elogio della perfezione imperfetta

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A tutti, l’insegnamento della perfezione, e del perfettibile, viene inoculato con la crescita. Ci si misura tra ignoranza e fare, tra modelli e realtà, così l’ansia da perfezione si trasforma in ansia da prestazione. Con un ottimo curriculum di pressapochista, di fancazzista di talento, di inesperto nelle arti maggiori e minori si può aspirare a scalare i più alti gradi della scala sociale, di collocarsi in quella sfera prevista dal principio di Peter, dove il dubbio sulla capacità e l’incompetenza si fondono, ma sono già collocati così in alto da essere poco scalfibili. Credo dipenda tutto dallo scarso uso del riso e della serietà della satira sostituiti dal dileggio e dal gossip, entrambi non solo inefficaci nel far vedere i veri limiti del soggetto, ma soprattutto laudativi del potere di esso e quindi rafforzativi di un potere che se si merita l’attenzione e il sussurro dovrà pur essere importante. Conoscendo bene le qualità dell’incompetente per personale esperienza, posso affermare che solo l’ego può mettere argine alla patacca reiterata e che solo la brutta figura diventa un deterrente credibile a chi ha una fiducia illimitata nel farla franca. Allora raccontiamola bene: esistono due tipi di umanità, gli inadatti consapevoli e quelli inconsci, ma la differenza vera è che entrambi si distinguono in realtà nella speranza di farla franca. Per questo le università si riempiono di esperti, di sapienti, di competenze che producono inesperti, tuttologi, incompetenti rispetto allo studio effettuato e in piccola misura, invece, nascono inventori, professionisti capaci, specialisti che saranno coordinati spesso dalla prima categoria di incompetenti. Da ciò, se le premesse sono giuste, se l’esperienza non ci inganna, se ne dovrebbe dedurre che una società sostanzialmente pressapochista e un po’ cialtrona, ha al proprio interno un oscuro collante che la tiene assieme e la fa evolvere. Solo che raramente il collante viene riconosciuto e osannato mentre l’onesta mediocrità ha il potere, guida, governa, legifera, promuove, giudica, affonda e innalza secondo suoi criteri e convenienze. Quindi sembra che il mondo abbia una serie di falsi obbiettivi: un’ansia da prestazione su cose che produrranno ben poco, un focalizzarsi sul gesto, sul particolare e non sulla somma delle cose fatte. Mentre se si parla di prestazione si dovrebbe considerare lo specifico e l’insieme, la riproducibilità e l’inventiva, l’errore che genera il nuovo ma questo esige che chi governa queste cose sia fattore di unione, abbia visione ampia, veda l’errore e lo sani, governi essendo un capo, cioè colui che anche l’ultimo dei suoi riconosce come tale. Così la prestazione non bara, ha un valore economico, è competenza e non è patacca.

Ma che conta tutto questo se invece di inoculare l’idea della prestazione si passa all’idea della perfezione, cosa ben più dinamica e misericordiosa della prima? L’idea della perfezione si può misurare con qualsiasi cosa, è un rapporto con sé prima d’ogni altro, accantona gli insuccessi, non li mostra e soprattutto tratta bene chi ha gli stessi problemi. La perfezione, sapendo di non poterla raggiungere, porta con sé la pazienza, spesso l’ironia che porta a ritentare. Si sa sin dall’inizio che è un processo asintotico, che quanto più bravi ed esperti si diventa, tanto più si vorrebbe trasmettere la piccola competenza raggiunta perché l’opera venga continuata da altri. In questa continuità c’è la dimensione della ricerca della perfezione, ma questo non ha grandi riflessi sulla società perché la perfezione non è di serie e quindi non ha un valore economico di massa. È un procedere per cultori, per iniziati e se lo sono davvero, non hanno l’ansia da prestazione ma l’ironia del far bene, dello stare assieme, del condividere ciò che si può. In fondo chi cerca la perfezione sa di essere ignorante, poco intelligente, scarsamente preparato, chi invece ha la sensazione del ruolo, del potere, della mansione riconosciuta pensa di essere adeguato e di poter aspirare a più di quello che ha. Il fatto è  che la perfezione è un dialogo con se stessi, mentre la prestazione è un dire ad altri cosa devono fare non sapendolo fare.

tre minuti

Chiamato a raccontare in tre minuti cos’è per me la vita, per uno e mezzo stetti in silenzio: bisognava dar tempo alla vita di nascere.

Poi aggiunsi un sospiro, che non era indecisione e neppure stanchezza, ma soffio. Come fa la vita bambina che scherza col sonno del bimbo che dorme ed è comunicazione, aggregazione, dolcezza dell’amor vicino.

Così mezzo minuto lo usai per dire che per costruire qualcosa, vita compresa, bisognava mettere assieme, stabilire una relazione tra diversità apparenti, usare la tenerezza del congiungere con legami forti e deboli.

Lasciai mezzo minuto di silenzio per pensare. Sono lunghi trenta secondi, ma servivano a capire.

Mi restava mezzo minuto, sorrisi prima di concludere, perché era difficile mostrare che viver bene è più che vivere.

E allora dssi che per farlo serviva tentare di realizzare la vita aggregandola con armonia.

E che quando accadeva era un ordine o un disordine comune che faceva scorrere mentre rasserenava.

Forse avevo usato più parole del necessario e il tempo s’era concluso.

La vita perdonerà, perché in realtà non c’era molto da dire, bastava vivere.

mi spiace

A volte mi spiace, ma non so bene di cosa.

Apparentemente è qualcosa di non fatto, un non essere come tu mi vuoi, oppure semplicemente l’ assentire forzato che considero obbligato. Mi adatto a fatica, non sono molto adattabile. Non è una qualità, l’uomo dovrebbe adattarsi all’ambiente in cui vive o adattare l’ambiente a sé. Io al più convivo con esso.

Eppoi sono geloso del mio tempo, mi creo un ordine in testa che mette alcune cose prima e altre poi. Dirai: lo fanno tutti, ma il mio è solo mio. Credo che anche questo accada a tutti, però così gli ordini non sono sovrapponibili. E non è solo importanza è un equilibrio faticosamente raggiunto.

A volte emerge, nel bene, un sottile ricatto: la paura d’essere lasciati soli si trasforma in una priorità di attenzioni. Non credo di funzionare così, la mia attenzione c’è e si esprime secondo le modalità che conosco. È  qui forse nasce quel mi spiace che si nutre di sensazioni, quella tra tutte di non corrispondere come mi verrebbe richiesto. 

Assomiglio più a un rivolo, a una vena d’acqua che a un onda, il molteplice sono io non ciò che m’investe. E per capire mi chiuderei in un silenzio profondo, per rimettere il mio ordine dentro. Con un silenzio che è una pausa alle risposte. A tutte le risposte che si devono dare pro bono pacis.

Siccome non do ragione dei miei malumori in parole, poi mi spiace. E cerco d’aggiustare l’incrinatura, di spiegare l’inspiegabile, il parziale, l’imperfetto, cioè me. Fatica aggiuntiva e improba, giustificata e poco utile, perché la sensazione tornerà.

Ma vorrei rassicurarti: non sei tu la fonte del dispiacere.

il richiamo della foresta

Su Internazionale, Goffredo Fofi, parla de il richiamo della foresta di Jack London. Mi ha leggermente emozionato questa sintonia su un autore che per me è stato importante. E lo è ancora. Forse sono discorsi che con l’età vengono più facili, ma è come si fosse ricordata, tra amici, una ragazza amata da entrambi e che mai è stata dell’uno o dell’altro, per cui è rimasta la bellezza e il piacere di averla conosciuta.

Per me, Jack London era l’altra faccia di Pavese, di Melville, di Fenoglio. Quello che precedeva Hemingway senza la dolce vita e il mito maledetto dello scrittore. Era il Salgari che viveva davvero le sue storie. Era il rosso, il socialista, senza teoria. Colui che aderiva al cuore della rivoluzione perché questa era la vita realizzata per un momento, per un anno, per quel tanto che ancora restava ideale in realizzazione. Era il John Reed che correva in Messico e poi a Mosca. Era la somma di tutto questo e insieme ciò che è bello essere in quell’idea di uomo e d’avventura che spinge di una forza incontrollabile uomo e popolo verso un destino più alto e bello, verso un buono e un giusto da condividere. Poi si sa come è andata, ma vivere all’interno di questa spinta era l’idea di vita che da giovani si coltivava. E c’era amore, molto amore, e scoperta, natura, confronto, solitudine e l’essere forti e bastevoli con i piedi posati su solidi principi.

Leggetelo nuovamente London, e non solo il richiamo della foresta, è l’invito a restare giovani per sempre vivendo cio in cui si crede. Ma è anche il racconto eroico della solitudine dell’uomo che si misura con se stesso e ne esce forte, tentando di darsi una risposta, anche se le domande non si esauriscono mai.

frammenti

(Ci) Sono sempre frammenti da ricomporre anche se pare tutto intero.
E tutto quello che non scegli mica si dilegua.
Ma ogni tanto torna. E queste storie che sembrano compiute non si compiono per davvero.
Capisci che c’è un principio e un’apparente fine.
Ma qualcosa torna sempre. Resta ed è un fantasma piccolino che sorride e poi scompare. E tu mica hai capisci cos’è rimasto ancora.
A volte mi par d’essere la stazione degli autobus. Sono tutti così uguali.
E magari chi parte ti pare di conoscerlo perché sembra quello che da poco è arrivato.
Invece è diverso com’è per ogni storia nuova. O almeno così sembra.
E allora penso all’Africa, ai suoi pulmini colmi di persone, di fagotti di cui non è possibile far senza, però se lo perdono mica ci pensano poi troppo.
Forse è nostalgia di colori e di precarietà che si respira assieme, di profumo di persone che sperano così forte che si sente, e ti contagia come un’allegria.
Oppure è quel viaggiare che va in ogni posto e non si ripete mai, che riapre storie.
È che ognuno raggiunge qualcosa di suo, quando deve, ma quando si può chissà se mai finisce.                                           E forse loro non han frammenti da riattaccare. E neppure gran motivi per restare in quel posto che sembra non bastare.
E forse neppur hanno i fantasmi piccolini che gli fanno compagnia di tanto in tanto.
Forse.
Ma magari è differente e non si capisce bene.
E allora penso che non ci sia una regola.
Non una che vale poi per tutti.

lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

marginalia

Sembra sempre che qualcosa manchi.

Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.

La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.

La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.

Il tempo: troppo quando rimando.

Troppo poco, devo andare.

Meglio scrivere sul margine del tempo,

cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale

lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.

Dispettoso e allegro, pensoso.

Chissà dove andrà a parare?

Inseguirlo e meravigliarsi un poco.

Farò a tempo.

Arriverò in ritardo.

Ce la faccio.

Bello scrivere quando il tempo è poco,

e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.

La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.

Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.

La pioggia aspetterà.

Non aspetta. Cade.

Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.

Aspetta ancora un poco. Per favore. 

o meglio così:

Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore. 

parliamo d’altro

È una pressione continua.  Una notizia elide la precedente e tutto alla fine sembra uguale. Chi produce realtà sa che bisogna alzare la posta, colpire l’immaginazione e il sentire, perché le notizie vengono e svaniscono subito. Siamo finiti in una dittatura del presente senza futuro.

Sembra che il rifiuto della condizione di incertezza produca una bulimia di nuovo senza conclusione. Ed è aria mossa da chiacchiere che si sovrappongono, di cui non resta traccia se non in quel senso di mancanza che fa capolino quando ci si ferma. Anche tutto questo connettersi, il mi piace senza il contrario, la conversazione momentanea, è un chiudersi al rischio del rapporto profondo, alla domanda del che fare di noi.

È sommamente triste dipendere dalla velocità di una risposta e dalla riconferma che se l’indeterminato altro esiste allora, forse, anch’io esisto.

p.s. nulla come il walzer, per me, rappresenta il rifiuto di ogni fine. La maschera del momento che dura il tempo della festa.

prima del temporale

Mangiavo piccoli dolcetti al cacao: cocoa short bread cookie. Fernet e caffè. Nel corso passavano ragazze con vestiti estivi corti e leggeri. Parlavano fitte, ridevano spesso. Qualcuna gesticolava e si toccava il corpo: stava raccontando qualcosa di sé. Gli uomini si fermavano tra una boccata e la successiva. Anche loro ridevano spesso, ma era una risata meno leggera, pesante di sottointesi.

Il mio sigaro era di dolce Kentucky, poco invecchiato. Lasciava un fumo denso e aroma nell’aria. Lo seguivo con lo sguardo e mi pareva un bel momento.

Appena oltre le case, con i balconi pieni di gerani rossi, s’annidava il rumore di chi andava di fretta. La città era nata dal gioco di un gigante che tirando linee dritte e curve, infine, aveva tracciato una spirale ed io ero al centro di quel dipanarsi di luoghi, ma anche sulla retta del corso. E lì ho visto staccarsi le ore nell’aria che non voleva cedere al temporale. Era così limpida e piena di tanti piccoli suoni tiepidi conosciuti, che si bastava. Tutto si accordava nell’attesa di qualcosa. Ho pensato. E tutti, quelli seduti e quelli che passavano, sapevano cosa sarebbe accaduto, ma lo stesso erano attenti anche se ostentavano una distratta noncuranza. Forse per questo, o per aggrapparsi a qualcosa di ben noto, il cigolio degli ingranaggi del campanile, sollevò ironici commenti. E qui ci starebbe un eppure, ma tra il rumore secco delle chicchere nel secchiaio del bar, risuonò alto un evviva! con quel tono squillante che hanno i tenori di coro. Si brindava al momento, alla presenza, a chi pagava, forse anche ai seni della barista. Qualunque fosse il motivo si sciolse un arcano maggiore, mentre cadevano le prime gocce di tiepida pioggia.

primo settembre


Dov’ero il primo settembre 2004? E nei due giorni successivi che facevo? Ho risposte a entrambe le domande e una piccola vergogna: ascoltavo le notizie con il distacco che provoca, anche in chi è attento, il sovrapporsi della cronaca nera al vivere comune. Non per espungere ciò che potrebbe toccare il nostro idilliaco mondo, ma l’eccessiva presenza di disgrazie ci fa abituare alla violenza che non riguarda il mondo vicino, ci si assuefa e si delimita il mondo tra un dentro e un fuori, come se la violenza fosse il rumore di fondo del mondo, il cigolio del ruotare, ma riguardasse altri.

Le scuole iniziavano ad ottobre, quand’ero bambino. Nel mese precedente si era nostalgicamente liquidata la vacanza e iniziava qualcosa che aveva odore d’inchiostro nero e di carta. Da solo o con la mamma, andavo in quella cartoleria vicino a casa, chiedevo i libri, i quaderni, le matite, colorate e non, l’album da disegno. Mi piaceva tantissimo il profumo di quella botteguccia, la signorilità della proprietaria che concedeva la possibilità di comprare qualcosa che si sarebbe trasformato in altro. Era un profumo che restava dentro, come l’imparare. Ho imparato un profumo prima di compitare, di far di conto. Poi c’era la scuola: qualunque cosa si facesse era un nobile inizio, magari fatto di spintoni, cartelle gettate, graffi e urla, ma era un inizio intinto di sacralità sociale. Non sapevo nessuna di queste parole, però avevo capito tutto quello che c’era da capire. 

In Russia la scuola inizia il primo settembre. In Ossezia, repubblica autonoma della federazione Russa, il primo giorno dell’anno scolastico, era una festa. I bambini più grandi, quelli che finivano il ciclo, accompagnavano i piccoli nelle classi e questi davano un fiore a quelli che avrebbero fatto un’altra scuola.  Un accogliere e un lasciare che aveva un grande significato simbolico di trasmissione tra età. La festa a Beslan, nell’istituto n.1, era stata preparata con cura, come in ogni altra scuola. Bambini, mamme, insegnanti, nonne, papà, bidelli, più di mille persone. E i bambini avevano il profumo della scuola, del nuovo che iniziava. Mentre ciò accadeva, da un posto imprecisato, si stavano avvicinando su auto e camion, 32 persone, tra essi, due donne. Erano armati, avevano grandi quantità di esplosivo. I ceceni non amano gli ossezi, questioni antiche, ma non c’era un odio quale quello che i primi avevano per i russi. Chissà perché scelsero una scuola e osseta, non russa. I primi spari sembravano palloncini che scoppiano, nessuno capiva cosa accadeva, poi i primi morti, una ventina. Tra essi molti bambini. Il resto della cronaca, compreso l’eccidio finale, potete leggerlo sulle molte fonti in rete, che mettono in luce, anche le contraddizioni e i misteri di quella strage. Alla fine i bambini uccisi furono 186 e 148 gli adulti ostaggi, poi altri morti furono tra i terroristi, le forze speciali, i soccorritori.

Furono tre giorni e due notti: noi dove eravamo, cosa facevamo finché tutto accadeva? Non sarebbe cambiato nulla nell’esito, ma se avessimo davvero partecipato saremmo cambiati noi. Ed ora cosa resta di tutto quell’orrore?

Oggi pensavo alla mia scuola, anche allora c’erano feste d’inizio, oggi forse non ci sono più. E allora ho desiderato che in tutto il mondo si ricordassero i bambini di Beslan, che se ne parlasse nelle classi, senza paura, senza sfumare l’orrore. Che qualcuno si assumesse il compito di mostrare che tutto quello che accade è vicino e che tutto ci riguarda. E che non dobbiamo cancellarlo per non essere soverchiati dal male ma combatterlo, capendone le ragioni. Eradicarlo insieme ai pali di confine per l’umanità. Non c’è un dentro il recinto e un fuori di esso. Bisognerebbe che questa persona facesse capire che non ci dev’essere neppure il recinto e che esso ci limita, non ci difende. E che il cuore dell’uomo non muta se non viene educato a capire.

Questo sarebbe un maestro che accompagna all’apprendere il mondo. E questa sarebbe la festa della scuola e il suo significato.