aria d’autunno

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La città si riempie di giovani attese:

riaprono le scuole

e son finiti i giorni delle strade vuote

nell’ indifferente calura.

C’è un tempo in cui si smarriscono le fragili virtù:

che s’allontanano da noi,

lasciando il suono delle foglie

nell’aria d’autunno.

Così tra folate di traffico improvvise,

il ricordo diviene passatempo,

e il futuro, un’attesa, senz’ ansia di risposte,

allora penso, incauto e allegro,

a mettere il tempo al posto suo giusto.

quisquilie

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Mettere a posto un particolare, una cosa minuta che nessuno noterebbe. Prendere qualcosa da uno scaffale seguendo un pensiero. Accanirsi nel riparare un oggetto che non vale nulla, eppure vale. Cose importanti a noi, in quel momento, urgenze che celano la mania. Qual era la mania che ci avrebbe fatto grandi, quella che se portata a compimento avrebbe colmato quella crepa con il noi  irrealizzato? Ed essa che relazione ha con la felicità? La stessa felicità  che s’affaccia quando tutto va a posto e ritrova un ordine solo nostro, una tranquillità e un deporre le armi.

Quisquilie

tre minuti

Chiamato a raccontare in tre minuti cos’è per me la vita, per uno e mezzo stetti in silenzio: bisognava dar tempo alla vita di nascere.

Poi aggiunsi un sospiro, che non era indecisione e neppure stanchezza, ma soffio. Come fa la vita bambina che scherza col sonno del bimbo che dorme ed è comunicazione, aggregazione, dolcezza dell’amor vicino.

Così mezzo minuto lo usai per dire che per costruire qualcosa, vita compresa, bisognava mettere assieme, stabilire una relazione tra diversità apparenti, usare la tenerezza del congiungere con legami forti e deboli.

Lasciai mezzo minuto di silenzio per pensare. Sono lunghi trenta secondi, ma servivano a capire.

Mi restava mezzo minuto, sorrisi prima di concludere, perché era difficile mostrare che viver bene è più che vivere.

E allora dssi che per farlo serviva tentare di realizzare la vita aggregandola con armonia.

E che quando accadeva era un ordine o un disordine comune che faceva scorrere mentre rasserenava.

Forse avevo usato più parole del necessario e il tempo s’era concluso.

La vita perdonerà, perché in realtà non c’era molto da dire, bastava vivere.

il richiamo della foresta

Su Internazionale, Goffredo Fofi, parla de il richiamo della foresta di Jack London. Mi ha leggermente emozionato questa sintonia su un autore che per me è stato importante. E lo è ancora. Forse sono discorsi che con l’età vengono più facili, ma è come si fosse ricordata, tra amici, una ragazza amata da entrambi e che mai è stata dell’uno o dell’altro, per cui è rimasta la bellezza e il piacere di averla conosciuta.

Per me, Jack London era l’altra faccia di Pavese, di Melville, di Fenoglio. Quello che precedeva Hemingway senza la dolce vita e il mito maledetto dello scrittore. Era il Salgari che viveva davvero le sue storie. Era il rosso, il socialista, senza teoria. Colui che aderiva al cuore della rivoluzione perché questa era la vita realizzata per un momento, per un anno, per quel tanto che ancora restava ideale in realizzazione. Era il John Reed che correva in Messico e poi a Mosca. Era la somma di tutto questo e insieme ciò che è bello essere in quell’idea di uomo e d’avventura che spinge di una forza incontrollabile uomo e popolo verso un destino più alto e bello, verso un buono e un giusto da condividere. Poi si sa come è andata, ma vivere all’interno di questa spinta era l’idea di vita che da giovani si coltivava. E c’era amore, molto amore, e scoperta, natura, confronto, solitudine e l’essere forti e bastevoli con i piedi posati su solidi principi.

Leggetelo nuovamente London, e non solo il richiamo della foresta, è l’invito a restare giovani per sempre vivendo cio in cui si crede. Ma è anche il racconto eroico della solitudine dell’uomo che si misura con se stesso e ne esce forte, tentando di darsi una risposta, anche se le domande non si esauriscono mai.

lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

era la festa del santo patrono

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Era la festa del santo patrono. Per tutti. I credenti, gli atei, gli innocenti, gli ignavi, i benpensanti, i delinquenti. Per i passanti meno, però si adeguavano. Dalla periferia verso il centro, era un crescendo di esteriorità, di frasi ribadite, di tappeti rossi per la processione, di persone che attendevano. Chi una grazia, chi di farsi vedere, chi di pregare in modo appropriato ed eccezionale. Vicino al portone della chiesa, aperto come mai durante l’anno, sostava la banda. Ottoni, legni e tamburi, colletti slacciati, cappelli per traverso, qualcuno addirittura senza, era il capannello dei bandisti che nell’attesa, parlavano d’altro. Di cose frammischiate, spesso oscene. Le ragazze dei flauti e dei clarinetti erano per loro conto, ogni tanto qualcuno dei giovani s’intrometteva e allora i discorsi deviavano in sfottò. Appena oltre il sagrato, l’aere sacrum dove i ragazzi la sera giocavano a pallone o amoreggiavano sugli scalini bevendo birra, c’erano bar e tavolini pieni di persone. C’erano gelati che gocciolavano troppo presto, scollature interessate, gambe accavallate, bibite e aperitivi che coloravano bicchieri di rosso, verde menta, giallo, arancio. E tra i tavolini, all’ombra di ombrelloni giganteschi, era tutto un chiacchierare senza comunicazione, un ascoltare e dire distratto, poco interessante, ma indispensabile ai vestiti da mostrare, al ruolo da mantenere, ai saluti da ricevere e da dare. Arrivarono per tempo i fabbricieri, con mantelli bianchi e cappelli di velluto cremisi. Poi le confraternite con gli stendardi ricamati. Infine le faglie dei portatori della statua. Gente di commercio, colli taurini di fabbri e macellai, sottili figure di sarti e tabaccai, venditori di spezie e coloniali, vinai, commercianti di tessuti, calzolai. Insomma taglie umane diversissime, dai sottili ai grossi. Alcuni, i portatori, rivestiti di mantelli blu oltremare fino alle caviglie, con calzini bianche che spuntavano dall’orlo per finire dentro a scarpe a punta con la fibbia dorata. Gli altri con mantelli di vario colore che definivano estrazioni e devozioni di cui pochi ricordavano il motivo e la nascita nel tempo.

Fuori dalla piazza, il traffico man mano si spegneva. Ai limiti del tragitto della processione i vigili in grande uniforme, deviavano auto, pullman e motociclette. Lasciavano passare, a piedi i ciclisti, rispondevano alle domande degli ignari, facevano finta di non sentire i moccoli e le bestemmie di chi si vedeva stravolti i piani, le consegne, gli impegni. Era festa, anche per chi non lo sapeva o voleva. E festa doveva essere, mica ci si poteva sottrarre alla festa del patrono. Era la festa della città, dei suoi appartenenti, di chi aveva fatto la fatica di proteggere quel posto e i suoi abitanti. Così, più distante, verso la periferia, le case inghiottivano un traffico nuovo. Auto e camion ingolfavano le strade che portavano alle circonvallazioni. Non quella vecchia, quella delle mura, ma i nuovi limiti che dividevano la città dalla campagna. Il dentro e il fuori. C’era un silenzio rumoroso, da primo pomeriggio estivo. Le case erano piene di persone. Bambini svegli, vecchi e operai che dormivano approfittando del dopo pranzo abbondante, donne che rassettavano. Non pochi facevano all’amore nel pomeriggio, con i balconi semichiusi, con i rumori che filtravano dall’esterno inondando le case di novità sonore. Impiegati, artigiani, operai, stanze per studenti fuori sede, il tutto in case pastello, con pochissimo verde e alberi spaesati. Una umanità che pure c’era, ed era maggioranza, ma non appariva. Era isolata nelle idee, nelle preferenze, nelle attese. Si trovavano per le scale, nei cortili. Si parlavano per omologhe necessità. Si salutavano, ma la cosa finiva col saluto. C’era un’ attesa differenziata di futuro tra loro e partecipavano in misura diversa alla vita della città, come vi fosse una stratificazione che, se anche era in movimento, aveva velocità e vischiosità diverse e una possibilità di scambio difficile tra strati. In una di quelle stanze uguali e differenti assieme, su un tavolo posto a fianco della finestra piena di luce, c’erano carte. Alcune sparse, altre allineate in pile, a sinistra quelle scritte e a destra quelle bianche. Alcuni fogli erano finiti sul pavimento e rilucevano in una lama di luce, con i caratteri che potevano essere qualsiasi cosa: una lingua antica, disegnini di una mente distratta, frasi sconclusionate oppure ragionamenti affilati e rari. Nella stanza non c’era nessuno. Oltre si sentiva il respiro di una, forse due persone, un parlare fatto di sospiri. L’aria era calda e densa degli odori del pranzo. Un sugo, della carne, un sentore di vino rosso vecchio. Ma ciò che si sarebbe potuto fare, se ci fosse stata una lama gigante e affilatissima, era sezionare quella casa in verticale e scoprire che tra ciò che poteva essere scritto su quelle carte sparse e ciò che accadeva non c’era differenza, ma anzi le carte erano più ricche di racconto, mentre le vite si svolgevano simili, con desideri e voglie sovrapponibili, con stanchezze analoghe, con soluzioni uguali. E allora non si sapeva più bene quale fosse il racconto del passato, addirittura del presente, se c’era così tanta potenza in quei piccoli segni che rilucevano da tracciare finali più ricchi e diversi. Bastava saperli leggere bene e si sarebbe capito il futuro. Mentre questi pensieri si formavano, da fuori si sentiva il rumore del traffico diminuire, e la musica della banda avvicinarsi. Non sarebbe passata sotto quelle finestre, lì eravamo oltre la città vecchia, ma il suono non ci badava e allegramente superava i confini tracciati dal potere degli uomini. Il patrono avrebbe fatto una svolta stretta vicino al fiume e per strade piene di palazzi si sarebbe orientato verso l’altra parte della città che conta, avrebbe ricevuto l’omaggio dai balconi aperti, sarebbero caduti petali di fiori e piccoli coriandoli di carta, anche delle striscioline su cui qualcuno avrebbe scritto innumerevoli volte la grazia da ricevere e l’avrebbe fatta volteggiare nell’aria. Poi sul calpestato, avrebbero agito gli spazzini, ma per un poco la città vecchia sarebbe apparsa colorata più del solito grigiore che la teneva stretta, dai palazzi sarebbe uscito qualcosa che di solito ci si guardava bene uscisse, ovvero una trasgressione all’ordine. Il vecchio ci teneva acché le cose avessero un loro posto, come gli uomini. Il nuovo invece, oltre il fiume e la circonvallazione, non aveva queste tradizioni, erano persone che la città aveva collocato a distanza, forse per questo c’era un’aria di incredulità che serpeggiava. Anche nei confronti delle reali possibilità di avere un santo in comune. Però il suono della banda si spandeva nell’aria e superava i confini del censo e dell’appartenenza e forse faceva piacere a chi era incredulo perché metteva allegria con quei suoni pieni e sempre un po’ stonati generati da prove discontinue, da altri mestieri fatti di giorno e da una passione serale e festiva che faceva tirar fuori musica e armonia da uno strumento. In fondo suonare annullava le distanze, bastava non sbagliare troppo e si aveva la coscienza di aver fatto qualcosa che faceva piacere a sé a agli altri. E se ci fosse stato un osservatore imparziale e attento si sarebbe accorto che il suono penetrava in quell’insieme di cose che accadevano nelle case. Avrebbe sentito il variare dei respiri nell’altra stanza e le cose già scritte, uguali eppure possibili nel loro travolgersi e stravolgersi, si sarebbero, forse, modificate. La vita continuava scorrendo, eppure sembrava procedesse a fiotti, ad accadimenti, solo che quello era un giorno di festa e per un giorno ciò che era scritto poteva coincidere con la vita.

 

marginalia

Sembra sempre che qualcosa manchi.

Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.

La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.

La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.

Il tempo: troppo quando rimando.

Troppo poco, devo andare.

Meglio scrivere sul margine del tempo,

cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale

lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.

Dispettoso e allegro, pensoso.

Chissà dove andrà a parare?

Inseguirlo e meravigliarsi un poco.

Farò a tempo.

Arriverò in ritardo.

Ce la faccio.

Bello scrivere quando il tempo è poco,

e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.

La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.

Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.

La pioggia aspetterà.

Non aspetta. Cade.

Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.

Aspetta ancora un poco. Per favore. 

o meglio così:

Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore. 

29 settembre 2014

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Le due foto che mi ritraggono, ricevute da mio figlio, hanno in comune il viso serio ( allora un po’ troppo magro), la barba completa e lunga. Ancora pepe e sale, non bianca come ora. La cravatta, la giacca, si intravedono e sembrano un tentativo di leggerezza, essendo la prima chiara e la seconda, scura. Uscire dalle divise e mantenere i ruoli è stato un impegno costante. La scheda allegata, spiega che vengono dagli archivi Rai e da un telegiornale regionale. Si parlava di imprese e di crisi. Sono passati sei anni da allora, mi sembra un’epoca per me e per il Paese. Nel bene e nel male, le crisi sono rimaste, ma l’Italia sembra mutata. Profondamente. Ascolto le persone e sento pareri preoccupati, la speranza, è quella dei naufraghi che sperano di salvarsi e che di questa lunga notte resti il ricordo quando si sarà più sereni. Non è la speranza che davvero spinge in avanti, quella fiduciosa del fare e della crescita, questa è l’attesa volenterosa che muti l’aria, quasi un farsi esterno alle volontà. In fondo questo Paese ama gli uomini della provvidenza, quelli che dovrebbero risolvergli i problemi che sono stati creati perché non si affrontano i nodi del giusto vivere assieme.

In quelle immagini, ritrovo un ottimismo della volontà, che ha radici lontane. Credo che la mia generazione abbia avuto molto e che molto dovrà dare facendosi in disparte. In me scopro intolleranze antiche, sopite per lungo tempo dalla necessità di compore le cose attorno. Non si fa sempre così, forse? S’impara nella famiglia e nella scuola, il senso di responsabilità diviene il modo per farsi una ragione di molto che non vorremmo, lo mettiamo ovunque, dal lavoro ai sentimenti, ben oltre il limite di una dialettica naturale. La generazione dei figli non ha questo diffuso senso di responsabilità collettiva, lavora per vivere, spesso non vede la funzione sociale del lavoro, così si disaggregano i luoghi comuni disciolti da un perché? Perché dovrei farlo, perché dovrei avere una funzione, perché dovrei interessarmi? Tutto sembra svolgersi lontano dalla propria capacità di influire, come se il potere si fosse definitivamente distaccato dalla democrazia.

Ieri era una splendida giornata di sole, le foglie sulle viti cominciano a virare dal verde al bruno e le punte sono già bruciate. La vite non è una pianta che susciti pensieri di bellezza, non ha maestosità, si arrampica selvatica, oppure si muove ordinata a pettinare campi e colline. E’ l’uomo che esalta la sua utilità, la manipola e l’ asserve a sé, facendone un emblema di stagione. Almeno qui, in quest’area mediterranea delle culture della vite e dell’ulivo, non a caso piante longeve, con frutti dal cui succo viene altro che si conserva a lungo. Lo stesso ha fatto con i cereali, altro cibo che si conserva a lungo. Nel sentire quanta conoscenza e sensibilità ci sia nel coltivare il riso, si capisce che ciò che è stato mutato aveva un significato profondo, un colloquio, non era un semplice piegare e domare ciò che era selvatico. L’uomo l’ha fatto con ogni cosa che gli serviva, animali e piante, così come le conosciamo, compresi cani e gatti, non esisterebbero senza l’uomo. Non è un giudizio negativo, questo subentra quando l’uomo cerca di asservire, in qualsiasi modo, l’uomo. Lo facciamo un po’ tutti, non si parte così anche nei sentimenti e poi si prosegue nelle cose? Forse è questo un argine educativo che proprio a partire dai sentimenti e dalla loro educazione, potrebbe permetterci di capire che il dominio dovrebbe avere un limite nella libertà dell’altro. Pensieri oziosi, facile essere d’accordo, difficile farlo: meglio soffrire.

Il più bel paese del mondo, ha definito l’Italia, ieri sera, il nostro Presidente del Consiglio. Non so se sia il più bel Paese al mondo, di sicuro non è un Paese felice. Eppure sia alla festa del riso, a Isola della Scala, sia a Borghetto sul Mincio, una folla di uomini, donne, bambini, si assiepavano sotto il sole in cerca di gelati, bibite, risotti. Un flusso interminabile di pensieri e desideri semplici. Non potendo governare i primi, forse ai secondi si potrebbe prestare attenzione. Cosa serve davvero? Sembra sia una domanda priva di risposte, eppure ciascuno di noi un’idea ce  l’ha, sembra manchi quella operazione simpatica delle medie, il minimo comun denominatore, che nessuno ci ha mai spiegato che aveva un forte riferimento con le nostre vite assieme.

In questo trionfo di colori che mutano posso pensare di poter scegliere se stare da solo o in compagnia, se non fisicamente, mentalmente, eppure qualcosa in comune lo devo mettere a disposizione. E’ la mia responsabilità sociale. Quello che mi è mancato, come a quasi tutti, è il limite della responsabilità, ovvero cosa di me devo mettere assieme e dove comincia invece la generosità. Riguardando quelle foto, distolgo lo sguardo, pensando al molto di inutile che si è perduto. Assieme ad esso  c’erano volontà ed utile. La forza dell’uomo è la sua inesauribilità nel provare, ciò che non è stato fatto da qualcuno verrà fatto da altri. E se applicassimo a noi stessi questa forza che accadrebbe? Le vite comincerebbero in continuazione, ci sarebbero più volontà di cambiamento, il mondo si aprirebbe a nuove prospettive. E’ come se il tempo si fosse radicato in noi e producesse stanchezza e pesantezza, anziché voglia di andare. Che un tradimento consumato contro noi stessi sia diventato una condanna a essere diversi da ciò che si potrebbe essere.

Sei anni fa pensavo, in modo differente, cose analoghe, pensavo ci sarebbe stata una soluzione basata sulla volontà, a partire dalla realtà per giungere ad un’altra realtà più confacente e positiva. Ma era in un ambito ben differente, con responsabilità diverse, eppure, anche se molto è mutato, le domande generali restano le stesse, quindi anche le risposte non mutano poi troppo. Vorrei che ci fosse davvero stato un obnubilamento di tutti, che ora ci svegliassimo man mano con una coscienza di dove siamo, per dare senso alla responsabilità, alla generosità, allo stare assieme. Un progetto, ecco, un progetto comune in cui ritrovarci.   

protetto dall’anonimato

Una delle caratteristiche di questi luoghi è di essere come Venezia nel ‘700, ovvero si può andare in maschera per 200 giorni all’anno. Questo testimonia il vezzo antico, forse il bisogno, di essere altri, che non è il far emergere l’altro che abbiamo dentro e che è comunque noi, ma proprio l’avere un’altra vita che riscatti (?) quella vissuta.

Devo dire che gran parte dei miei interlocutori li conosco, anche se conosco è una parola importante, diciamo che ci frequentiamo e stimiamo, sia pure virtualmente. Faccio invece fatica a parlare con qualcuno che non c’è, per questo, pur non cestinando i commenti anonimi, quelli che mi arrivano senza indicazione di mittente o mail, mi sento a disagio. Non mi interessa sapere chi sia il mio interlocutore, ma se abbia o meno un volto. In fondo il mio è qui, sulla piazza, con le mie idee, le storture e i limiti e non c’è da proteggere nessuno. 

All’anonimato preferisco la tracotanza, almeno finisce a ceffoni.

modernismo compulsivo

Queste cose, oggetti, pianificazioni, architetture così stabili e labili assieme, luminescenti ed interconnesse che sembrano avere una vita propria, oltre a contenerne altre, sono la nostra visione del mondo, oppure la visione che subiamo del mondo?

La bellezza del mostrare, incastona funzioni, negozi suadenti, facciate di desideri che assecondano liberazioni da freni inibitori. L’acquisto come centro del vivere e dell’essere diviene l’altra vita rispetto a quella così banale del reale, così fittizia del pensare, così labile del desiderare.  Si saggia il limite di capienza del possibile, ben oltre l’utile, spesso oltre il bello, di rado nel necessario: è il progresso, ragazza, è il compenso del malessere. La pulsione all’acquisto immersa nella frenesia (anche nella penuria si acuiscono i desideri deviati) è simile all’odore del sangue, alla violenza, alla piazza e si muove, ondeggia, punta con decisione sull’obbiettivo dell’atto avendo il solo bisogno della soddisfazione.

Può bastare questo vivere per definire un canone del bello, oppure il mondo vuole liberarsi dal pungolo della bellezza, ne vuole ridurre l’impatto rivoluzionario portando il tutto ad una dimensione che renda quotidiano l’eccezionale, e quindi visibile e percorribile senza fatiche, vicino di casa, acquistabile in riproduzione. Come fosse un poster da appendere in camera che ricorda la meraviglia dal mondo.