La polvere in Senegal è dappertutto, nelle piste, nei campi, fino alla porta delle case. La polvere è nei giochi, nei visi, nelle mani, sui corpi dei ragazzi e degli uomini. E’ sui vestiti delle donne, nel gesto bello con cui portano un velo sulla testa per il sole, è sui banchi, su ogni oggetto di lavoro, sulle capanne, sulle imposte di ferro della scuola. Così ti viene finalmente il dubbio che la polvere sia un elemento del mondo, che faccia parte della vita e non sia così sporca come si pensa. Infatti non ha l’odore di marcio che ti segue nei mercati delle città, non odora di nulla conosciuto se non di sé ed è giallo ocra. Cotta dal sole, ne prende il colore, viene portata dalle tempeste di sabbia, ma ancor più si genera in questa terra arcaica che si sbriciola fino ad essere talco. Qui la terra è davvero antica, una zolla di universo su cui ominidi hanno cominciato a correre, venendo dalla Rift valley, talmente tanto tempo fa, da poter usare solo l’immaginazione per vederli mentre per decine di migliaia di anni tentavano la savana e si dovevano rizzare in piedi per guardare oltre le erbe alte, cacciare e fuggire. E poi, sconvolti da tanto ardire, tornavano nella foresta, in un entrare e uscire che selezionava, trasformava il ricordo in specie. E allora l’esperienza dell’aria, dello spazio, del correre non li abbandonava e uscivano nuovamente finché si reggevano bene in piedi e correvano su due gambe e le mani stringevano le cose in maniera diversa. Allora è cominciato il cammino per piccoli gruppi mentre altri restavano e aspettavano in una attesa di cui si perdeva memoria e diventava mito.




Tutti hanno pestato questa polvere, se ne sono ricoperti il corpo, l’hanno lanciata per aria nei riti propiziatori, hanno letto il futuro nell’andare del vento. Oggi ci convivono, la sentono parte del mondo e non se ne accorgono. Così in questa polvere c’è la storia del mondo, la traccia degli antenati, il rumore delle percosse che i piedi hanno inferto alla terra, lo sbattere dei piedi, ancora così presente nei balli delle donne nei villaggi, quando la schiena si inarca in avanti, le natiche si protendono, la parte sessuale emerge, mentre le braccia si portano verso la terra, verso la polvere.
La polvere è ovunque e noi la sentiamo, come solo i forestieri possono notare, finché non la sentiamo più, ed allora emerge nelle rituali disinfezioni con il gel, sulle mani che appiccicano, attaccano ovunque. Ma in realtà, è il grasso nostro che trasuda e si combina con la polvere. Gli indigeni hanno le mani secche, a loro basta spolverare, a noi non basta, il grasso che ci difende dal freddo, accumula sporco e alla fine siamo disinfettati nello sporco, incapaci di gestire la polvere. Ecco la differenza, ciò che per noi pesa, per loro fa parte della vita, si toglie prima della preghiera, prima del cibo, ma poi fa entrare nel vivere.
Non vivrei nella polvere, la terrei a bada, ma già sapere che non ha connotati negativi di per sé, è una conquista, un modo di vedere il mondo.















