Le settimane corrono, è già lunedì sera: come passa il tempo. Già e come lo facciamo passare?
Le settimane corrono, è già lunedì sera: come passa il tempo. Già e come lo facciamo passare?
La sera scende presto e con essa il freddo. Chi cammina affretta il passo, non c’è più il conversare lento dell’estate e del primo autunno. La città può essere morbida o scabra, dipende dallo sguardo e dagli altri sensi cooperanti. Procedere per coppie di contrari aiuterebbe a vedere l’altro lato dell’evidenza, ma è fatica. Eppoi quanto influisce lo sguardo, quest’aria così limpida e colorata d’artificio?
C’è una conseguenza nelle cose fatte, pensavo, che si cela tra i ricordi. Nei fallimenti ci sono ferite di cui non si vuol vedere la profondità, ma se ne sente il dolore sordo. Oltre la cicatrice. La cicatrice si esibisce, la si racconta, ma non il resto. Le viltà, le paure risolte ne diniego, i danni collaterali di ogni battaglia che si racconta vinta. In qualche modo, vinta. Non ci si accetta mai per davvero e la macchina del mutare ciò che è stato, rende morbida, quasi gloriosa, la percezione dell’errore. Che tale non era, inizialmente, ma lo è diventato vivendo. Uccidendo e alterando ciò che è accaduto davvero. Come se chi si perde avesse una colpa, dovesse rispondere a un genitore severo che chiede conto della propria paura, del tempo buttato, della fatica impiegata per ritrovarti.
Anche nei successi accade. Sono spesso solo una diversa modalità del fallire e lasciano una sensazione di vuoto onnipotente dopo il riconoscimento. Ci si rende conto che ognuno di quelli che avevano plaudito, aveva un motivo. Per questo si è soli. Alla fine. Come nel fallire. Però non si ha freddo, la casa è calda, le persone ti salutano.
Ma perché è così?
C’è un bisogno incredibile di ordine nella città. Forse è la serenità che manca. Oppure l’equilibrio. Quest’aria insolitamente limpida evidenzia geometrie che si sovrappongono. Finestre chiuse da mattoni e intonaco hanno lasciato traccia sui muri. Dove c’è pietra, dapprima ci si sporgeva oppure si guardava da quelle finestre. E si riceveva luce. Poi qualcuno aveva spostato muri, aperto nuove visuali. E chi c’era, se n’era andato avanti. Aveva deciso di cambiare. Con il sapere amoroso accumulato, i sentimenti ordinati e disordinati, aveva bisogno di un diverso vedere. Nel disordine c’è passione, avrà pensato, e così l’ha frenata attraverso l’ordine nuovo. Si è chiusa una vista e impostato un diverso modo di vedere la strada, il giardino. È sembrata una spinta al soddisfacimento di un nuovo che si era affacciato dentro, costretto o meno era anch’esso un fallimento del prima e un successo del presente.
C’è un bisogno immotivato di ordine nella città. Ci si stupisce volentieri nelle case altrui di ciò che confonde. Si cerca il colore, la diversità in altri luoghi, ma non vicino a casa dove fa rumore o dipinge i muri. C’è un successo che si sovrappone al fallimento, dentro di noi, che rende intolleranti. Sopprime la curiosità, chiude le braccia a difesa della casa interiore. Ed esonda nello spazio prossimo: dove si vive, si è.
Il mio ordine è l’ordine, ne ho bisogno per capire da dove entra il dis-amore. Non mi sento sicuro se le cose non sono a posto. E così rinuncio al tempo. Sacrifico sull’altare di un ordinato presente il vaporoso magma di scelte che porta con sé il tempo. Non potrei fare altrimenti, ci devono essere punti di ancoraggio. Vie diritte e cartelli che indichino i luoghi. Non posso vivere nell’anomia. Essa è il teatro del fallire, del non essere riconosciuti, dis-amati. Sapessi quante solitudini si sono chiuse nell’ordine, quanto esteriore ha sostituito l’interiore. Ne abbiamo bisogno per ancorarci a qualcosa. L’ordine è diventato l’altro nome dell’innocenza, espressioni asintotiche di un essere che non si raggiunge, che non trova equilibrio. Se fossimo in equilibrio saremmo allegramente indifferenti alla paura. E invece è la paura che ci tiene assieme.
Morbida è la mia città interiore. Ordinata e conseguente a ciò che sento. Scabra è la città che mi urtica la pelle, che non tiene conto della mia fragilità, del confine labile tra fallire e riuscire. È una città che può ingigantire indifferente, la mia solitudine. Le città ideali del ‘500 erano piene di sole, rassicuranti nelle geometrie e dell’occhio del principe. C’era un confine netto tra il disordine delle vite e l’ordinato fluire del potere. In esse si sacrificava la libertà dei molti a servizio di quella dei pochi. Ed erano vuote, desolatamente belle e vuote. Anche adesso è così? Ci viene chiesto di ordinare le libertà, arginare il disordine interiore, trovare un equilibrio estetico che aiuti a confermare il proprio potere sulle vite? Forse è per questo che ci svuotiamo del caos, delle passioni in cambio di una sicurezza che non appartiene. E neppure c’è. È solo vantata. Giustificazione di un fallimento, di una paura così grande da escludere.
Le periferie sociali non sono gradite, soprattutto in centro.
In questo giorno i carri dei fittavoli e dei mezzadri, se l’annata non era stata soddisfacente, andavano in cerca di una nuova casa sperando in migliore fortuna. Perché di fortuna e non di diritto si trattava e se la mezzadria era già un passo avanti rispetto alla servitù, la vita di quelle persone era consegnata comunque all’indigenza, alla fatica, alla malattia, all’interminabile sequela di disgrazie che accompagnavano la miseria. Beppe Fenoglio ne parla in un racconto: la malora, cupo come la sorte che si accanisce, ma proprio l’etimo del titolo è sbagliato perché non si trattava di una condizione momentanea, ma di una vita di stenti e di insulti, di angherie che toglieva dignità alla persona. Le vite si chiudevano in silenzi cupi, con scoppi improvvisi di rabbia (ho raccontato tempo fa del delitto della contessa Onigo da parte di uno di questi quasi servi della gleba) e solo emigrare sembrava dare una alternativa, ma anche in quel caso i pochi che ce la facevano erano accompagnati da tanti che soccombevano oppure proseguivano altrove vite di stenti. Ebbene queste persone desideravano gli stenti e l’arbitrio di casa quando furono in guerra. Perché è bene ricordarlo, la guerra fu soprattutto di contadini contro altri contadini. Persone che guardavano il terreno e ne vedevano i pregi e i difetti oltre a scavarlo di trincee. Persone che conoscevano i nomi delle piante, ed erano in grado di usare gli attrezzi e di farli. Persone messe assieme in una accettazione del destino che investe chi non si ribella, ma che pensavano ai campi e ai lavori da fare a casa, alla miseria che cresceva finché loro erano al fronte.
Le lettere dei soldati dovrebbero essere lette e spiegate ai ragazzi nelle scuole. Credo che non sia rimasta alcuna percezione di cosa avvenne e quanto esso fu disastroso per le famiglie. Piccole prosperità distrutte assieme alle vite, orfani a non finire accanto a non pochi figli nati fuori dal matrimonio. Tutto venne occultato in una propaganda che parlava di santità della guerra e di una sua giustizia che non c’era e non ci poteva essere.
Penso ai comandanti e ai non tanti che vedevano gli uomini prima dei soldati, alla razionalità anche nel combattere contrapposta al puntiglio, che erano posizioni di minoranza di fronte all’inutilità di posizioni da raggiungere e abbandonare subito dopo, alla pianificazione di attacchi fatti di ondate dove gli ultimi dovevano camminare sui morti che li avevano preceduti. Cosa avranno pensato nel giorno di san Martino quei contadini già immersi nel freddo, nella paura di un ordine.
Ungaretti si guarda attorno e usa le parole scabre e definitive della poesia.
Eppure, lo dico per esperienza, se andate a san Martino del Carso non c’è traccia di queste persone. Se andate sulle doline del san Michele, non c’è la presenza di queste vite. Ci sono i monumenti, lacerti di trincea, ma non gli uomini, o meglio non la loro umanità.
Anni fa cercavo un luogo: la dolina delle bottiglie, dov’era morto mio nonno. Volevo rendermi conto di cosa vedeva, se sentiva l’odore del mare, se c’era terra attorno. Pensavo che qualche riferimento l’avrebbe rassicurato anche se non era un contadino. Il luogo non riuscii a trovarlo, non c’era nelle mappe militari, e al più si poteva indicare una zona. Così mi dissero, perché quello che scrivevano nei registri, spesso erano toponimi locali oppure nomi inventati dagli stessi soldati. Ma c’era comunque poca terra, una petraia e finte quote di colline inesistenti. Qualche lapide dispersa sui muri dei paesi. Nessun ricordo. Di centomila morti contadini in un fazzoletto di territorio non erano rimasti che i sacrari e le cerimonie delle autorità.
Ai ragazzi di adesso cosa viene trasmesso di quanto accaduto in quei luoghi, come si riesce a far parlare le vite per non disperderle nel nulla? Credo che l’identità di un popolo sia fatta non tanto della storia, ma della sua umanità. Che se dovessi parlare in una scuola a dei ragazzi delle medie direi loro della sofferenza del non avere identità, dignità. Gli racconterei non dei generali, quelli verrebbero dopo, nella sequela infinita di errori, ma di cosa pensavano e scrivevano quelle persone a casa, perché noi siamo cresciuti sulle loro vite. Gli direi che molti di loro conoscevano la famiglia e la fatica e molto meno l’Italia e che essere liberi, poter scegliere, era un privilegio.
E partirei da san Martino e dai traslochi per dire che un tempo la stragrande maggioranza di chi lavorava la terra e quindi del Paese, era precaria, ma che ci fu un momento in cui anche questa precarietà sembrò una felicità perché le stesse persone stavano peggio. E che san Martino era un militare che tagliò il mantello per darne metà a una persona che non aveva nulla. Era un militare che capiva la miseria e rispettava la dignità.
Sì partirei da questo.
Buon san Martino a tutti.
Ci fu un tempo che amai ciò che era perfetto.
Poi mi conquistò l’imperfezione nascosta. Infine il disordine apparente, la falla beffarda nell’ordine.
Degli infiniti nomi di dio che diamo a ciascun amore,
riconoscendo nell’altro l’impossibile da definire, troviamo noi e la diversità che gli appartiene:
e lì, c’è un definitivo stupore.
E quella diversità, è così perfetta e desiderabile,
così assurda nella sua fragilità e forte d’ansia d’essere,
così definitivamente appartenente e parallela,
che metterla nell’ordine sarebbe una bestemmia.
Tu non eri ordine, ma infinita pazienza della contraddizione.
Eri l’abbandono e l’abbraccio, il trovare col barlume del conosciuto, la certezza del diverso.
Eri l’impossibile che non si racconta,
la paura che si spegne nella pozzanghera della luce,
il cuore forsennato di tutti i passati possibili, fuso in quell’unico reale che ti conteneva.
Eri la parola che arrossiva la voce, che rendeva dubbioso l’accento.
Eri la solitudine cercata e il corpo riunito.
Di tutto ciò che ti era accaduto, nulla sembrava più naturale della spinta di un caso che mi ricomprendeva.
Eri l’incontro che gettava reti per non nascondere la luce che scoccava ad ogni tocco, ad ogni carezza.
Se la tua pelle non fosse stata un’infinita emozione, sarebbe stato solo un piacere,
e dei piaceri non si ha memoria, ma solo rimpianto del possibile che non hanno generato.
Così accoglievo il tuo disordine in me, lo mescolavo al mio e ne vedevo l’infinita forza di mettere ogni cosa nella sua importanza.
E il disegno appariva, nitido e naturale,
finché si scriveva, graffiando, indelebilmente l’anima.

Ortoepia ovvero la corretta pronuncia delle parole, ma tu come pronunci la parola amore?
Tieni la a lievemente chiusa come fa il cuore che, prima di lasciarsi andare, ha un piccolo brivido di paura?
E la emme è tenuta a bada perché non raddoppi d’entusiasmo, perché non corra sulle sue gambine per abbracciare e farsi festa e poi distendersi. Al modo, e con la fiducia, dei gatti, che mostrano sì la pancia, ma non sono indifesi. E sono pieni d’aculei morbidi, di libertà amorose, ma anche di rabbia se vengono traditi. Allora decidi come sarà ma che non sia un glissar distratto verso la vocale.
E la o che segue, sarà una semplice vocale o un erotico bacio? Un soffio prensile, una meraviglia che si sorprende vogliosa e pronta e non lo sapeva. Ovvero, faceva finta di non saperlo, ma respingeva desideri e attese con lo stesso rastrello con cui li raccoglieva, indecisa e al tempo stesso tentata.
E la erre, s’arroterà come fosse una lingua che non s’accontenta, oppure indugerà nel suono che ha l’aspetto lieve del limone, un dissetarsi tra brividi e un chiudere e aprire come a cercar aria? Quell’aria che solo un certo alito possiede, un certo odore di pelle imprime ed anima un desiderio che già s’avverte nel dire. Ed è un dire muto che è già sentire e attendere il buono, il dolce, il sapido del dopo.
E la e finale sarà squillante oppure quasi afona, tronca come nel richiamo dei poeti? E come la porgerai mentre gli occhi sono attraversati da bagliori languidi, come la terrai per lunghezza di pronuncia? Lunga e dolce come i baci che non finiscono, o ancora breve come l’impazienza che esige d’esser completata?
Perché amore non è una parola che s’ esaurisce in un’unica pronuncia, ma è un filo lanciato per attrarre e unire. Non legare, unire, in interminabili accenti, in variazioni d’infinite semplici complessità e tutte con i loro pronunciare su cui non è necessario investigare ma è sufficiente ascoltare.
Un’infinita varietà dell’ascoltare ciò che quella parola dice e soprattutto, include. Perché l’amore unisce e include e solo questo può essere nella sua felice assurdità.
Esisterà allora una sua corretta ortoepia del dire e del sentire? Ci sarà modo di porre i giusti accenti e così compiere il piccolo miracolo che chi dice e ascolta siano per un infinito momento coincidenti?
La risposta è positiva se ami e non ti porrai problemi perché sai che solo questa è la corretta pronuncia dell’amore.
Qui tutto si rinnova i cicli si completano:
L’immagine delle sedie desolatamente vuote alla presentazione del rapporto dell’agenzia ONU sul clima, WMO, testimonia il distacco tra l’eguaglianza da assicurare agli uomini e gli interessi del capitalismo e delle economie degli Stati. Eppure ciò che si dice nel rapporto è terribile, parla di danni ambientali che potranno essere risanati in molte generazioni di comportamenti virtuosi, di oceani che si innalzeranno, dell’ imprevedibilità di tempeste tropicali o locali, di milioni di persone condannate a spostarsi o morire.
Voi credete che questo scenario riunisca i grandi della terra, i gestori dell’economia per immaginare un futuro alternativo? Ebbene sì, si riuniranno per dilazionare le urgenze, per non vedere la globalità dei problemi e quindi la necessità di soluzioni globali, verrà detto che chi produce anidride carbonica lentamente uscirà da queste produzioni, che l’energia è necessaria anche ai nuovi popoli emergenti.
La terra è indifferente a ciò che decide una piccola razza animale, al più, adattandosi a ciò che accade ne può favorire la scomparsa, ma lo farà senza malanimo. Non si adonta se bruciamo foreste, se eliminiamo specie, non ha un giudizio etico su di noi, semplicemente si accoccola meglio nelle nuove condizioni. Agita di più i venti, sommerge coste, aumenta il mare e scioglie i ghiacci. Tanto poi i ghiacci li rifarà con una nuova glaciazione, le coste riemergeranno e le foreste si espanderanno nuovamente appena diminuirà la pressione di quella specie che accumula denaro inutile a salvarsi e non risolve i problemi.
Stranamente c’è molto di nuovo, di vitale, in tutto questo. Si alza la temperatura, si sciolgono i ghiacci. Si tagliano le foreste, avanzano i deserti dove c’erano pianure fertili e per lo stesso motivo dove c’erano ghiacci si coltiverà il grano. Qui tutto si rinnova e i cicli si completano. La terra è indifferente se chi prima aveva di che mangiare, non l’avrà più, perché altrove si potrà aprire un nuovo ciclo. Capire che le cose non restano a mezzo è fondamentale per trovare soluzioni vere, il resto sono contentini, tirare avanti e passare il problema ai figli.
Un tempo ci si divideva tra apocalittici e integrati, tra quelli che vedevano conseguenze gravi e quelli che si bevevano il bicchiere mezzo pieno. Siamo circondati da indifferenti e da parecchi che bevono, gli altri sono quelli che si preoccupano e gli passa la sete. C’è qualcosa di apocalittico in tutto questo? Non credo, vedrete che riemergeranno le centrali atomiche che non producono CO2, vedrete che qualcuno progetterà barriere mobili per fermare i mari dove c’è denaro che cresce, vedrete che in Africa si continuerà a desertificare piantando jatropha e togliendo foresta. Vedrete che crescerà l’industria automobilistica basata sull’ibrido e con essa i produttori di accumulatori elettrici. Vedrete che continuerà la produzione di plastiche e la ricerca per smaltirle senza che nessuno si ponga domande sul consumo energetico connesso e da quale fonte provenga. Vedrete che l’allevamento di carne da hamburger o da consumo di massa, crescerà e che al più cambieranno le salse da mettere nel burger. Addirittura ci sarà una crescita di fonti rinnovabili e di sistemi di produzione, molto meno si investirà nella conservazione dell’energia e quindi nella bonifica energetica degli edifici. Catastrofista? Non credo, vedo chi sta bevendo il bicchiere mezzo pieno e che si dice fiducioso nella capacità dell’uomo di trovare sempre una mirabolante invenzione che cambi ciò che è prevedibile.
E gli altri? Volete che me la prenda con chi ho conosciuto ai margini del Burkina Fasu e che taglia il sottobosco per cucinare il cibo, che non ha correte elettrica, è sempre al limite della fame e della malattia? Oppure me la dovrei prendere con gli eritrei che tagliano un po’di piante per scaldarsi sull’altopiano perché d’inverno non fa mica tanto caldo e per cucinare serve la fiamma. Me la dovrei prendere con il pescatore che prende un po’ di pesce per sfamarsi e per venderlo al mercato in un fiume pieno di melma? Lui sa bene che il pesce sta cambiando razza, che il cuneo salino risale per oltre cento km il fiume perché non piove più a monte e non c’è portata d’acqua. Mangia un pesce un po’ più salato, guarda le mangrovie e la vegetazione di palme che muore, gli spiace, ma cosa ci può fare. Me la devo prendere con lui? Come vedete, non sono catastrofista, anche se penso che le persone che vivono in condizioni di quasi espulsione dalle loro terre e città potrebbero fare qualcosa, ribellarsi ad esempio, ma hanno così poco che anche la ribellione è un lusso. E visto che non sono catastrofista io penso che la ribellione debba partire da qui, da dove si capisce dove si sta andando, che qui si deve aiutare un processo di re indirizzamento delle risorse economiche del mondo. Ci sarà sempre chi farà soldi con questo ma almeno non sarà per sterminio indifferente.
Vedete, circola da tempo l’idea che comunque siamo troppi. Quando eravamo meno, molti meno, la cosa si esprimeva con l’idea che la guerra fosse l’igiene del mondo perché eliminava i deboli e credo che quest’idea non sia scomparsa dalla testa di molti benpensanti, l’hanno solo spostata altrove, perché non solo ci sono le guerre con carichi inauditi di morti civili, di spese senza limiti fatte per distruggere, di inquinamento irreversibile, ma si pensa pure che se il pianeta si comporterà in modo più aggressivo, se verranno sommerse coste e città, comunque chi più avrà per proteggersi, non soccomberà.
Questa è l’ingiustizia assoluta e non la si può imputare alla fatalità, alla terra che si ribella, ma si deve riportare alla causa, e a questa è giusto ribellarsi con i consumi, con la condanna dei governi che non limitano i modelli sbagliati di vita basati sul consumo di energia e di cose, boicottando chi devasta e inquina. Insomma solo l’uomo può mettere argine all’uomo e questo non è da cultori dell’apocalisse, ma semplicemente la possibilità di chi pensa che vivere sia un diritto che riguarda tutti e non solo una parte del mondo.
http://https://www.youtube.com/watch?v=2Dnkc_-7tHo
Con la pioggia di stravento, il freddo ha aggredito sotto i portici,
e lì sostano pedoni indecisi su dove ripararsi,
e andare,
chissà perché diviene urgente l’andare,
che poi è un tornare,
forse desiderio di caldo, di cura?
E che fa la voglia di fuggire che sembriamo contenere,
mentre spruzzi di pioggia lavano persone e vetrine?
Hanno acceso le luci e il primo pomeriggio
si scioglie nella luce autunnale, che copre d’un giallo malato le cose,
ma in pasticceria ci sono le favette dei morti,
e si spande un profumo lieve di mandorle nell’aria.
Camminando lenti e vicini ai muri, si notano le porte delle case,
c’è una città vecchia che ha stipiti lucidi di vernice antica,
e larghe crepe che mostrano legni stanchi,
tra inserti di vetro goffrato e inferriate polverose
di ferro battuto,
ha aggredito, il freddo, sulla soglia di una consapevolezza,
che in realtà non c’è posto a cui tornare,
c’è solo la paura che sconfigge la voglia di andare.
Attorno, le voci si sgranano come la luce che frange gli oggetti,
e ne succhia l’anima per invogliare all’acquisto.
Il freddo, il primo, è la sera
d’un giorno che stermina secondi di noia.

De otobre gò na rasòn vecia, quasi antica,
fata de odor de tera smossa,
de caminar pai campi,
de ale spaurie,
sbatue via dal volar suo.
Chissà cossa pensa l’oseo che scampa da un scioco,
da un movere de foje, da un sciopo,
col core ch’el vola verso el cielo sperando,
de scampar, nea paura sua,
che un dio a sò misura gabia un poca de atension,
par lù poareto.
Non pol dir gnanca otobre maledeto,
nol gà i mesi, un lunario picà in casa,
solo ch’el fiatineo de vita che pure ghe par tanto,
miga el pensa a quel che sarà, ma a quel che xè
e intanto el scampa, sperando
e con l’oseo anca noantri speremo
che’el cacciator sia un fià orbo,
o almanco sbalà
e sempre tanto gnoco.
De otobre che xe l’aria colma de odori sciaresai dal primo fredo:
de fumo lontan,
de caldo vizin na fiama,
de altro e pur tanto,
che mai se podaria metare in un telefonin, dentro n’app,
però el ghe xè, e basta snasar e vardar
almanco un fiantenin,
solo par capir dove se zè,
dove semo rivà,
dove se podarave ‘ndar.
De otobre gò scarpe piene de fango,
que’o che deventa duro come piera,
gò el brivido in tea schina,
del primo fredo che zà el conta ‘a sera,
gò el malstar del scuro che ciapa come na paura,
‘a vogia de un ciaro, se pur lisiero, de calor.
De otobre gò ancora tuto queo che ancora torna,
na siarpa, un primo paletò,
gò l’acqua del fosso che varda de matina ‘a brina,
el rosso del tramonto che ga pressa de impisare ‘a notte,
gò tuto queo che ghe xè
e no poco manca
ma questo miga dipende da lù,
da otobre,
dipendarà pur da mì
e cussì meo godo pensando
che no xè passà un mese,
na stagion,
ma n’altra de novo xè rivà.
la traduzione è libera, come diverse parole che sono mutate con l’uso massiccio dell’italiano. Gli accenti mancano quasi tutti, e il veneto, il padovano che è la mia lingua, in particolare ne è molto ricco. È difficilissimo seguire la grafia che è fatta di aspirate di sfumature e di segni che cercano di riprodurle. I significati si sono imbastarditi nella città e sfumati dai mestieri che non esistono più. Quindi chiedo venia per i troppi errori, per le omissioni, mi basterebbe restasse la cadenza, il suono che ormai è oggi l’unico riferimento della lingua veneta.
Di ottobre ho una ragione vecchia, quasi antica,
fatta di odore di terra smossa,
di camminare per i campi,
di ali impaurite,
gettate via dal loro volare.
Chissà cosa pensa l’uccello che scappa da uno schiocco,
da un muovere di foglie, da un fucile,
col cuore che batte forte verso il cielo sperando,
di scampare, nella sua paura,
che un dio a sua misura abbia un poca di attenzione
per lui, poveretto.
Non può neanche dire ottobre maledetto,
non ha i mesi, un lunario appeso in casa,
solo quel pochino di vita che però gli pare molto,
non pensa a quel che sarà, ma quello che è,
e intanto scappa, sperando,
e con l’uccellino, anche noi speriamo
che il cacciatore sia un po’ orbo,
o almeno squilibrato (sballato),
e sempre poco intelligente.
In ottobre l’aria è colma di odori resi chiari (distinti) dal primo freddo:
di fumo lontano,
di caldo vicino alla fiamma,
di altro e pure tanto,
che mai si potrebbe mettere in un telefonino, dentro un’app,
però c’è, e basta annusare e guardare,
almeno un pochettino,
solo per capire dove si è,
dove siamo arrivati,
dove si potrebbe andare.
In ottobre ho scarpe piene di fango,
quello che diventa duro come pietra,
ho il brivido nella schiena,
del primo freddo che già racconta la sera,
ho il malessere dell’oscurità che prende come una paura,
la voglia di una luce, seppur fioca, di calore.
In ottobre ho ancora tutto quello che ancora torna,
una sciarpa, il primo paletot,
ho l’acqua del fosso che guarda di mattina la brina,
il rosso del tramonto che ha fretta di accendere la notte,
ho tutto quello che c’è
e non poco manca,
ma questo mica dipende da lui,
da ottobre,
dipenderà pure da me,
e così me lo godo pensando
che non è passato un mese,
una stagione,
ma un’altra di nuova è arrivata.
Lei non immagina di avere tutto il tempo che le serve?
Siamo in piedi, la mano ancora stretta nell’accomiatarsi, la luce alle sue spalle.
No, credo di no.
Strizza un poco gli occhi, mi mette a fuoco, vorrebbe capire dove vado a parare, ma sorrido. Il sorriso nasconde le intenzioni. A volte.
Vede, ha già dei rimpianti.
Curviamo entrambi le spalle, c’è un effetto specchio che costringe ad imitare inconsciamente chi si ha di fronte, solo che riesce meno bene ed è un accondiscendere. Credo faccia parte del comunicare.
Crede di averli solo lei i rimpianti?
Bella mossa, la parità mette soggezione, annulla il piccolo vantaggio dell’aver detto per primi e rende orizzontale il dialogo. Quante volte cerchiamo un maestro, un tutore, un appoggio sicuro e per questo dimentichiamo che esso, al pari di noi, è soggetto agli umori, ha tristezze, sentimenti, forse passioni che possono evolvere nel corso della giornata. Quante volte parliamo con un’icona pensando che essa sia ciò che rappresenta e non una persona.
No, certo. Ma alla fine ciascuno si tiene i suoi, li considera così importanti che quelli degli altri sono di serie b.
È ora di concludere, le mani si lasciano, rimetto lo zainetto ed esco nel buio elettrico delle scale. Scendendo penso che se si guardano le vite, ciò che è accaduto in esse, tutto assieme, con le loro difficoltà e le scelte obbligate, ciò che si vede è un pastrocchio. Un’accozzaglia di colori senza capo né coda, al più gradevole alla vista ma difficile da trattare senza sporcarsi l’umore. Penso che il tempo è ciò che ci differenzia davanti alle cose, che cogliere l’attimo è diverso dal meditarci su, ma non vale solo per il singolo gesto: è qualcosa che si prolunga in avanti e indietro.
È vero, io penso che ci sia tutto il tempo necessario e che ci sia pure un bonus per perdere tempo. E lui non lo pensa.
Penso che l’importante ci riguardi, ma che esso si ridimensioni a seconda di ciò che facciamo o siamo. Per chi è innamorato il tempo dello stare assieme non basta mai e invece per chi attende, il tempo è sempre troppo, ma non è questo che intendo, è il far accadere le cose che mi interessa e per queste il tempo sembra dentro di noi finché vogliamo davvero che accadano, poi sfuma. Forse il rimpianto è la somma di tutti quei tempi sfumati, di quei tempi stati che non si possono ricreare più. Il πάντα ῥεῖ di Eraclito portato dentro di noi che guardiamo la somma di ciò che è stato e poteva essere.
È un cartone di uova rovesciato sul pavimento: i colori si mescolano, il malanno è fatto, bisogna pulire, ma per un momento guardiamo ciò che si è creato. È privo di senso eppure ha una sua identità. Se il pavimento è sufficientemente colorato, persino una gradevolezza. Se fosse su una tela appesa si cercherebbe un senso al suo interno. E invece quella mescolanza di ragioni un senso non ce l’ha, è stata e ciò che si può attendere, oltre a pulire, è che alla prossima occasione un senso venga dato, un positivo per noi si attui. Per questo penso ci sia tempo.
Dai piccoli semi di scarto frammisti ai fondi di caffè messi nei vasi sono nate piante di pomodoro e di peperoncino. In questa confusione di semi che vanno e vengono anche una melanzana svetta rigogliosa in cerca di sole. Nessuno ha detto loro che è settembre e che il solstizio chiude l’estate, provano a vivere di quello che c’è e ne prendono tutto il buono.
La vita ha un bisogno incoercibile d’essere che è sfida alle regole, trova un suo modo, lo afferma e si tiene ritta davanti al contraddittorio. Mi sono ricordato che da sant’Erasmo, vengono i piccoli carciofi che non riusciranno mai a diventare grandi, sono le castraure, a Venezia e in terraferma ne fanno fritti con la pastella e sono piatti succulenti oppure li mettono sott’olio come quelli che a fine stagione non hanno la misura per il mercato. Segno di una identità forte che è solo fuori tempo dalla massa ma non dall’amare la vita. Lo pensavo, guardando le coraggiose piante della mia terrazzetta, che anche le stagioni dell’uomo sono fasulle, che non esiste il tempo per apprendere e l’altro per fare, o quello per innamorarsi e l’altro per invecchiare, ma che tutto è incoercibile nella passione di vivere e può partire sempre purché ci sia la voglia di crescere e quello che ne verrà non sarà fuori stagione ma semplicemente la gioia di dare frutto.