nero e bianco

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Porti il farfallino come gli architetti e i giocatori di biliardo professionisti, lo sguardo interroga e ragiona. Guardo i tuoi occhi nocciola: hai le mie stesse rughe e anche gli anni si somigliano. Quand’è stato che ci siamo conosciuti? Ricordo che bevevi thé e lo correggevi con ruhm e noi caffè e grappa o stock 84. Già questo ti faceva strano. Poi eri ambidestro e questo aumentava la confusione perché la penna passava da una mano all’altra continuando a scrivere.

E parlavi di luoghi, lo fai anche adesso, e il paesaggio prendeva forma. Parlavi di persone, non di fatti. Sembrava non accadesse mai nulla, e magari c’era una guerra, una carestia, ma come in tutte le cose, quando si è dentro non si vede ciò che accade davvero. Abbiamo bisogno dei giornali, della televisione perché ci spieghino le cose viste dall’alto, magari a casa, perché quando sei lì, semplicemente accade. Come quella volta che sparavano a 150 metri e guardavamo passandoci a fianco, e anche chi ci abitava, guardava, oppure anche no perché dietro l’angolo non correva nessuno e la vita sembrava continuare indifferente. Le tue erano cartoline con persone, spesso in bianco e nero, e ti seguivo giocando sui grigi. Sono espressivi i grigi, peccato che ci sia tutto questo colore adesso, le rughe con i grigi vengono benissimo.

Mi hai insegnato a cercare i visi, le persone, non la gente. Senza dirlo, solo descrivendoli nei tuoi racconti. Da allora non ho più smesso. Ossia i visi li guardavo anche prima solo che non era educato fissare le persone. Così mi avevano insegnato ed era tutto un guardare di sguincio, un osservare rapido che faceva perdere l’interesse vero: ciò che ci stava dietro a quel volto. Le persone pensano che chi guarda il volto stia giudicando, beh, è solo una piccola parte del guardare, certamente la meno importante, l’interesse vero è cercare di capire cosa ci racconta chi è guardato, anche se non ha voglia di raccontare, perché in fondo fa bene a tutti comunicare, dirsi qualcosa anche se non si sa la lingua. Certo serve discrezione, pudore, ma questo si avverte subito se c’è e se ti accettano.

Di questo parlavi allora, adesso molto meno, troppi visi accumulati forse. In fondo ci siamo imparati per caso, giocando, più che con la serietà. Da quello che sai, ho capito che di quello che conosco, quasi nulla è utile in senso economico. Tu almeno tracciavi mappe, anche se non ho mai ben capito che lavoro facessi davvero. Di certo andavi in giro, e qualche scopo ci sarà pur stato. Io so cose inutili e preziose solo per me, accumulo nozioni e fatti che non servono, mi perdo in particolari, e in sogni che fabbrico da solo, non ho bisogno che qualcuno me li presti, e con questo bagaglio viaggio. Però non mi spiace di continuare a sommare inutilità. Ho imparato che l’inutile ha un valore immenso per noi e niente per gli altri, e che per quell’inutile saremmo disposti a fare a botte.

Però bisogna viaggiare leggeri, un farfallino o una polo, non importa, ciò che conta è la stranezza che ci porta a non sovrapporre ciò che si vede. Nulla è eguale, nessuna persona s’assomiglia in fondo e tutti abbiamo le stesse regole per muoverci, per pensare. Ecco pensavo che andare e guardare i visi delle persone fosse un modo per rompere le regole, immaginare la ricchezza della diversità. Ne abbiamo discusso a lungo, la diversità si moltiplica nonostante noi, è inarrestabile e l’uomo cerca di catalogare, trovare somiglianze, addirittura punta sulla fisiognomica. E’ la diversità che ci riempie, che si racconta, come le cartoline che ci mostravi, impalpabili e vive di un solo particolare, tutto il resto fermo. Come portare con noi da un luogo chi ci vive e lasciarlo lì. E ciò che si estrae è il nero e il bianco, ciò che si sente e diventa noi.

Noi, non ricordo.

Jan Palach, Praga:16 gennaio 1969

Difficile raccontare quale fu l’emozione di quel 16 gennaio ’69. Ne scrissi già in passato, e ancora, ogni anno ritorna, perché resta un fondo di mestizia, di mancanza, come un sogno interrotto. La notizia che uno studente s’era dato fuoco a Praga, in piazza san Venceslao, era arrivata con i giornali della sera. E con la notizia l’emozione. Profonda, contigua alla rabbia, con un bisogno di far qualcosa subito. E’ facile scivolare nella nostalgia dei reduci, ma è penoso quando accade perché diventa il come avremmo voluto essere più che il come eravamo davvero. Eravamo chi? Quanti? E cosa pensavano gli altri? Era tutto scontato: eravamo in tanti, avevamo tutti la stessa percezione, eravamo pronti. Non era vero e i fatti poi lo dimostrarono, ma l’emozione fu davvero profonda perché ciò che era accaduto rappresentava la ribellione estrema attraverso il sacrificio di sé, ed era uno che aveva la nostra stessa età, che sognava le stesse cose. C’era la speranza in quel gesto, e in noi, anzi la certezza, che davvero si potesse cambiare insieme, che il mondo si sarebbe messo sulla strada giusta, per sé, per tutti. Bastava volerlo.

Da tempo giovani monaci si davano fuoco a Saigon, passavano le loro immagini sulle TV in bianco e nero , e sapevamo ch’erano vestiti d’arancione. Forse li vedevamo così anche nel bianco e nero e impressionava la compostezza nella morte data e orribile, ma c’erano i Viet Cong che facevano notizia ogni giorno e combattevano. Il primato dell’azione, di Davide contro Golia, la sconfitta della tecnologia e della forza, battute dal diritto e dall’ingegno. Non era una novità il suicidio con il fuoco per protesta, ma Jan Palach fu un’altra cosa. Era uno come noi che chiedeva il giusto, cioè l’impossibile che cessava di essere tale.

Nei giorni successivi, anche senza nominarlo, emergeva in continuazione, nelle assemblee, nelle occupazioni, nei discorsi tra noi. Gli interventi si infiammavano di giorno, la sera guardavamo ancora immagini e c’era una tristezza incredibile in quel bianco e nero, nella sua fotografia ripetuta, nella folla enorme che si radunava a Praga. Tristezza e consapevolezza che così non sarebbe potuto continuare. Credo che tra i grandi simboli di quella stagione, accanto all’entusiasmo, ci fu il suo nome, la sua giovinezza e il sogno che la accompagnava. La differenza con tutto quello che ho visto dopo era la certezza che avremmo vinto. Che i giovani avrebbero vinto, che sarebbe cambiato il mondo in meglio. Definitivamente.

Ma questi sono pensieri da reduci, il mondo è una scena e chi recita, interpreta ciò che gli pare giusto, basterebbe non stancarsi presto della parte. Vedendo come sta andando, verrebbe da dire a chi non prende in mano la sua vita: diventerete vecchi anche voi e se non avrete qualcosa di vostro dentro, cosa vi resterà? Pensieri da vecchi che non capiscono, per l’appunto.

Un tempo si diceva, di quelli che invecchiavano per loro conto e magari non sembravano neppure così vecchi: è rimasto fedele agli ideali della sua giovinezza. Non credo si usi più, perché quegli ideali così includenti e collettivi, non hanno più molta corrispondenza con ciò che c’è attorno. E anche gli ideali hanno bisogno di realtà.

vietato fotografare

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Nell’era dell’immagine, dei miliardi di fotografie su fb, del digitale che ormai fa tutto da solo, del mostrare come essenza dell’essere, alle mostre, nei palazzi che contengono le mostre, non si possono fare fotografie. Neppure le architetture, gli interni, chi guarda i quadri o le opere, insomma cogliere un particolare e fissarlo è interdetto. Se ci fosse un intento formativo, con messaggi quali: 

  • cercate di vedere con gli occhi e non attraverso uno schermo lcd, 
  • cercate di cogliere il particolare e il senso ed elaboratelo nella vostra testa, 
  • cercate di conservare il ricordo senza procrastinare tutto a immagini che, al più, vedrete una sola volta, 
  • cercate di interagire con quello che vedete e  fatevi emozionare perché nessuna tecnologia potrà fare altrettanto.

Fosse così, capirei, ma non è questo il fine. La realtà è molto più becera e si chiama catalogo della mostra, oppure cartoline od ancora gadgets. Insomma la visita a quel piacevole bazar in cui c’è di tutto, dai giocattoli ai foulards, dalla paccottiglia cinese alle riproduzioni e ai falsi d’autore. Un luogo molto colorato, nuovo, al contrario di altre parti dell’edificio, i bagni ad esempio, e che per “caso” si trova vicino alla caffetteria di ogni museo, dove il toast ha il valore e l’età dell’opera d’arte, il caffè è un complemento all’ambiente e le sedie, oltre a essere costose di per sé, merce rara. 

Credo che ad una mostra di foto si possa fotografare, che i quadri si possano fotografare, che le persone si possano fotografare. Credo che, se non vi sono impedimenti di natura religiosa, il rispetto e la privacy siano ben altra cosa dall’essere presenti in un’istantanea. Se la tecnologia è un prolungamento della mia testa e del mio occhio perché impedirmi di usarla con rispetto?

Ricordo ancora magnifiche, costosissime, riproduzioni di opere d’arte in bianco e nero, ed il freddo che emanavano, l’anatomia dello studio che se ne coglieva, e che non ravvivava il cuore, la passione. Poi le fotografie dei grandi che pur in bianco e nero, vedevano e comunicavano. L’altro ieri ero ad una mostra di Doisneau a Roma, dove non si poteva fotografare, naturalmente, e tutte le fotografie che vedevo ritraevano persone, dal famoso bacio sino a una serie di foto bellissime di passanti che guardavano un quadro (Renoir?) attraverso una vetrina. A chi mette regole (con quali sanzioni poi?) bisognerebbe farle vedere quelle fotografie, far capire che se si insegna a fotografare si coglie molto di più di quello che si vede, che se si stimola la curiosità, la mostra vale due volte, e che poi si tornerà nel museo, che il libro lo si comprerà per leggerlo. Ma nell’epoca dell’immagine, della mostra in cui si contano gli incassi ben più di come muterà le persone che la visiteranno, questo è solo un fastidio per il bazar finale. Ed è strano perché ciò che può accadere è che il virtuale prevalga, che alla fine ciò che si vende surroghi ciò che si vede, rendendo inutili i musei e le mostre stesse: perché fare una fila se ciò che vedrò lo posso comodamente vedere da casa? La differenza è solo l’emozione, ecco facciamo in modo che lo scatto diventi parte dell’emozione.