dove si spiegano le cose, a volte

Li ricordo quei luoghi, quei muri di mattoni spazzolati e senza intonaco, i soffitti altissimi, le colonnine di ghisa che svettano sottili, esili e forti su basamenti di cotto e marmo a sostenere gli archi. E le librerie, bellissime, con scaffali grandi, di materiale composito, bianche o color canna di fucile che non piegano al peso. Poggiate ai muri o rese divisori ariosi, senza paura nel loro essere tenute assieme da tiranti in acciaio in bella vista. Acciaio inox 18/10 e non può essere altrimenti perché lì il mare si sente ed è appena oltre la porta e la banchina. Sciacqua di un rumore placido e ritmato, è cuore che pensa la terra profonda e quando sale per la marea, diventa gatto domestico che vuole attenzione prima di riprendere a sonnecchiare. Ma c’è e ha i suoi artigli.

Dentro si sente il mare che sonnecchia e trasuda salso sui muri. C’è il mare con la sua forza chimica che scioglie i minerali e li ricombina, anche se sembra davvero terra ferma e i pavimenti sono di piastrelle grandissime a scacchiera negli uffici e si danno un contegno quando escono in corridoi fatti di corsie lunghe di marmo polito. La luce piove dall’alto, dai lati, si riflette, sembra tracciare una strada mentre è diffusa e alzando lo sguardo si riconoscono, tra piccole finestre, i lampadari di chi ha fatto la storia del design italiano. Pendono fiocchi di luce, si staccano dai muri, proiettano temperature di colore precise, ma sembrano messi per caso in quel finto dedalo di uffici dove ognuno ha uno spazio ben oltre la necessità. Sembrano democratici, in una uniforme diversa bellezza, ma oltre le segreterie, la truppa di rango, ci sono i piccoli capi. Le teste in carriera che hanno il loro riquadro nei vecchi magazzini, ora splendenti di restauro.

Chissà cosa si sarà stipato tra quelle mura, seta in matasse e in balle, metalli, sacchi di caffè o spezie, barili di vini liquorosi? Ora ci sono grandi scrivanie di acciaio e cristallo, piazze su cui scrivere e appoggiare le braccia pensosi, illuminati da un portatile, rigorosamente Apple e sempre acceso, mentre ai bordi s’accalcano piccole pile di libri d’arte e pubblicazioni scientifiche.

Che c’entra dirai. C’entra, c’entra.

Ci si arriva, in quei luoghi, per marmi corrosi dal salso; tracce di razzie perché qui le pietre erano preziose, che si rivelano nelle vecchie ammoniti. Marmi compositi come un mosaico, che furono prima di bellezza e poi d’uso, su cui si leggono ricordi di ruote di carretti cerchiate di ferro. Strade e spazi ora larghi, ma un tempo corti per le merci e le contrattazioni prima di giungere alle banchine. Adesso è stato tutto trasformato in luogo di direzione, ma anche di scienza e pensiero, anche se la proprietà è ancora del porto.

Si arriva e si cerca tra le simmetrie dei fondaci sino a trovare la giusta porta. È di acciaio corten, inserita in un arco di mattoni, vetri e acciaio. Lei, la porta, ha una semplicità senza compromessi, con il compito di raccontare che qui si pensa, e si dirige, e non ci sarà mai tempo per studiare abbastanza fino a capire tutto. Oltre c’è la prima entrata ed è già un accogliere, meravigliare, per il nitore delle cose. Il finto poco e prezioso, che è frutto di una scelta alta. Un usciere, che non sembra tale, ti chiede chi sei e con chi vorresti parlare. E poi ti dice, s’accomodi, (tu preferiresti usasse l’antico parlare: el se comoda, paron, vardo e rivo) e ti indica una poltrona bianca prima di sparire. Si attende.

Che c’entra dirai. C’entra, c’entra…

Le attese sono il modo per farti capire dove sei, per studiare i particolari. Anche se ci sei stato diverse volte, c’è sempre qualcosa di nuovo da osservare. Poi torna il finto usciere a prenderti e t’accompagna. Sei qui per capire una cosa apparentemente strana, che nessun paron di vapor o barca o campi, si sarebbe posto come quesito: val la pena di consigliare un investimento a lungo termine che vincolerà un territorio? Un tempo si pensava lungo e si contava sulla stabilità, l’accidente era tale, ma c’era una normalità del rendere. Fosse pesce, grano od uva, una resa media nel tempo ci sarebbe stata, sufficiente a remunerare l’investimento e la miglioria. Ma oggi è tutto più aleatorio e qui forse più che altrove.

Se conosci il tuo interlocutore sai che vale molto. La sua opinione produce effetti nelle decisioni della politica e dell’economia. Se parliamo è per conoscenza antica, quando tu eri altra funzione e lui giovane esperto. Mi parla del mutamento del clima, dello sciacquio che a volte diventa minaccioso, di ciò che è accaduto a 30 chilometri due anni fa, a 70/100 chilometri due mesi fa. Ci sono tutte le ragioni perché ciò che accade, accada. Le racconta in modo ineluttabile come se non ci fosse quasi nulla da fare, ma non è così. Il mare si riscalda e d’inverno la temperatura non cala abbastanza, si scontrano le correnti calde del deserto e quelle artiche, prendono velocità, generano turbini e correnti impetuose, veri fiumi d’aria che prendono vigore dal mare e lo portano sulla terra, s’incanalano, abbattono, ammucchiano secondo i principi della minor resistenza ai fluidi. Mi mostra carte e mappe di ciò che è accaduto. Penso che elementi semplici come l’aria e l’acqua detengono un’ intelligenza sorda all’uomo e che trovano le loro soluzioni a ciò che si crea contro di essi. Convivere o ammansire che è poi il modo per rendere transitorio amico chi ha molta pazienza ma anche molta furia se lo si tradisce.

Mi parla degli interventi per mitigare perché ormai il danno è fatto e occorrerà molto tempo per ritrovare un equilibrio amico, una pace tra noi e gli elementi. Racconta dei convegni, delle analisi presentate per tempo, dei passi fatti con una politica sorda e parolaia che preferisce affidarsi al caso e all’eccezione piuttosto che alla cura e alla prevenzione. Parole sagge e fatti pochi, perché tra chi decide davvero e chi predice c’è uno scarto che non si colma mai. È la condanna di Tiresia, prevedere non essere creduti, neppure con l’evidenza. 

Si parla e divago col pensiero, è così bello il luogo e la pace che ha in sé. Il tappeto antico, la lampada, la forza che emana la competenza. Un po’ d’invidia per ciò che non ho realizzato e che altri hanno costruito con la comprensione profonda e furba di come funzionavano le cose. Pensieri oziosi di un ozioso che ora ha deciso di dire a chi l’ha inopinatamente consultato, la verità: rischia se vorrai veder frutto ma non c’è nulla di certo. Il rischio è alto.  E così finirà la consulenza. Per fortuna.

Ci salutiamo e i saluti dicono sempre le stesse cose: ci si vede, troviamo il modo, ti ricordi, è stato bello, adesso non lasciamo passare troppo tempo. Mi accompagna, lodo il posto e gli arredi, sorride: il bello è un investimento sul futuro, dice. Ci salutiamo e fuori il cielo è ancora azzurro. Lontani e vicinissimi i monti, non piove da mesi. Cammino sui marmi, lentamente per aspirare il salso e vado verso le auto.

Tu dirai che c’entra tutto ciò? C’entra. C’entra…

Poco distante da qui c’è la riva, i palazzi che un tempo avevano le autorità, i savi addetti a modificare gli equilibri. Erano lenti e paludati, consci della loro importanza, mischiavano potere politico e competenza e prima di cambiare un equilibrio provavano lentamente. Discutevano di cose che per fortuna non sono accadute, ad esempio come portare una strada fino alla Basilica, per arrivarci in carrozza. Oppure interravano i canali sbagliati, e chi sbagliava pagava, ma se c’era un errore disfacevano, tornavano indietro perché il patto tra sapere, natura e uomo non si rompesse. Gli accidenti erano proprio tali, capricci degli dei che si dovevano interpretare, per questo la sapienza era lenta perché conosceva la sua ignoranza. Poi quel patto tra sapere e politica si è rotto e a chi sapeva sono stati date torri ben arredate, perché non disturbassero le decisioni che producevano utili. Scienza e politica hanno continuato a parlarsi, la seconda ha incensato la prima per quanto le serviva e scartato il resto. Pensare tra cose belle è una grande opportunità e un sottile ricatto: quello che hai e quello che sei lo puoi perdere. Puoi dire, ma devi lasciare spazio al dubbio se ciò che dici modifica troppo gli interessi in corso. Così le coscienze critiche diventano più silenti.

La politica e il capitale si sono comprati la tecnologia,  così per la scienza oggi c’è meno forza e libertà, mentre avremmo bisogno di tutte le sue capacità di critica a ciò che accade. Ecco perché c’entra: in un mondo fatto di congressi e titoli accademici, la prudenza diventa un peccato, a parlare troppo chiari a tutti, si perde qualcosa e si viene emarginati, mentre servirebbero decisioni rapide e correttivi in lavorazione. Anche se finisse la prudenza ed emergessero le priorità, forse è già tardi e convincere l’aria e l’acqua non sarà facile, se poi ci si mette anche la terra, diventerà impossibile rimediare.

Farà da solo il mondo e riporterà le cose alla sua dimensione perché lui sa come trovare gli equilibri senza compromessi, non ha politiche a cui obbedire e i suoi interessi non hanno posto in qualche paradiso fiscale.

segnali

Ci sono segnali inequivocabili: le cose cominciano a diventare difficili, le telefonate si attendono e non si fanno, quello che subentra è un dovere che prende il posto del piacere di un gesto gratuito. Si rimprovera una muta scarsa attenzione che giustifichi l’adombrarsi, il chiudersi.

Quante volte ha funzionsto questo meccanismo che sta sulla cresta di una decisione quasi presa. È la presa d’atto inconscia della trasformazione di qualcosa che era eccezione in normalità.

Ci si stufa. Sì, anche, ma di cosa?

E questo venir meno non è stato testimoniato da un dialogo via via  senza radici? La superficie del comunicare diventa frase fatta e poi silenzio, il non detto si accumula, finché si attende la mossa dell’altro e già un giudizio si è fatto strada: sono stanco, vorrei qualcosa che non c’è.

pomeridiana

 

Si chiamano sale del commiato, hanno bisogno di una presenza e si riempiono e vuotano dopo i discorsi, ma in realtà non è mai un chiudere, un salutare per davvero. Stamattina la sala era zeppa di persone, moltissime in piedi, con i discorsi, le canzoni rivoluzionarie cantate assieme e infine l’Internazionale. Colpiscono le biografie raccontate, ci conosciamo e sappiamo tutti che non c’è enfatizzazione, che le cose pubbliche fatte in una vita sono veramente tante. Il privato resta pudicamente da parte ed è bene ci sia questa sfera che un tempo non era ostentata come accade ora nei social. Pensate a cosa accadrebbe se il big data mettesse assieme tutto ciò che abbiamo fatto filtrare di noi, lo riassemblasse in un racconto organico fatto di date e momenti, di fotografie, messaggi, mail e telefonate, di racconti, post, musiche, film e chissà quant’altro e poi lo pubblicasse come la nostra storia, mancherebbe la dimensione del fare taciuto, dell’essere noi per davvero nelle cose. Prevarrebbe l’io, un interminabile io che descrive speranze e solitudini personali, una sorta di racconto che è anche un rappresentarsi, mentre sono i gesti, le cose collettive costruite con pazienza che danno una dimensione vera.

Per questo Compagno l’età non è stata una scusa per tirarsi indietro, c’è stato sempre nella storia. Una storia apparentemente piccola, locale, come si usa nelle città medie dove ancora il quartiere fa la differenza, e un tempo la facevano le mura cittadine. Esser nati “sol sasso” aveva la connotazione della prima certificazione di appartenenza: non sulla terra, in campagna, ma nella città. I quartieri erano piccoli borghi con una identità di mestieri e per chi nasceva negli anni’20 una scelta maturava abbastanza presto, tra l’essere fascisti oppure no. Ammetto che le mie frequentazioni, la mia famiglia era di parte, naturalmente antifascista, ma se si vuole leggere quello che accadde nella guerra e dopo di essa si trova la traccia di un noi condiviso più grande, che si rafforzava ed entrava a fare parte delle vite plasmandole in conformità. Non era un perdere qualcosa ma un acquisire, un essere se stessi e insieme un’idea forte di cambiamento. Questo avveniva con i mezzi forti e semplici della parola, del condividere l’anguria d’estate, del prendersi cura di un vicino, del cantare e mangiare assieme, nel fare politica. Un vedere il mondo uscendo dalla porta e mescolandosi ad esso, non guardandolo dalla finestra. Un assommarsi di umanità che convergevano su persone che rappresentavano con la vita, la coerenza trasfusa nell’etica del bene comune, della giustizia, dell’eguaglianza vera e pratica di chi tende la mano, sia per rialzare, sia per chiedere aiuto.

L’umanità di Guerrino era questo, un essere insieme restando caparbiamente fedele a se stesso e a ciò che era importante per tutti. Stamattina un ex sindaco democristiano che l’aveva avuto come avversario politico, ma insieme amico, ha detto che loro, i giovani DC di allora, invidiavano un po’ questa capacità di essere tra la gente ed insieme di essere gente, che il sentimento di una collettività era un noi fatto di tante individualità. A me veniva in mente l’immagine del fiume che porta innanzi e ha una meta più grande, mentre per strada porta benessere ai luoghi che percorre, che si fa rispettare ma insieme unisce e trasporta e ha un prima che non interferisce col poi. Guerrino rappresentava visivamente la generazione di compagni che avevano semplicemente costruito una società, e con le difficoltà di trovare una sintesi, avevano percorso idee forti. Erano rimasti fedeli all’umanità che avevano attorno e che era lo specchio e la sostanza di ciò che volevano mutare. Così sono sorti parchi, messe panchine, piantati alberi, voluti asili nido, aiutati anziani a vivere nella loro casa. E tutto questo cercando di mutare la città e di capire il mondo. Essere in un contesto che ha una lingua propria non significava avere una barriera per il giusto, per l’equo, per la libertà di chi aveva altra lingua e altro colore della pelle.

In questa cerimonia laica c’era anche il parroco ed era una cosa naturale perché la comunità comprende chi crede e chi non crede, ma entrambi si ritrovano in chi è di fronte al loro: l’uomo e i suoi bisogni. Di Guerrino si è sottolineata la schiettezza e la ruvidità che tradotto significa che era vero, senza infingimenti, poco diplomatico e affidabile in ciò che diceva, perché era il suo pensiero. Aveva mani grandi, da artigiano e da liutaio. Aveva fatto entrambe le cose: mobili e strumenti musicali, poi solo strumenti che dovevano essere un miracolo che trasformava il legno in armonia udibile oltre che belli da vedere. Assieme al suo, sono stati evocati molti nomi di donne e uomini che hanno condiviso questo fare comune, questo lottare per un ideale. Si conoscevano tutti, si frequentavano, erano un insieme di vite vere e di famiglie che mettevano assieme quanto di bello e forte genera il privato. Un’umanità irripetibile che ha costruito molto ed è stata molto assieme. Essere assieme era il senso di una politica e di una vita, una condizione che metteva davanti l’uomo, i suoi bisogni, e il cambiare, tutti, insieme. Per questo Guerrino era amato assieme a molti altri che hanno condiviso e sono stati generosi nel vivere. Non so se tutto questo sia finito, essere stato testimone e in piccola parte dentro quella realtà mi sembra una condizione che debba ripetersi, che l’essere uomini lo esiga. Magari in nuove forme ma che non possa essere che così perché solo assieme si va oltre il bisogno, la solitudine, l’ingiustizia.

Si chiama sala del commiato ma non si lascia mai ciò che si è vissuto come importante e vero. E neppure chi l’ha testimoniato, ci lascia mai, perché sennò saremmo soli e senza speranza, ma non è così. Non è mai così.

 

non ti ascoltano

Non ti ascoltano. Si vede perché continuano con il loro discorso. Hanno già una conclusione in testa, anche nel portare le parole dove devono andare. Se sono educati, lasciano parlare e poi ricominciano spostando a lato il ragionare. Verso di loro. Dici una cosa e ne capiscono un’altra, ma non è perché ti spieghi male, no, è perché se affrontassero ciò che dici, chiedi, sarebbero costretti a modificare l’immagine che si sono costruita. Dovrebbero rifare l’edificio che ti contiene. Lo so, non è facile per nessuno ricominciare ad ascoltare, però da bambini qualcosa a proposito ci era stato insegnato, poi si è smarrito come necessità di identità, di intelligenza che classifica e quindi risparmia tempo. Non erano glorificati quelli che capivano al volo? E se si sbagliavano di poco erano comunque migliori di quelli che ascoltavano, si prendevano tempo per capire e poi dicevano. Ma spesso il tempo era già passato. In ogni testa c’è un processo che fa trovare le parole giuste, i gesti appropriati dopo che i fatti sono avvenuti. E tutto ci pare così naturale, così giusto e forte che non pochi si convincono che è andata proprio così. Invece è andata diversamente, e quell’ascoltare e dire le parole appropriate non c’è stato. Forse per questo non ti ascoltano, per la presunzione di aver già capito e quindi risparmiano tempo, sanno già dove andrai a parare. Ti conoscono. E noi oscilliamo sempre tra la voglia di essere riconosciuti e il nostro personale mistero da svelare solo a chi vogliamo davvero, così che quel conoscere applicato, sbrigativo non coglie nessuna delle nostre necessità e suona offensivo. Però è tutto un processo interiore perché nel frattempo il non ascolto procede e arriva alle sue conclusioni. A questo punto ci sono due possibilità, o lasciar perdere e passare ad altro oppure insistere, ricominciare, precisare. Quasi sempre fatica buttata, anche perché il tempo gioca un suo ruolo e quello che reciprocamente ci dedichiamo per comunicare ha sempre un limite più ristretto di quello che viene riservato ad altro. Quando si dice: non hai mai tempo, significa, non hai tempo per me, per ascoltarmi. Quindi si lascia perdere, si rinvia a migliore occasione, che non verrà perché ascoltare è un’arte, un esercizio della cura e questa modalità viene considerata superflua nella società in cui viviamo. Si privilegia l’intuizione all’ascolto, come se queste modalità del comprendere fossero separate e l’intuizione non fosse il capire oltre la normale comprensione. Quindi si parla di un’altra intuizione, ovvero del presumere, cioè del far rientrare in modalità conosciute i comportamenti, i tipi somatici, psicologici e dell’agire senza attendere la comunicazione verbale. Cioè un giudicare in fretta per reagire. Cosa importante se si vive in una foresta piena di possibili aggressori, ma tra persone che si conoscono, presumere è un’offesa. Provate a pensare quanto essa viene praticata anche nei rapporti amorosi.

Non ti ascolta, non ha tempo per te, oppure ti considera classificato e prevedibile, non c’è comunicazione. Un grande spreco alla fine.

 

domande

Mi chiedo chi siete voi che leggete. In quale mondo vivete. Come sono le vostre giornate, le abitudini, le difficoltà, i legami, l’allegria come nasce, i sentimenti e il loro grado di intensità, di libertà, se siano una nota di basso o un acuto che s’inerpica. Mi chiedo della vostra somiglianza e ancor più della diversità, ma soprattutto mi chiedo cosa sia per voi star bene.

Mi chiedo cosa vi spinga a leggermi, cosa intuite dalle mie parole, se da esse indagate in un pensiero sotteso, in una vita che non è la vostra eppure in qualche tratto approssima e forse coincide.

Questo mezzo, apparentemente virtuale, fornisce a chi scrive, una iterazione per immediatezza e intensità, sconosciuta agli scrittori, ma ( il ma ci sta sempre a temperare gli assoluti) è privo della conoscenza diretta, non è, se non di rado, un canale biunivoco. Certo vi intuisco, leggo di voi dove scrivete se anche voi lo fate, mi faccio domande sulla vostra persona, del perché scegliate alcune rappresentazioni e ne taciate altre. Alla fine ci si deve accontentare di un approfondire per  interesse e intuizione, delineare attraverso l’immaginazione, un’immagine a due dimensioni che prescinde da tutti quei codici che si usano nel reale: l’immagine, il gesto, l’età, il modo di esprimere il sentire, il silenzio tra le parole, la volontà di oltrepassare una soglia e mostrarsi. In questi luoghi la linea del con-fidare ovvero dell’aver fiducia dell’altro ipotetico è essa stessa una rappresentazione di sé, di un bisogno e di un limite. Ritaglia la dimensione e la fissa in un cliché comunque vero: mostro di me ciò che voglio arrivi a un qualcuno che non conosco ma che non mi è estraneo. Però è una verità interrotta proprio perché nel virtuale il vero è più corredato di immaginazione per riempire le caselle mancanti. Non c’è nulla di male in tutto questo guardare, pensare, immaginare, c’è attenzione, curiosità, partecipazione e bisogno di vedere. Però non possiamo, se non per caso, dirci davvero come stiamo, cosa vediamo e sentiamo nel momento in cui esso accade e diventa emozione per noi. Lavoriamo in differita e nelle riflessioni la distanza dall’accaduto può essere lunga, misteriosa, estendersi come le ife dei funghi, lontano negli anni. Ciascuno, io per primo, rappresento dei nodi, il loro persistere e la fatica dello sciogliere, mostro passioni la cui intensità è solo a me nota, taccio e parlo di qualcosa che non è solo cronaca, altrimenti corrisponderebbe a quel distratto informarsi su come si sta che neppure attende la risposta per passare ad altro.

Fuori piove, è un grigio pomeriggio di quasi primavera. La grondaia suona i rivoli d’acqua che cadono dal tetto, ne segue l’intensità con vibrazioni sempre diverse. È il giorno dopo la notte delle elezioni, sono accadute molte cose, altre ne accadranno, ma con rilevanze diverse. Per alcuni saranno dei fatti che sorprenderanno, per altri saranno un lento erodere delle speranze faticosamente costruite sul futuro. La mente analizza e cataloga, è abituata ed è stata formata per questo. Anche a riconoscere la propria insufficienza. Mette assieme ipotesi e scenari, li riporta sulla propria vita e sulle vite comuni, ma sa che questo è un esercizio privo di assoluti. Approssima certezze e paure, le combina per ricavarne un pensiero di futuro.  È un lavoro inutile eppure è difficile sottrarsi al mestiere dell’indovino. In fondo chi vaticina vorrebbe non azzeccare mai le previsioni che non gli piacciono perché sa che non può influire, se non in minima parte, su esse, ma sa anche che non riuscirà a sottrarsi alla loro influenza. Si realizzino o meno, le vite ne verranno cambiate. La tristezza della notte quasi insonne si è mutata in malinconia e bisogno di silenzio. Anche di stare a guardare senza ragionare.

Non ne parlerò oltre di elezioni, ma mi chiedo come altri vivano il momento, la giornata trascorsa nell’attesa. Non mi interessano i grandi vincitori o gli altrettanto grandi sconfitti, ma chi ha interessi analoghi ai miei e che in qualche modo conosco e che penso come persona concreta, vera, portattrice (non è un refuso ma il fondere l’essere attrice, il suo interpretare e portare questa capacità ad altri) di vita e di passioni. E mi ritorna un senso del relativo che è stanchezza, il mirare la realtà e il passar oltre mescolandola al quotidiano.

Far l’amore la notte della battaglia era un ritornare a sé del guerriero, del rivoluzionario, o anche più modestamente, il bisogno di un presente che cancellasse per un poco il futuro, assieme e infinitamente soli. E in questo pensiero racchiudo ciò che è mancato alla notte.

 

la commedia dell’innocenza, scena quarta

Scena quarta:

Il palcoscenico si è ora trasformato in una carrozza di un treno veloce. I passeggeri sono seduti a coppie e rivolti verso la sala. Il protagonista è seduto in prima fila e sta leggendo, ha uno smartphone sotto il libro, a volte lo guarda e scrive brevemente. Gli occhi si spostano fuori dal finestrino. Masse di verde si alternano a gruppi di case, campi, colline, capannoni, guarda e cerca di riconoscere, poi torna al libro. Al suo fianco, una donna, anch’essa intenta a leggere. Non sappiamo se siano una coppia o li abbia messi insieme il caso. Dietro e a fianco, c’è rumore di conversazioni e telefonini. Alcune persone si alzano e prendono cose dagli zaini e dalle valigie. Verso il fondo si vedono persone che mangiano e un paio attendono che si liberi la toilette. Una voce sintetica annuncia stazioni d’arrivo, pubblicità della compagnia che gestisce il treno e la velocità raggiunta.

Il protagonista dice tra sé che bisogna essere responsabili, ma non di tutto e non per sempre. La memoria senza il perdono diventa un peso progressivo, ma se fuori di noi c’è al più l’indifferenza, la rimozione, è con noi che dobbiamo sistemare i conti. Togliere il giudizio è tornare all’innocenza. O forse questa non esiste perché la memoria la impedisce. Solo lo smemorato ha a disposizione un’altra vita e così ricomincia. Chi è leggero e immemore si limita a dissipare, l’iperattivo trasfonde nell’esperienza l’ansia del suo fallire, del non essere abbastanza e così facendo aggiunge memoria e vacuità. Ma chiunque si sia, cosa sanno gli altri di ciò che accade davvero? Nulla o quasi, vedono fatti, interpretano, li riconducono a categorie che conoscono, devono trovare il loro posto in ciò che accade e questo lo fanno per differenza. Vorremmo tornare all’assenza di memoria, al punto zero, ma non è possibile. Eppure ci sono vite che ricominciano, ma per questo serve la purezza della passione e dell’amore.

Attorno al protagonista il mondo si muove, in fondo è lui che sta fermo. Scambia qualche parola con la donna a fianco, riprende a leggere, guarda il telefono e fuori dal finestrino. Medita sul non dire, sul tacere come privazione e punizione per chi non lo ascolta. Andarsene non è mettere un silenzio tra chi si vorrebbe e non si ha, tra il desiderio e la sua attuazione? Però avere ancora qualcosa da dire significa essere conseguenza e novità di se stessi, pensa, servirebbe la mossa del cavallo che scarta e guarda di sguincio, cioè il vedersi prima e non essere prevedibile poi, neppure a se stessi. E procedere andando a lato. 

È diventato irrequieto e vorrebbe abbandonarsi, prendere sonno e arrivare, perché sa che è a una svolta della convinzione. Dopo non sarà uguale a prima, qualche abitudine acquisita con fatica, dovrà cessare. Pian piano invece, la consapevolezza prende forma. In fondo è partito per questo e sa che ciò che pensa lo costringerà a mutare rapporti, a decidere almeno per un tempo che sembrerà sempre infinito, ma avrà bisogno perenne di riconferme. E il pensiero è ormai questo:

Bisognerebbe procedere con l’ indifferenza del volare sopra, perché questa non tiene conto, cioè non calcola e s’imbeve di vita vecchia e nuova reimpastata assieme. È questo che reinterpreta la memoria, che la sottrae al giudizio della conformità e dell’ immagine.

E comunque non è possibile l’ innocenza fuori dell’ amore e della passione, oppure bisogna finire nella follia. Non si può fuggire e neppure restare. E solo nella forza primeva dell’ appartenere riconoscendoci nell’altro, unico per noi, che ci si libera da ciò che sembrava importante e non lo era. Per questo bisogna avere passioni per parlare, bisogna amare per fare il nuovo. Solo in questo ci può essere innocenza e cancellazione d’ ogni fallimento, d’ogni errore e quindi della colpa.

La vita è una sinfonia scritta con le note sbagliate, che si assomiglia e approssima nell’essere suonata. Bisogna cercare l’armonia nella dissonanza, liberare il suono dalla prigionia dell’esecutore maldestro, sottrarsi al critico che non suona, che non scrive, che ha solo studiato, oppure ha fretta o mestiere. E solo l’amore e la passione ricompongono un disegno in cui sembra di aver visto oltre, ma in realtà è ancora tutto da scoprire, leggere, vedere. 

È nervoso e sereno assieme, vorrebbe mettere tutto in parole, ma l’altoparlante annuncia che la sua stazione è prossima. Chiude il libro, si alza, prende i bagagli e si appresta a scendere.

 

super stizioni

È come un annodarsi d’intestino, qualcosa che deve sbrogliarsi dentro per lasciar liberi. E bisogna convincersi del disannodare con leggerezza e arguzia acuminata: vedi non è così, non accade ciò di cui hai paura perché è solo (solo?) una paura. Gli specchi non si rompono quasi più, eppure resta un senso di franto che investe l’anima. Il corpo, lo stesso corpo ne è scisso in più parti, come le membra fossero tirate da coppie di buoi in direzioni opposte e il ritrovarsi a pezzi fosse ricomposto con chirurgie maldestre.

Perché ricomporre e non comporre? Cioè accettare il nuovo che si è creato per rifletterci meglio prima di assemblare nuovamente. Gran parte del tempo lo passiamo a ricostruire, come se il prima fosse stato un tempo intrinsecamente felice e solo il perfido aggregarsi di contrarietà ne avesse determinato la fine. Silenziosa o esplosiva. Nel rompere del mito, ovvero in ciò che ci ha contenuto, lo specchio, c’è la rottura del sé: l’identità franta. In un prima, dove eravamo interi e poi invece, divenuti tanti, più piccoli, incoerenti, taglienti alle dita, ma soprattutto allo spirito. E se fosse proprio il frangere che permette la composizione di un sé a dimensione propria? Dai pezzi che riflettono, rifiutando la geometria di linee ritte e portati su più luoghi trovare una immagine che assomiglia. Non quella che tira indietro la pancia, mostra la rotondità delle labbra, scruta le pieghe del volto, indaga quello sconosciuto che sta guardando verso di noi, ma qualcosa di più piccolo, spigoloso e irregolare, frutto di una rottura paradigmatica che genera o rottami incoerenti, oppure l’alterità misconosciuta. Anche la ricomposizione dell’immagine attraverso i pezzi avrebbe una verità ulteriore, ovvero la dimostrazione che non è l’unità il punto di arrivo, ma il suo riconoscimento nella molteplicità. Io sono questo e anche altro, mi riconosco in ciò che vedo di me e la mia sintesi è apprezzare le diversità, farne un poligono di forze che genera equilibri dinamici.

Il mondo virtual-reale è fatto di miliardi di immagini, scritte o fotografate che continuamente rappresentano, narrano storie, mostrano identità subito cancellate dalla successiva. È stata creata la più grande discarica di sé mai inventata nella storia dell’umanità. Frammenti. Simboli che sanciscono inizi e conclusioni continue. Si strappa la fotografia dell’ex amato, la lettera (la mail) a lui indirizzata e guardandosi allo specchio si pretenderebbe di essere uguali, oppure di riconoscere la tristezza in ciò che viene riflesso. È una rappresentazione, una approssimazione del sentire ciò che ci si para davanti, mentre la tristezza sarebbe ben riconoscibile in ciò che strappiamo e cancelliamo. Lì, in quell’immagine protesa c’era già il germe della rottura, cioè una falsa unità, un assomigliare a un’ immagine non propria per accontentare (rendere contento chi si ama).

E se l’immagine non ha più un oggetto a cui rivolgersi perché non dovrebbe riflettere sulla molteplicità e sulla solitudine che accompagna l’uomo? Noi cerchiamo l’unitarietà perché pensiamo che in essa ci sia un ordine di natura, un’innocenza perduta, una pace in cui il conflitto esteriore non ci sia e con esso il conflitto interiore. La notizia cattiva è che quell’unitarietà e quell’ordine non c’è mai stato, la notizia buona è che con fatica ci si può liberare dal conformismo che ci vuole ad immagine di qualcosa che non siamo noi. Pensiamoci in quest’era di falsità globalizzate, lo specchio che si frange è ora l’immagine buttata e in questo noi possiamo vedere la ricerca di ciò che siamo davvero oppure la nostra irrilevanza quando ci mostriamo. E siamo irrilevanti quando non siamo noi stessi, quando l’immagine è quella unitaria di uno specchio che distrattamente non ci trattiene per carenza di dialogo. Gli specchi rotti li abbiamo dentro e su questo possiamo decidere se essere o assomigliare ad altri, se comporre o ricomporre. Un insegnamento viene dal mito, ciò che si rompe non è più come prima, comporta un passo avanti, mai indietro. E l’essere differenti è un male se si è in un mondo in cui tutti si conformano oppure diviene la spinta verso il cammino, la solitudine di chi cerca un luogo in cui riconoscersi.

C’è un mito ulteriore su cui vorrei attirare l’attenzione. Qualche giorno fa parlavo di architettura e di un progetto di una casa che a suo tempo mi colpì, E-1027, di Eileen Gray. L’autrice, che di scomposizioni interiori se ne intendeva e le mostrava nel proprio creare, diceva che in quella casa era possibile trovare la solitudine pur restando tra altri. Provate a pensarci quanto questo archetipo dell’essere soli e socievoli, ci accompagni, come bisogno del comporsi a fronte di una scissione esterna, una sorta di non io obbligato. La stanza tutta per sé di Virginia Woolf, le solitudini dell’uomo senza qualità di Musil, il mondo di Orwell, la musica dal ‘600 in poi, la poesia come liason tra il dentro e l’universale, tra l’additare e il sentire. Insomma c’è un bisogno di essere con sé che si esprime attraverso desideri, e questi sono i pezzi di quell’unitarietà che può essere composta solo accettando che ci siano più immagini, che questa sia la condizione per vedersi davvero. Poi come ci vedono gli altri importerà meno, ma almeno non sarà la costrizione a non assomigliarci.

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l’inverno del nostro scontento

Le foglie si accumulano sui chiusini, per fortuna piove poco. La città è meno pulita, segno di un’incuria comune che ormai non protesta più ma accetta lo stato di fatto. In questi anni la distanza tra ciò che fa l’amministrare pubblico, la politica, e la risposta ai bisogni si è allargato a dismisura e ciò che sta in mezzo è stato riempito dall’indifferenza reciproca. Tanti piccoli segni fanno una prova enorme di una a-sintonia tra  sentire e risposte. Si è relativizzata così la possibilità del sistema rappresentativo democratico di essere la risposta ai bisogni e alla tutela del bene comune. Lo smottamento è iniziato da molto tempo. La dialettica tra bisogni e risposte è insita nell’amministrare, ma ad un certo punto è cominciata ad affievolirsi la speranza di trovare un accordo, forse perché la verità non solo ha smesso di essere detta ma è stata sostituita dalla narrazione che tratta un po’ tutti da deficienti raccontando di qualcosa che i fatti contraddicono. Posso dire che la città è più pulita di Roma, ad esempio, ma questo non mi consola se vedo che con un po’ di pioggia le pozzanghere diventano laghi, se lo sporco si istituzionalizza, se si sta comunque degradando un modo di procedere che rendeva la città più bella e accogliente, non sto meglio. E sopratutto non mi fa stare meglio pensare che altri stanno peggio. Però si accetta e si cancellano i problemi. Ma questa acquiescenza non è a costo zero, ci sono segnali preoccupanti: se la politica si distacca dal cittadino questo si distacca dalla politica, immagina una sua narrazione dove le cose complesse diventano semplici, dove il bisogno immediato dev’essere soddisfatto perché manca la prospettiva di futuro.

Un tempo i partiti erano portatori di un progetto di futuro, avevano una platea a cui si rivolgevano, attraverso i programmi mettevano in correlazione le vite con ciò che pensavano di fare. Erano cose semplici: il lavoro retribuito equamente, la legalità come regola comune, la tutela della libertà individuale e collettiva, la possibilità reale di una crescita che riguardava tutti e l’individuo. Insomma un futuro che comprendeva le possibilità che già c’erano nel presente. Poi c’è stato uno snaturamento, non solo italiano ma almeno europeo. Le socialdemocrazie hanno scelto il neo liberismo come dottrina economica, la globalizzazione ha via via distrutto posti di lavoro in occidente creando un flusso di tecnologie in cambio di merci, il lavoro è diventato occupazione, la finanza ha preso il posto della generazione del profitto attraverso la produzione di beni, il divario tra la classe media e l’1% della popolazione che è proprietaria di più di metà di tutto ciò che vediamo è cresciuto inverosimilmente. Si sono perduti i regolatori politici nei confronti dell’economia. In tutto questo si è finto di privilegiare l’individuo, raccontandogli che poteva raggiungere qualsiasi obiettivo, purché staccasse i suoi bisogni da quelli degli altri. Si è generata una solitudine progressiva che non solo ha alimentato un disagio personale crescente di fronte al divario tra desideri e soddisfazione, ma li ha scissi da una soluzione collettiva.

Solo che adesso è entrato in discussione anche il neo liberismo e quindi la narrazione non sa più cosa narrare di nuovo e di collettivo, ma torna su se stessa, ricorda il passato e alza muri, mette dazi, impone regole che riguardano un solo paese ma hanno effetti su tutti gli altri. E questo verbo si rivolge al popolo sovrano raccontandogli che la soluzione dei problemi comuni si trova nelle protezioni nazionali, nell’isolamento dal mondo, nella applicazione di regole che valgono solo per loro, i cittadini, che sinora hanno subito la tirannia dei bisogni degli altri. Trump è l’epigono di questo sistema di chiusura nei confini che però ha effetti immediati nel resto del mondo. La sicurezza mondiale si è retta su equilibri difficili che ammettevano guerre indirette, atrocità e rapine nei confronti dei più deboli, ma scongiurava il confronto diretto, toglieva il mondo dalla possibilità della guerra totale. Ora per atti concreti si rimettono in moto confronti che causeranno infinite sofferenze. Un esempio l’abbiamo vicino a casa, in quel bacino mediterraneo dove confrontando la situazione attuale rispetto a quella di 10 anni fa, si vedono instabilità, guerre in atto, paesi scissi, la presenza di un terrorismo endemico che trabocca in Europa e che rappresenta il sintomo, non la natura del male. La parte nord, di cui fa parte l’Italia è sinora moderatamente stabile, ma non esiste una politica comune di pacificazione, una operosità dell’agire che faccia comprendere ai popoli i vantaggi dell’essere assieme in pace piuttosto che combattersi. Cosa significherà portare a Gerusalemme l’ambasciatore USA? Il riconoscimento che questa è la capitale di uno stato e la sede di una religione prevalente, un disastro dal punto di vista della possibile coesistenza di fedi e popoli portatori di diritti almeno equivalenti. E sfugge che anche in occidente, in Italia, che ciò che rendeva possibile una idea di pace comune, ovvero le libertà individuali e collettive, diventano sempre meno importanti per l’esercizio della sovranità collettiva, per stabilire forme opportune di governo. Si baratta cioè la libertà, pensando erroneamente che essa sia comunque data, con l’idea di un governo autoritario che porti alla soluzione dei problemi e risponda ai bisogni dei cittadini. Insomma abbiamo le condizioni perché Trump non sia una risposta stravagante e transitoria ma diventi l’idea che chiudersi nei confini ed esercitare la forza con una visione solo locale e non di equilibrio collettivo, sia la risposta al disagio collettivo delle classi medie del paese.

Proviamo a riassumere il presente offerto dalla politica nazionalistica: lasciare che ci si scanni a livello regionale purché sia fuori del nostro territorio, accettare che ci siano meno libertà purché venga una risposta ai problemi economici, trasformare gli individui in massa di individualità che non hanno un futuro comune ma un presente competitivo in cui qualcuno potrà eccellere e gli altri comunque trasferiranno i loro bisogni su chi ha meno di loro. Comunque limitare le possibilità di essere portatori di cultura tra le culture, di meticciare i saperi, facendo una narrazione di un’identità presunta, immaginata, che corrisponde a un mondo mai esistito.  L’Europa è zoppa e inerme di fronte a questa ondata di nazionalismi perché ha fondato la sua unità solo sull’economia e non sull’unione dei popoli, e quindi è investita dall’idea che le patrie non siano il luogo di partenza, ma quello di arrivo e che bastino trattati di libero scambio per avere una proposta verso il mondo che renda veri i principi su cui si è fondata la tolleranza e la democrazia rappresentativa. Questa è un’Europa non autorevole perché scissa, dove neppure i più avvertiti riescono a trovare una sintesi che permetta processi di speranza collettiva. Resta l’euro, ma senza una comprensione comune che è solo un mezzo per andare verso l’unità politica è una moneta debole, un oggetto in cui c’è più un simbolo che una realtà. E bisogna pur dire che l’Italia, aldilà delle parole altisonanti e vuote, non ha avuto una funzione positiva in tutto questo scivolare verso il basso ventre delle paure. Di fatto la sinistra si è acconciata su teorie che la snaturavano, e lo stesso Renzi, che si è mosso come un elemento di evidente acquiescenza al neo liberismo in cambio di un rinnovato protagonismo della politica, fallisce doppiamente sia nella risposta ai bisogni che nell’essere guida di una reinterpretazione del primato della politica. Con Trump e con la May si supera la globalizzazione e si mette in moto un nuovo ordine mondiale dove conta solo la forza. Quanta forza possa mettere in campo un Paese diviso e incerto, ma soprattutto senza fiducia nella politica, come il nostro, lascio a voi che leggete, giudicare.

Eppure ci sono segnali di un risveglio delle coscienze, non pochi comprendono che se si è chiuso il ‘900, secolo di totalitarismi ed enormi lutti, ciò che si apre è la necessità di reinterpretare il legame tra politica e bisogni, di passare dalla narrazione alla verità che include soluzioni, magari difficili, ma perseguibili. Sanders negli USA, aveva indicato una strada che i giovani avevano compreso, in Francia accade qualcosa di analogo, anche in Grecia e Spagna comunque ci sono segni forti di una necessità di percorrere strade nuove che mettano assieme anziché dividere, e che riscoprono i bisogni comuni come somma di necessità individuali. Sono segni e idee affidate sopratutto ai giovani, a quelli che non hanno le tare di una stagione ricca di ideologismi, ma che sono in grado di esercitare la critica a partire dalla loro condizione. Per questo quel 40% di disoccupazione giovanile è un bisogno di lavoro che solo in chi lo prova può generare una idea nuova di società e di presenza delle persone e dei diritti in essa. Confido nei giovani perché essi hanno un bisogno di libertà ben differente da quello di chi ha avuto potere sinora, penso che ancora una volta le rivoluzioni sono un atteggiamento di cambiamento che nasce in chi non ha più nulla da perdere in un presente che lo conculca, ma ha ancora la forza di immaginare un futuro diverso che lo riguarda.  

In fondo è ancora la lotta tra chi vuol tenersi tutto e chi ha poco o nulla, tra il conservatorismo che torna sempre indietro e il cambiamento che per essere positivo non può che andare avanti.

Le foglie ostruiscono i chiusini, ci sono larghe pozzanghere e il cielo è grigio, ma un’idea di bene comune sposta le foglie quando sa che non può evitare la pioggia, si prende cura di ciò che accadrà perché il presente non gli piace.

raccomandazione

Non che gliene facessi una colpa, anzi, ero io che mi dicevo imbecille. Per come avevo affrontato il problema, per aver trovato parole poco convincenti e aver dato per scontato un atteggiamento simile al mio.

Se una persona aveva davvero bisogno perché non darle una mano? Non si toglieva nulla a nessuno, non si creavano privilegi. Qualcuno veniva tolto da un’indigenza imprevista, veniva aiutato per quel poco che sarebbe servito a tirarsi fuori d’impaccio e poi avrebbe trovato da solo le soluzioni. Non parlavamo di chissà quali lavori, e neppure di stipendi lauti, sarebbero stati per otto ore di lavoro, 7-800 euro al mese. Il necessario per pagare le bollette e mangiare.  A una certa età non si guarda troppo per il sottile, si capisce che è accaduto qualcosa che non solo non si era previsto ma che non doveva accadere. In fondo è la china che ha un giocatore che pensa sempre di rifarsi al giro successivo e invece, nonostante la buona volontà, è una spirale verso il basso. Finché non c’è più nulla da vendere, e si è toccato il fondo. Noi eravamo stati fortunati, allora perché non aiutare, non dare una mano?

Per anni erano venuti da me fidando che il potere potesse qualcosa. E per alcuni avevo tentato. Niente di illecito, per carità, ma solo quel garantire di persona che erano persone a posto. Con qualcuno aveva anche funzionato. Nel senso che era stato assunto, e mi erano pure stati grati quelli che lo avevano preso perché faceva il suo lavoro e doveva dimostrare che era in grado di essere affidabile. Insomma ne era nato qualcosa di positivo. Poiché le cose riguardavano il privato e non c’era obbligo per nessuno, mi sembrava fosse una solidarietà dovuta, il provare a risolvere una situazione di emergenza. E mi era rimasto questo atteggiamento: se si può fare si fa. Anche perché il tanto parlare di sinistra, di diritti, di eguaglianza una qualche concretezza doveva pure averla.

Anzitutto nei gesti quotidiani, nella pulizia dell’agire e poi nella prospettiva in cui mettere quelle quotidianità: rifiutare una pressione su un appalto era un gesto che si diffondeva subito nell’ambiente. Non te lo chiedevano più. Magari ti raccontavano il bisogno dell’azienda, la necessità di pagare gli operai, però se dicevi che c’erano regole precise, capivano. Insomma chi era onesto, veniva stimato e di questa stima ti raccontavano anche dopo anni, quando le cose si erano raddrizzate oppure erano definitivamente crollate. Non chiedevo mai nulla a qualcuno che avesse a che fare con me per lavoro. Solo a persone che in qualche modo avevo conosciuto per altri motivi. Premettevo che capivo il momento, ma se per caso avessero avuto necessità, c’era una persona disponibile in una situazione difficile. Poi facessero loro, a me bastava leggessero il curriculum e, se ritenevano, la vedessero. Non capitava spesso, né la richiesta, né il fatto che andasse a buon fine, ma detto senza pressione o obblighi, mi pareva che questo non alterasse i rapporti reciproci. Sí, era così.

Poi col tempo, e perdendo ruoli, le richieste si erano fatte più saltuarie. Chi ha bisogno chiede a chi può dargli qualcosa, oppure non chiede. In questo caso però la situazione era così evidente e grave. Per questo mi ero offerto di fare un tentativo. Senza impegni per nessuno e anche senza speranza, c’avrei provato e basta. Avevo approfittato di un’occasione allegra, di una cena tra amici, per accennare al problema. Man mano parlavo, però mi accorgevo che quello che per me sembrava una cosa semplice, bastava dire di no, per il mio interlocutore diventava un problema istantaneo, ovvero come liberarsi da una situazione di imbarazzo. E così diminuivo la convinzione, mi davo dell’imbecille per averlo messo nella necessità di rispondermi.

Poi la serata continuò, tra battute e vini eccellenti. grandi strette di mano e abbracci finali. Eravamo fortunati, chi più, chi meno, ma nessuno aveva bisogno. Distante da lì, un problema non si era risolto, io avevo capito d’essere stato importuno, ma a volte l’errore non è in ciò che si fa, ma dove lo si fa e, sembrerà strano, questo lascia l’impressione a lungo. Come se qualcosa in noi adesso avesse una crepa. Ma anche questo è un modo di imparare.

lettera sull’ordine e i particolari

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Non ho il tuo ordine. Neppure lo stesso piacere di disporre le cose. Hai osservato che tra due persone c’è sempre un compromesso per mettere in un certo posto un oggetto? Qualcuno fa un passo indietro, oppure conviene su una scelta. Non ho il tuo ordine, ne ho un altro: dicono tutti così i sis ordinati rispetto a qualcosa, come se quel qualcosa fosse solo una sequenza ordinata, un collocare sopra i centrini o senza centrini. Davanti a un muro o in una teca. esattamente in quel posto. Se fosse così sarebbe semplice. Io odio i centrini, anche il centro delle cose mi infastidisce. penso che a lato, dove si guarda meno perché forse vi regna l’imperfezione, ci sia sempre qualche particolare che parla inutilmente. Che grida la sua presenza e poi resta afono. E deluso. E così sfugge e si rintana. Persino le città radiali le capisco poco, perché scappano oppure confluiscono dove rendere omaggio, inchinarsi. Non tengono assieme stabiliscono distanze da quel simbolismo solare dove c’è chi può illuminare. non è questa la logica del potere che trasfonde nella città?

Non vorrei mai inchinarmi, forse per questo ho un diverso ordine che non ama né centri né centrini e si confonde fino a sembrare un caos. Qualcuno dice che nel suo disordine trova tutto. Un tempo lo dicevo anch’io, ma allora avevo molte meno pagine scritte, molti libri in meno, poca musica nuova da ascoltare. C’erano immagini e fotografie che mi sembravano testi, mi ricordavano qualcosa, evocavano qualcos’altro, mi piacevano. Ci sono anche adesso, solo che si sovrappongono e devo sfogliare più che allineare, permettermi il piacere del pensare quieto a guardare, a riscoprire. Mi piacciono i particolari, quello che dicono e quello che suggeriscono. Ogni particolare contiene più vita dell’insieme. Si è data molta importanza alla perfezione, alle cose finite, noi tutti vogliamo che le cose funzionino, ma nessuno vorrebbe che la vita fosse già definita. È un tema non dappoco, che ha a che fare col tempo, con l’incompletezza. C’è la sensazione di avere sempre poco tempo e di essere incompleti, e allora si cercano succedanei che riempiano anche per un poco la vita. Nulla di quello che ho attorno mi completa, eppure è tutto necessario. anche nel rinunciarci, nel disfarmene, non perde questa caratteristica.

Nel mio ordine, che è un caos, non trovo più le cose, le scopro invece nella mia testa. Ci sono. Spesso con il momento in cui sono state raccolte o generate. Delle mie pagine scritte, invece, a volte mi stupisco. Mi sento cambiato ed è come guardassi un altro che ero. Che forse tu hai conosciuto, ma che ora è diverso. Questa asincronia del conoscere è un ulteriore elemento di convinzione che non si conosce mai davvero nessuno a fondo. Al più lo si presume, oppure si cerca di usarne elementi che ci vanno bene, ma la conoscenza come condivisione di un disegno, è difficile. Se penso alla vita, la sento come un flusso ordinato di fatti e di modi d’essere. Non penso ad un numero, non l’ho mai pensato, anche se adesso che non sono più giovane, lo so meglio. Credo che sia un rapporto con noi stessi, con gli altri che ha bisogno di uno spazio d’influenza. In questo spazio, ci sono le cose. Intermediari e riferimenti, non passato.

Ci siamo noi e il nostro corpo come realtà che si espandono attraverso la comunicazione e i sentimenti. Da tempo ho rifiutato la palestra, ad esempio, ma c’ho messo anni. Non rientrava più nel mio ordine. era una corsa verso qualcosa che non c’era in nessun luogo. Neppure attorno. Era una corsa ad una ipotesi di corpo, ma io il corpo ce l’avevo, volevo parlare con lui, non volevo mutarlo in modo che non m’assomigliasse perché dovevamo -e dobbiamo- viverci assieme. Così ho abbandonato la palestra che odorava di sudore e di polvere altrui e ho cominciato a camminare. C’è un ordine nel camminare. Hai osservato che tutti i nostri cammini sono circolari: parti da un luogo in cui tornerai. Scegli i percorsi, ti guardi attorno, osservi i particolari. Anche quando mediti e t’imbevi d’infinito è un particolare che ti apre la porta. Cammino ovunque e spesso nella città in cui sono nato, qui non sono mai solo perché ho la compagnia di ciò che è accaduto, ma non di tutto, di pezzetti molto ricchi. Particolari. Spesso mi accompagnano dentro le persone che mi hanno tenuto per mano e magari emerge qualche parola. Il dialetto usa unghie di velluto, è dolcezza che lascia il segno. C’era un ordine allora? Avevo dei luoghi per le cose, ma anche la stessa attenzione per i pezzetti dell’interezza e le tasche piene di possibilità. Una cartolina illustrata che veniva da un luogo mai visto era un generatore di sogni. Un pezzo di spago, un coltellino, un tappo di aranciata avevano in sé capacità incredibili di creazione. bastava guardarli in altro modo e cambiava il loro divenire. Mi immergevo nei particolari come nei libri e negli atlanti. Ti sembra strano? Mi piacciono ancora tantissimo e vorrei avere pareti per le carte geografiche arrotolate, per le immagini accatastate, possedere luoghi sufficienti a contenere gli scaffali necessari, e finestre grandi e luminose per dare loro luce.

Forse è questo il mio ordine. Quello delle mappe, quello del divenire delle cose che raccolgo e che vivono una piccola parte delle loro possibilità con me. Ho la coscienza che tutto si disperde senza di noi, improvvisamente perde di significato. I libri, ad esempio, sono una miniera di particolari che fugacemente ci riflettono in uno stato d’animo, ci mostrano una via che anche se non esce fa scattare un legame con noi. Sono frasi che si espungono e valgono più dell’intero testo. Ma a noi, per altri ci saranno particolari differenti o disinteresse. Ed io ricordo questi particolari anche se il libro è dentro a qualche pila che cerca faticosamente di mantenere il suo equilibrio.

C’è un luogo che potrebbe contenere l’ordine oltre alla testa e al corpo e sarebbe una casa quadrata con un patio che dia luce in entrambi i lati delle stanze. Non avrebbe bisogno di un centro ma della regolarità dei lati che scandiscono il percorso e il cammino. E tu hai capito perché: se io sono il centro non tollero altri centri. Non mi genufletto. Casomai mi lascio pervadere, abbracciare dalla possibilità che insieme si realizza. In fisica mi affascinava l’effetto Venturi che rileva come in un flusso all’aumentare della velocità diminuisce la pressione e viceversa. Come se la velocità impedisse di riflettere, di vedere e sentire meglio, e chi è impegnato a percorrere un pertugio, di fatto, debba solo correre senza pensare a sé. Aumenta la velocità delle cose e diminuisce la loro importanza: ti pare poco? Noi siamo immoto ordine veloce. E quel veloce man mano lo inghiottiamo, lo beviamo rallentando finché si tramuta in equilibrio, in consapevolezza.

Così mi viene un’immagine: pesci fermi nella corrente, ecco l’ordine interiore che guarda attorno e quando vuole esercitare la propria consapevolezza, scorre.