Si chiamano sale del commiato, hanno bisogno di una presenza e si riempiono e vuotano dopo i discorsi, ma in realtà non è mai un chiudere, un salutare per davvero. Stamattina la sala era zeppa di persone, moltissime in piedi, con i discorsi, le canzoni rivoluzionarie cantate assieme e infine l’Internazionale. Colpiscono le biografie raccontate, ci conosciamo e sappiamo tutti che non c’è enfatizzazione, che le cose pubbliche fatte in una vita sono veramente tante. Il privato resta pudicamente da parte ed è bene ci sia questa sfera che un tempo non era ostentata come accade ora nei social. Pensate a cosa accadrebbe se il big data mettesse assieme tutto ciò che abbiamo fatto filtrare di noi, lo riassemblasse in un racconto organico fatto di date e momenti, di fotografie, messaggi, mail e telefonate, di racconti, post, musiche, film e chissà quant’altro e poi lo pubblicasse come la nostra storia, mancherebbe la dimensione del fare taciuto, dell’essere noi per davvero nelle cose. Prevarrebbe l’io, un interminabile io che descrive speranze e solitudini personali, una sorta di racconto che è anche un rappresentarsi, mentre sono i gesti, le cose collettive costruite con pazienza che danno una dimensione vera.
Per questo Compagno l’età non è stata una scusa per tirarsi indietro, c’è stato sempre nella storia. Una storia apparentemente piccola, locale, come si usa nelle città medie dove ancora il quartiere fa la differenza, e un tempo la facevano le mura cittadine. Esser nati “sol sasso” aveva la connotazione della prima certificazione di appartenenza: non sulla terra, in campagna, ma nella città. I quartieri erano piccoli borghi con una identità di mestieri e per chi nasceva negli anni’20 una scelta maturava abbastanza presto, tra l’essere fascisti oppure no. Ammetto che le mie frequentazioni, la mia famiglia era di parte, naturalmente antifascista, ma se si vuole leggere quello che accadde nella guerra e dopo di essa si trova la traccia di un noi condiviso più grande, che si rafforzava ed entrava a fare parte delle vite plasmandole in conformità. Non era un perdere qualcosa ma un acquisire, un essere se stessi e insieme un’idea forte di cambiamento. Questo avveniva con i mezzi forti e semplici della parola, del condividere l’anguria d’estate, del prendersi cura di un vicino, del cantare e mangiare assieme, nel fare politica. Un vedere il mondo uscendo dalla porta e mescolandosi ad esso, non guardandolo dalla finestra. Un assommarsi di umanità che convergevano su persone che rappresentavano con la vita, la coerenza trasfusa nell’etica del bene comune, della giustizia, dell’eguaglianza vera e pratica di chi tende la mano, sia per rialzare, sia per chiedere aiuto.
L’umanità di Guerrino era questo, un essere insieme restando caparbiamente fedele a se stesso e a ciò che era importante per tutti. Stamattina un ex sindaco democristiano che l’aveva avuto come avversario politico, ma insieme amico, ha detto che loro, i giovani DC di allora, invidiavano un po’ questa capacità di essere tra la gente ed insieme di essere gente, che il sentimento di una collettività era un noi fatto di tante individualità. A me veniva in mente l’immagine del fiume che porta innanzi e ha una meta più grande, mentre per strada porta benessere ai luoghi che percorre, che si fa rispettare ma insieme unisce e trasporta e ha un prima che non interferisce col poi. Guerrino rappresentava visivamente la generazione di compagni che avevano semplicemente costruito una società, e con le difficoltà di trovare una sintesi, avevano percorso idee forti. Erano rimasti fedeli all’umanità che avevano attorno e che era lo specchio e la sostanza di ciò che volevano mutare. Così sono sorti parchi, messe panchine, piantati alberi, voluti asili nido, aiutati anziani a vivere nella loro casa. E tutto questo cercando di mutare la città e di capire il mondo. Essere in un contesto che ha una lingua propria non significava avere una barriera per il giusto, per l’equo, per la libertà di chi aveva altra lingua e altro colore della pelle.
In questa cerimonia laica c’era anche il parroco ed era una cosa naturale perché la comunità comprende chi crede e chi non crede, ma entrambi si ritrovano in chi è di fronte al loro: l’uomo e i suoi bisogni. Di Guerrino si è sottolineata la schiettezza e la ruvidità che tradotto significa che era vero, senza infingimenti, poco diplomatico e affidabile in ciò che diceva, perché era il suo pensiero. Aveva mani grandi, da artigiano e da liutaio. Aveva fatto entrambe le cose: mobili e strumenti musicali, poi solo strumenti che dovevano essere un miracolo che trasformava il legno in armonia udibile oltre che belli da vedere. Assieme al suo, sono stati evocati molti nomi di donne e uomini che hanno condiviso questo fare comune, questo lottare per un ideale. Si conoscevano tutti, si frequentavano, erano un insieme di vite vere e di famiglie che mettevano assieme quanto di bello e forte genera il privato. Un’umanità irripetibile che ha costruito molto ed è stata molto assieme. Essere assieme era il senso di una politica e di una vita, una condizione che metteva davanti l’uomo, i suoi bisogni, e il cambiare, tutti, insieme. Per questo Guerrino era amato assieme a molti altri che hanno condiviso e sono stati generosi nel vivere. Non so se tutto questo sia finito, essere stato testimone e in piccola parte dentro quella realtà mi sembra una condizione che debba ripetersi, che l’essere uomini lo esiga. Magari in nuove forme ma che non possa essere che così perché solo assieme si va oltre il bisogno, la solitudine, l’ingiustizia.
Si chiama sala del commiato ma non si lascia mai ciò che si è vissuto come importante e vero. E neppure chi l’ha testimoniato, ci lascia mai, perché sennò saremmo soli e senza speranza, ma non è così. Non è mai così.