segni di vita

Crepitano i fuochi di marzo. Mucchi di sterpaglie da cui parte la rinascita, bruciano sulle colline. Sono legni incauti di gemme, che ardono assieme ai tagli d’autunno, che si fondono col marcio che s’era scordato, che cantano in un rumore di schiocchi e ansimi, che soffiano sibili d’umori, finché superato il crinale del primo calore, mormorano, col confuso uniforme di piccole voci delle cose che disfano. Legna attonita nel cambiar di stato, forma, intendimento. Si sarebbe sciolta nella terra e s’inerpica in colonne di fumo verso il cielo. La fiamma generata sospinge, sorregge, mostra nel crepuscolo, il fumo bianco di vapore, fino alla notte. Poi regnerà solo lo sfogonare delle fascine gettate per ultime, col fuoco che pian piano s’ acquieta, borbotta, fino al silenzioso letto di braci, rosso come il cuore della terra che cuoce. C’è ancora un piccolo rumore che permane, d’aria che si sposta e irradia, ma è simile a un vento che pur parla e si confonde con la brezza della notte. E nessuno l’ascolta mentre una forca o un badile disperde la brace. 

Distante chi vede i fuochi capisce che la primavera è annunciata. Lei, di sicuro, ha ordito da tempo, s’è gonfiata sotterra, ha risvegliato orologi di radici, ricominciato a bere liquidi e sali, si è stirata nel buio assoluto e ha capito con i suoi strani sensi, il calore che arriva. Ora ha bisogno di luce, allunga un braccio, una mano che scava, poi rizza le spalle ed inizia una spinta possente incurante del peso, della crosta così dura rispetto alla sua tenerezza bambina. Vincerà.

Lontano dai fuochi, qualcuno si chiede dei presagi, pensa disgiunto, che il cibo porterà bene alle vite. Ma cos’è il suo cibo? Smarrita la fame nell’oscenità della rappresentazione continua di cuochi che non vogliono essere tali, ma bensì capi e creatori. Artisti della serialità che si disfa, sollecitatori di succhi interiori, di sintesi mirabili raccontate, profeti di appagamenti dove il con-vincere è spesso superiore al reale. Consci che nell’artificio, della fama cosa resta se non l’apparenza e l’eccitar dei sensi? Così si muove il gusto che fonde e divide, la vista che s’appaga in geometrie sintoniche di colori (ma diciamocelo, ormai senza fantasia, e sempre uguali dopo la prima sorpresa), e l’odorato, pur in sé sufficiente (ahimè spesso vilipeso dopo la prima ondata di profumo e di calore), araldo contraddetto dal gusto nel discernere il buono dal bello. E tutto questo che c’entra col crescere del grano, con l’erba che ingrasserà animali di pascolo? Chi metterà assieme la semplicità d’una sapienza che ha trasformato l’uomo da raccoglitore senza patria in stanziale geloso di fatica e conoscenza? Nel cibo c’è la certezza della vita, il possesso che sottintende la continuità, in fondo le patrie sono manifestazioni di stagioni favorevoli e di abitudini a mietere e pascolare, di necessità di focolari, di lingue per dirsi e dare nomi alle cose prima che confini, ma la storia è fatta di bulimie più che di necessità soddisfatte.

I fuochi annunciano il tempo del curare se si vorrà raccogliere. Parlano oscuramente a chi non decifra i segni, a chi non legge le faville che seguono l’andar verso. Verso cosa se non noi stessi? Verso chi, se non oltre il limite delle vite che vogliono camminare e sono inchiodate su sedie, metafore di poteri immobili.

I fuochi parlano di fortuna, di correnti che la portano, parlano di cibo ancor vivo, di possibilità che si scontreranno nel caso. Segnano le colline e s’accovacciano nella notte, sono segni che possono diventare porte di significato, curiosità momentanea, ricordi di gesti ormai senza ragione, oppure scrollare di teste che corrono verso altri segni. Sono annunci d’immanenza che comunque avverrà, più forte di chi faticosamente l’interpreta e s’affida a ciò che si è ripetuto. Ma il segno è sempre più inquietante dell’apparenza e quell’oscura radice che preme è perifrasi del profondo che ciascuno contiene. Che rinasce comunque, lo si voglia o meno, in sommesso richiamo di cambiamento. Non ascolta nessuno questa forza, icasticamente rappresentata nei fuochi: ciò che si disfa e sale al cielo, feconda la terra. Così pochi si curano del nuovo che arriva e perdono i significati, eppure basterebbe l’acuta semplicità del connettere la vita col tempo e tutto assumerebbe un senso. 

con stima

La scelta di avere interessi lontani e inutili allo scopo delle “carriere” dona un distacco che permette di assorbire l’amarezza generata dai contrasti aspri con le persone obbligate. E a questo soccorre la disistima che sorpassa il valore, che certamente esiste ma è piccola cosa di fronte al comportamento e così si mette argine alla generosità, si separano i mondi. Questo accade nella vita di ciascuno, a partire dal lavoro dove la stima viene spesso violata e contraddetta in favore di un interesse personale oppure per arroganza o piccineria. Ma la stima è una consapevolezza che investe tutti i rapporti : non stimiamo tutti e di certo veniamo ricambiati. Non occorre neppure farsene una ragione, basta capire che la stima è una costruzione che si riferisce alla persona e non è immediata come la simpatia, l’affinità o un altro moto dell’istinto. La stima la si dà e la si perde, è un sentire dinamico dotato di un consistente intervallo di verifica.

Quando alla alla fine di una lettera si scrive con stima si dovrebbe pensare che quell’atteggiamento non è un obbligo e neppure una forma codificata per finire senza la banalità dei saluti. È un atteggiamento dell’animo che può non condividere, ma riconoscei caratteri positivi dell’altro e ne vede una statura eguale. Non è di necessità un amico ma è un eguale nell’agire, un simile. E questo non si riferisce all’umanità e non è neppure un porsi a qualche altezza vedendo chi ci è accanto, questa sarebbe un’aristocratica coscienza della propria condizione più che un’apertura all’altro. La stima è riferita invece alla dimostrazione del valore. Ovvero tu vali per me per quello che fai e non per quello che dici e questo mi fa pensare che il tuo pensiero coincida con l’azione. Non si stima l’intelligente disonesto, ma chi cerca di tirarsi fuori da una condizione difficile con onestà lo si stima. Quindi in quella stima, che si pone alla fine di un discorso, c’è un’ affinità e un’ eguaglianza nella diversità, per questo non la si dovrebbe disperdere inutilmente, proprio perché è qualcosa che si aggiunge a una relazione. La arricchisce, è la condizione per una sua crescita. Senza stima l’edificio che possiamo costruire sul sentire si sgretolerà e ricostruire una stima violata è sommamente difficile.

l’oltraggio della memoria

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C’è stato un trasloco. Uno scendere di mobili e scatole, poi gli operai se ne sono andati. Le persiane abbassate. La casa chiusa. Il vicino cassonetto della carta è stato riempito, ma non è bastato e così, nell’incuria che accompagna la fatica d’altri, classificatori, libri e fotografie sono ammucchiati sul marciapiede.

Ora immagini private, volti, corpi e situazioni accadute guardano il cielo tra gli alberi. Sono foto di bimbi, ora donne e uomini, ma lì in braccio a mamme e zie. Sono donne che sorridono nella neve, alcune mimano il gesto di sciare. In altre immagini, forse le stesse, sono su spiagge ormai sbiadite, a prendere il sole e conversare.

Si immaginano le cose di tutti : riposo, parole, amori, vita. Tutto racchiuso in album o sciorinato sul marciapiede tra cataloghi, preventivi, tracce di lavoro passato. Si mescolano, come accade a tutti, le vacanze, le intimità, con la vita esterna, fatta di obbiettivi, di sfide oppure di semplice routine. La stessa vita declinata su due versanti e qui riunita ai piedi d’un cassonetto.

In questo quartiere, le case sono spesso segno d’una condizione raggiunta, le ville spaziose, per famiglie ambiziose di successione o di immagine. I giardini piccoli e curati hanno lasciato tutto lo spazio al costruire edifici liberty o modernisti, dalle finestre alte, come vi fosse un ardire la luce e conservarla all’interno. Sono metafora delle vite con mete raggiunte, da mostrare prima che vivere e molto piene di cose. Quindi hanno molto di cui disfarsi quando un estraneo le conquista, oppure semplicemente, le abbandona. Così il passato finisce accanto al cassonetto.

Si saranno detti: basta la memoria o forse si cancella anche quella.

Nei mercatini dei paesi dell’Est Europa, trovavo queste ondate di passato gettate su carretti. Come se una burrasca avesse rivoluzionato l’ordine  e immesso strati di profondità sulla spiaggia e così le cose, forse amate un tempo, erano le une sulle altre, a generare un nuovo paesaggio. Ma durava solo un giorno e la sera, a mercato finito, per terra restavano carte, libri, fotografie di persone sconosciute, finché una scopa non metteva tutto assieme e archiviava passato e vite.

modesti silenzi

Rende silenti, raccontare la propria tristezza,

subentra un fastidio per la propria voce,

per le parole che si conficcano nell’aria,

così, per determinazione, si potrebbe narrare la gioia inconsulta, 

le piccole percezioni che riempiono il cuore, 

ma ancora servirebbero troppe usurate parole,

solo eco a chi ascolta.

E ancora il silenzio si farebbe strada, allora

e per respirare assieme si direbbe,

non come si sta, ma come si starebbe.

Quando le parole urgono e non bastano, 

quando trabocca la malinconia, già difendere chi ci è caro

è anch’essa cura.

E i modesti silenzi che contengono la noia di sé, 

piccolo argine all’ingiusta furia d’essere incompresi,

dovrebbero essere, se non capiti,

almeno essere modestamente amati.

Brutta cosa aver troppe parole,

meglio modesti silenzi usati con amore.

all’osteria del libero amore

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I colombini, dopo aver depresso i tulipani, crescendoci sopra e stortandoli senza riguardo, sono volati via. Metaforicamente volati, visto che artigliano con piacere la ringhiera e si rituffano tra le piante e insozzano il terrazzino. Pare che questo luogo sia favorevole ad amplessi e idilli, agli amoreggiamenti di colombi incontinenti.

Insomma mi trovo ad essere l’osteria del libero amore dopo tre covate che s’incrociano Kamasutramente tra di loro.

Spero nella pioggia, nella nascita dei tulipani e delle fresie, spero che si riprenda l’elicriso che vedo un po’ provato dalla cova.

Il rosmarino, pusillanime, ha ceduto le armi, resiste il timo e la ruta, furoreggerà la menta impavida. Forse i peperoncini mi faranno il regalo della loro autosemina.

Discosti e per loro conto, due piante di lantana, attendono sornione il primo accenno di tiepido costante.

E i colombi di tre generazioni impazzano.

non dite che non ve l’avevo detto

C’è una diffusa tendenza a belligerare che circola, mostrare i muscoli conta più del ragionare. E del resto forse non succede quando la misura è stata colmata? Intanto si scaldano gli animi per averli pronti quando sarà ora di rafforzare le scelte compiute altrove, basta che nessuno pensi di perdere più di quanto guadagnerà. Provate a riflettere: non è questo il senso più vasto dell’attrazione di un’idea, di una fede, ovvero ficcarsi in un futuro che sia meglio e più vantaggioso dell’adesso? Questo funziona quando è l’individuo a essere solo e non crede più di poter soddisfare i bisogni con un’azione comune e cerca altri che alzino la voce con lui, più che ragionare e costruire. Così qualcuno la butta sul facile: scoppierà una guerra, ma non spiega il perché e dove.

Sembrerà strano ma concordano i pessimisti che allineano gli indizi e gli ottimisti si rifanno agli interessi evidenti, anche se entrambi sperano che accada altrove.

Il bosco è secco e nessuno pulisce, basta un fiammifero a scatenare l’incendio, solo che ora nessuna Danzica sembra sufficiente per morire e la fame del disagio è disarmata. Alcuni pensano che ci sarà un fragore lontano e che non toccherà  a loro. Altri hanno paura. Una fottuta paura boia ma intanto si coprono gli occhi e nessuno fa nulla. Anzi soffia sul fuoco delle fobie e ci si spacca in piccoli agglomerati di individui e consegnandoci nelle mani di chi dice che ci difenderà. Da cosa? Da chi?

A guardar bene, i capi che alzano la voce, sono gli stessi che per dare sbocco alle paure, indicano il nemico, armano la mano, e cercano di dimostrare che sarà facile e non c’è nulla da perdere. Tanto, dicono, avete perso tutto, peggio di così?  

Altri dicono che non c’è via d’uscita senza rinunciare a pezzi di libertà e pensano sia il meno peggio.

Però c’è un peggio e crearlo con le proprie mani non rende creatori, ma servi al giogo di qualcuno. Se il mondo scivola, se i conflitti lontani si avvicinano, se in casa si alzano i toni, resta a noi dire e fare ciò che è necessario, confrontare i presunti mali, vedere nell’arricchimento di alcuni la povertà dei tanti. Da oltre 70 anni questa parte del mondo è in pace (o quasi perché la ex Jugoslavia dimostra che di facile e scontato non c’è nulla) ma questo è accaduto perché la cooperazione era più importante del conflitto, abbattere i muri più importante che erigerli, crescere e rispettare più importante che chiudersi e prevaricare. Cambiare strategia e approccio porterà conseguenze, i rumori sono tutt’attorno, ma davvero vogliamo barattare la nostra civiltà con lo scontro?
Rispondetevi e non dite che non ve l’avevo detto.

extra ecclesiam nulla salus?

La frattura dapprima è impercettibile, una piccola resistenza al conosciuto che diviene pian piano tensione e incrinatura. È un mutare la certezza perché la realtà muta e ciò induce un uscire di abitudine, il porsi domande senza rifugiarsi in risposte non ragionate. Quando non c’è indifferenza è naturale porsi domande, far spazio al dubbio e guardare con occhi diversi, anche se questo produce un piccolo iniziale spaesamento e deriva. Stiamo parlando di persone socialmente attente, che hanno fatto scelte in passato, provato passioni forti, hanno cercato di capire e interpretare la realtà per poi schierarsi senza criteri di convenienza.

Si potrebbe dire che se a dubbi e domande nuove ci fossero risposte convincenti la frattura si ricomporrebbe, ma purtroppo quasi mai è così. Credo avvenga una svolta in chi dovrebbe rispondere, che è ben conosciuta in economia, viene applicata la risk analysis, ovvero si pensa che la fatica che fare per mantenere nello stesso progetto  le persone che pongono domande non giustifichi la fatica del rispondere e magari il mettersi in discussione. La risposta quindi è sempre negativa perché chi ha il potere pensa che questo sia a tempo indeterminato, e resta fermo ai paradigmi che gli hanno consentito di conquistarlo, scivolando in una coazione a ripetere. Così quella che potrebbe essere una evoluzione comune scivola verso la frattura della reciproca disistima. Qui avviene una cosa strana perché mentre l’avversario può godere della stima, colui che era amico attraverso l’insensibilità alle domande e alla non condivisione induce la sensazione del tradimento e quindi perde la stima riservata a chi ha da sempre idee differenti. Sembra che la domanda che nasce in chi condivideva sia : ma come, eravamo assieme, avevamo le stesse priorità, lo stesso modo di vedere il futuro e ora mi cambi tutto senza coinvolgermi, senza discutere con me, senza accettare che anche tu possa sbagliare? Sono solo io che sbaglio? A queste domande non c’è una risposta che sembra veritiera e si ha la sensazione di una comunicazione unidirezionale, puro esercizio di potere che afferma la sua maggioranza. Così si approfondisce la frattura e poco conta che l’esperienza dica che extra ecclesiam nulla salus, chi diventa eretico è stato spinto fuori dalla conservazione che esclude una crescita e una passione comune. Se questo vale per lo spirito, a maggior ragione vale per quell’insieme di volontà senza assiomi ma con molti tabù, che è la società. Finché si capisce che la salus è proprio fuori della chiesa perché consente di rispettare la realtà che si vede e i principi su cui si sono costruite le scelte della vita.

Dicevo che il conto cinico del potere è fatto tra ciò che si perde e ciò che si acquisisce. È un conto conservativo che vale proprio per il potere e per le sue nuove giustificazioni non per la risposta ai problemi di disagio sociale. Neppure tocca le consorterie, i privilegi acquisiti, le tolleranze per l’illegalità, i favori da elargire, perché questi sono funzionali a quel potere che si dice nuovo ma si regge sul vecchio.
Ecco perché la frattura diventa irreparabile, poteva essere mutazione ovvero un cambiare comune ma è stato prima disinteresse e poi scontro, infine impossibilità del proseguire assieme perché l’ambito non era più condivisibile. In fondo resta il riconoscimento di due fallimenti, anche se credo siano sbilanciati, ovvero da una parte c’è l’idea che ciò che si è rotto era parte di sé e dall’altra invece la considerazione che ciò sia un evolvere necessario delle cose. I problemi veri non sono stati toccati, si è spostato l’ago dell’equilibrio da una all’altra parte ma con una variazione che non ha fatto percepire una direzione, un nuovo che finalmente disegnasse ed attuasse una visione differente del vivere comune. Il campo resta lo stesso, diversi i compagni d’avventura, non i problemi che non sono mai semplici ma esigono verità e pazienza. Doti che il potere difficilmente ha se non è davvero nuovo.

storia potente è il vivere e la vita

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Oltre i vetri case lavate dalla pioggia,

e finestre chiuse per l’acqua di stravento.

Nei minuscoli giardini s’agitano palme

con il loro secco battere di foglie che sembra applauda al tempo.

Ci si stringe attorno, si rinserrano persiane e scuri,

ma non del tutto, restano i pertugi

per occhi curiosi di nuvole tozze e grigie,

e raggi di luce che radono i profili.

Nella vasca dove son nati, due piccoli piccioni,

mescolano le piume infreddoliti, 

mentre la mamma li copre, 

prima l’uno poi l’altro, assieme

e guardo loro

e i rosa e i gialli degli intonaci carichi di pioggia,

come se in essi l’inatteso avesse un senso arcano.

Con noi e senza di noi, muta tutto attorno,

così l’emozione prende e rinserra il cuore come casa,

si chiude nel bene che l’attornia,

si pensa terra fertile di ricordo,

ricettacolo di semi e fiori di campo,

senza necessità d’un nome,

e dentro la sera cala come lacrima,

per dire: ancora di nulla e di tutto m’emoziono.

Storia potente è il vivere e la vita.

 

super stizioni

È come un annodarsi d’intestino, qualcosa che deve sbrogliarsi dentro per lasciar liberi. E bisogna convincersi del disannodare con leggerezza e arguzia acuminata: vedi non è così, non accade ciò di cui hai paura perché è solo (solo?) una paura. Gli specchi non si rompono quasi più, eppure resta un senso di franto che investe l’anima. Il corpo, lo stesso corpo ne è scisso in più parti, come le membra fossero tirate da coppie di buoi in direzioni opposte e il ritrovarsi a pezzi fosse ricomposto con chirurgie maldestre.

Perché ricomporre e non comporre? Cioè accettare il nuovo che si è creato per rifletterci meglio prima di assemblare nuovamente. Gran parte del tempo lo passiamo a ricostruire, come se il prima fosse stato un tempo intrinsecamente felice e solo il perfido aggregarsi di contrarietà ne avesse determinato la fine. Silenziosa o esplosiva. Nel rompere del mito, ovvero in ciò che ci ha contenuto, lo specchio, c’è la rottura del sé: l’identità franta. In un prima, dove eravamo interi e poi invece, divenuti tanti, più piccoli, incoerenti, taglienti alle dita, ma soprattutto allo spirito. E se fosse proprio il frangere che permette la composizione di un sé a dimensione propria? Dai pezzi che riflettono, rifiutando la geometria di linee ritte e portati su più luoghi trovare una immagine che assomiglia. Non quella che tira indietro la pancia, mostra la rotondità delle labbra, scruta le pieghe del volto, indaga quello sconosciuto che sta guardando verso di noi, ma qualcosa di più piccolo, spigoloso e irregolare, frutto di una rottura paradigmatica che genera o rottami incoerenti, oppure l’alterità misconosciuta. Anche la ricomposizione dell’immagine attraverso i pezzi avrebbe una verità ulteriore, ovvero la dimostrazione che non è l’unità il punto di arrivo, ma il suo riconoscimento nella molteplicità. Io sono questo e anche altro, mi riconosco in ciò che vedo di me e la mia sintesi è apprezzare le diversità, farne un poligono di forze che genera equilibri dinamici.

Il mondo virtual-reale è fatto di miliardi di immagini, scritte o fotografate che continuamente rappresentano, narrano storie, mostrano identità subito cancellate dalla successiva. È stata creata la più grande discarica di sé mai inventata nella storia dell’umanità. Frammenti. Simboli che sanciscono inizi e conclusioni continue. Si strappa la fotografia dell’ex amato, la lettera (la mail) a lui indirizzata e guardandosi allo specchio si pretenderebbe di essere uguali, oppure di riconoscere la tristezza in ciò che viene riflesso. È una rappresentazione, una approssimazione del sentire ciò che ci si para davanti, mentre la tristezza sarebbe ben riconoscibile in ciò che strappiamo e cancelliamo. Lì, in quell’immagine protesa c’era già il germe della rottura, cioè una falsa unità, un assomigliare a un’ immagine non propria per accontentare (rendere contento chi si ama).

E se l’immagine non ha più un oggetto a cui rivolgersi perché non dovrebbe riflettere sulla molteplicità e sulla solitudine che accompagna l’uomo? Noi cerchiamo l’unitarietà perché pensiamo che in essa ci sia un ordine di natura, un’innocenza perduta, una pace in cui il conflitto esteriore non ci sia e con esso il conflitto interiore. La notizia cattiva è che quell’unitarietà e quell’ordine non c’è mai stato, la notizia buona è che con fatica ci si può liberare dal conformismo che ci vuole ad immagine di qualcosa che non siamo noi. Pensiamoci in quest’era di falsità globalizzate, lo specchio che si frange è ora l’immagine buttata e in questo noi possiamo vedere la ricerca di ciò che siamo davvero oppure la nostra irrilevanza quando ci mostriamo. E siamo irrilevanti quando non siamo noi stessi, quando l’immagine è quella unitaria di uno specchio che distrattamente non ci trattiene per carenza di dialogo. Gli specchi rotti li abbiamo dentro e su questo possiamo decidere se essere o assomigliare ad altri, se comporre o ricomporre. Un insegnamento viene dal mito, ciò che si rompe non è più come prima, comporta un passo avanti, mai indietro. E l’essere differenti è un male se si è in un mondo in cui tutti si conformano oppure diviene la spinta verso il cammino, la solitudine di chi cerca un luogo in cui riconoscersi.

C’è un mito ulteriore su cui vorrei attirare l’attenzione. Qualche giorno fa parlavo di architettura e di un progetto di una casa che a suo tempo mi colpì, E-1027, di Eileen Gray. L’autrice, che di scomposizioni interiori se ne intendeva e le mostrava nel proprio creare, diceva che in quella casa era possibile trovare la solitudine pur restando tra altri. Provate a pensarci quanto questo archetipo dell’essere soli e socievoli, ci accompagni, come bisogno del comporsi a fronte di una scissione esterna, una sorta di non io obbligato. La stanza tutta per sé di Virginia Woolf, le solitudini dell’uomo senza qualità di Musil, il mondo di Orwell, la musica dal ‘600 in poi, la poesia come liason tra il dentro e l’universale, tra l’additare e il sentire. Insomma c’è un bisogno di essere con sé che si esprime attraverso desideri, e questi sono i pezzi di quell’unitarietà che può essere composta solo accettando che ci siano più immagini, che questa sia la condizione per vedersi davvero. Poi come ci vedono gli altri importerà meno, ma almeno non sarà la costrizione a non assomigliarci.

http://https://www.youtube.com/watch?v=KnwasHk94Os

raccomandazione

Non che gliene facessi una colpa, anzi, ero io che mi dicevo imbecille. Per come avevo affrontato il problema, per aver trovato parole poco convincenti e aver dato per scontato un atteggiamento simile al mio.

Se una persona aveva davvero bisogno perché non darle una mano? Non si toglieva nulla a nessuno, non si creavano privilegi. Qualcuno veniva tolto da un’indigenza imprevista, veniva aiutato per quel poco che sarebbe servito a tirarsi fuori d’impaccio e poi avrebbe trovato da solo le soluzioni. Non parlavamo di chissà quali lavori, e neppure di stipendi lauti, sarebbero stati per otto ore di lavoro, 7-800 euro al mese. Il necessario per pagare le bollette e mangiare.  A una certa età non si guarda troppo per il sottile, si capisce che è accaduto qualcosa che non solo non si era previsto ma che non doveva accadere. In fondo è la china che ha un giocatore che pensa sempre di rifarsi al giro successivo e invece, nonostante la buona volontà, è una spirale verso il basso. Finché non c’è più nulla da vendere, e si è toccato il fondo. Noi eravamo stati fortunati, allora perché non aiutare, non dare una mano?

Per anni erano venuti da me fidando che il potere potesse qualcosa. E per alcuni avevo tentato. Niente di illecito, per carità, ma solo quel garantire di persona che erano persone a posto. Con qualcuno aveva anche funzionato. Nel senso che era stato assunto, e mi erano pure stati grati quelli che lo avevano preso perché faceva il suo lavoro e doveva dimostrare che era in grado di essere affidabile. Insomma ne era nato qualcosa di positivo. Poiché le cose riguardavano il privato e non c’era obbligo per nessuno, mi sembrava fosse una solidarietà dovuta, il provare a risolvere una situazione di emergenza. E mi era rimasto questo atteggiamento: se si può fare si fa. Anche perché il tanto parlare di sinistra, di diritti, di eguaglianza una qualche concretezza doveva pure averla.

Anzitutto nei gesti quotidiani, nella pulizia dell’agire e poi nella prospettiva in cui mettere quelle quotidianità: rifiutare una pressione su un appalto era un gesto che si diffondeva subito nell’ambiente. Non te lo chiedevano più. Magari ti raccontavano il bisogno dell’azienda, la necessità di pagare gli operai, però se dicevi che c’erano regole precise, capivano. Insomma chi era onesto, veniva stimato e di questa stima ti raccontavano anche dopo anni, quando le cose si erano raddrizzate oppure erano definitivamente crollate. Non chiedevo mai nulla a qualcuno che avesse a che fare con me per lavoro. Solo a persone che in qualche modo avevo conosciuto per altri motivi. Premettevo che capivo il momento, ma se per caso avessero avuto necessità, c’era una persona disponibile in una situazione difficile. Poi facessero loro, a me bastava leggessero il curriculum e, se ritenevano, la vedessero. Non capitava spesso, né la richiesta, né il fatto che andasse a buon fine, ma detto senza pressione o obblighi, mi pareva che questo non alterasse i rapporti reciproci. Sí, era così.

Poi col tempo, e perdendo ruoli, le richieste si erano fatte più saltuarie. Chi ha bisogno chiede a chi può dargli qualcosa, oppure non chiede. In questo caso però la situazione era così evidente e grave. Per questo mi ero offerto di fare un tentativo. Senza impegni per nessuno e anche senza speranza, c’avrei provato e basta. Avevo approfittato di un’occasione allegra, di una cena tra amici, per accennare al problema. Man mano parlavo, però mi accorgevo che quello che per me sembrava una cosa semplice, bastava dire di no, per il mio interlocutore diventava un problema istantaneo, ovvero come liberarsi da una situazione di imbarazzo. E così diminuivo la convinzione, mi davo dell’imbecille per averlo messo nella necessità di rispondermi.

Poi la serata continuò, tra battute e vini eccellenti. grandi strette di mano e abbracci finali. Eravamo fortunati, chi più, chi meno, ma nessuno aveva bisogno. Distante da lì, un problema non si era risolto, io avevo capito d’essere stato importuno, ma a volte l’errore non è in ciò che si fa, ma dove lo si fa e, sembrerà strano, questo lascia l’impressione a lungo. Come se qualcosa in noi adesso avesse una crepa. Ma anche questo è un modo di imparare.