.

E come in un lampo, che pur pesa agli occhi, 

ci siamo trovati carichi di passato non cucito,

vestiti dei brandelli che avevano molto promesso.

E oggi, che le cose con noi sono invecchiate,

senza fedi dovremmo santificare il grigio,

riconoscerne la capacità di contenerci,

e con le dita addolcire gli spigoli per osservar la polvere,

che posa sui nostri piedi,

e su quel solido che tanto abbiamo amato. 

Conoscitori di lampi, 

adoratori d’intelletto, 

abbiamo evitato il colore della modestia,

che è difficile nel suo certificare il tempo,

le siamo sfuggiti, certi di solidità apparenti, 

finché, stanchi, abbiamo reso malfermo e incerto il passo.

Sappiamo ora, che non è la velocità a salvarci, 

ma la vista lenta che le cose scava, 

e ne estrae il colore solido e grumoso

per restituirle a noi, beffarda,

il tanto di chi sa che transitare è condizione d’essere.

http://https://www.youtube.com/watch?v=NPDCsi1mbhE

lasciare

Comincia quando ci si rende conto e ci si prepara al lasciare. C’è sempre un senso strano nel finire un’esperienza. Il senso dell’incompiuto e della possibilità interrotta, ad esempio, ma anche le soddisfazioni e l’interagire forte. Poi la stanchezza per le sconfitte, ché queste sempre fanno capolino nei bilanci, assieme al senso di onnipotenza frustrato dalle cose. E questo non è male, perché insegna la misura e l’ autoironia nel vedersi fare. Senso del proprio tempo, cosa diversa dall’età, percezione dell’essere il prodotto attivo di un passato che ha una sua visione sul futuro. La libertà che è connessa a questo è impagabile se non giudica, se è curiosa, perché possiede la partecipazione e il distacco.

Cosa resta di un anno vissuto nella novità e nel confronto? L’aver appreso cose inusuali, visto le solite piccolezze, i contrasti umani che definiamo umani per tollerarli, sentito la propria inadeguatezza e allo stesso tempo la spinta a fare cose nuove. Insomma materiale importante per l’area grigia che precede ogni futuro.

Ci sono anche molti chilometri percorsi. Hanno un senso strano i chilometri, sono occasione di vedere, scoperta, stanchezza, stazioni di servizio, mutare delle stagioni e del tempo, lavori in corso, file, ritardi e anticipi, pensieri. Soprattutto pensieri che non possono essere fissati, che evaporano e si respirano, pensieri che accompagnano e quindi amici. Anche pensieri grevi, decisioni, contrasti, insofferenze, sconfitte. Ecco che torna questa parola, sconfitta, ed è il lasciare che la fa emergere perché la rende definitiva. Senza una possibilità di cambiamento. Riscatto si sarebbe detto un tempo quando sembrava che le cose davvero potessero mutare per nostra collettiva volontà. Lasciare e non essere mandati via, c’è una voluttà nel pensarlo che allevia il senso dell’incompiuto. Lasciare per volontà è una bellezza che ci si dedica. 

p.s.volevo titolare queste righe con un termine poco usato: onusto. È quello che associamo alla pienezza di un fare, riservato ai condottieri, ai pensatori forti, ma io credo, anche a chi ha davvero vissuto. Purtroppo e per scelta sono un miles, quindi l’essere onusto non mi appartiene, perché il miles ha tutte le difficoltà dell’incompiuto e il sorriso consapevole che a far danni non si smette mai.

 

ballata dell’andare e venire

saliamo sulle nostre macchine veloci,

e andiamo, andiamo, 

per poi tornare.

Dietro gli occhiali scuri difrangono le nubi, 

tagli di luce nei cieli gonfi e

insegne di stazioni e fari nella notte,

e code alle casse, caffè nelle piazzole,

erba zeppa di rifiuti e camion stanchi,

per poi ancora andare.

A volte cogliamo un verde che ci sfugge,

un suono di campane, 

un fumo che si perde,

ma comunque andiamo,

oltre campi chiazzati di papaveri, 

verso montagne che restano orizzonte,

andiamo,

fendendo stanchezze da mangiare,

e asfalto che si somma,

al tempo sciolto nell’andare,

andiamo per tornare. 

Senza un grande senso,

senza neppure un sogno che davvero possa dirsi grande,

semplicemente andiamo per tornare

e in questa piccola parentesi chiudiamo gli anni,

sporchi di necessità senza verifica,

andiamo per venire e poi partire.