diverse serenità

Tra serenità cercate, presunte, passate e serenità incrementanti, verrebbe da dire la vita sta. E tutto ha al centro quel nòcciolo duro costituito dall’io che vorrebbe aprirsi, ma ha una sacrosanta paura delle sberle. Ne ha avute a iosa in passato e ne sente traccia calda a fior di pelle. Si dice che le sberle insegnino, è vero, ma non abbastanza e non tutto è positivo nell’evitarle. Comunque creano scorza, ossificano le reazioni e le intenzioni sino a farle diventare un involucro coriaceo, il nòcciolo dell’io per l’appunto. Come si possa poi confinare tutta l’energia in quello spazio così piccolo non è questione di sola fisica atomica, anzi nella gestione delle forze interiori/esteriori gli uomini sono molto meno deterministici della fisica e molto più bravi a confinare l’energia. Assomigliano più ai terremoti che distruggono e al tempo stesso generano materia, la solidificano, e in tempi lunghi, l’assestano in una quiete nuova e transitoria piuttosto che riordinarsi in un flusso di energie che si dirigono o rimbalzano allegramente, felici di scoprire nuovi spazi. A questo assestare dopo le scosse (o le sberle) pare servano le serenità; che sono poi lo sguardo del presbite: da vicino vede un’interessante composizione di colori, mentre distanti coglie le cose, finalmente ridotte ad una dimensione accessibile; né troppo grandi né troppo piccole. Ma soprattutto raggiungibili se si ha pazienza, e maneggiabili. È questo di cui si vorrebbe avere governo nel trattare quel nòcciolo di io, quell’ identità che ha necessità varie oltre al proteggersi? E come conciliarlo con le passioni, ovvero con quel fascio di energie inaspettate che l’io non riesce a contenere e da cui è sballottato in territori che non conosce? Anche le passioni hanno loro serenità e soddisfazioni, ma non sono quelle della quiete. Si usa l’ossimoro delle passioni quiete per descrivere i paradossi della politica ma queste esistono solo da quelle parti, e si dovrebbero definire compromessi, soluzioni compatibili. Tutte cose che le passioni non conoscono. 

Ricomporre nuclei duri e flussi morbidi, ma irruenti, è un bel processo dinamico in cui si balla parecchio. E verrebbe da dire che si balla serempidicamente,  perché ciò che non si stava cercando si trova e la felicità che ne nasce è così inaspettata e gratuita da sciogliere ciò che sembrava inscalfibile.

 

 

a chi resta qualcosa per davvero

Lo stralcio di quanto dovevo descrivere era più o meno questo:

… Discutevo sulle idee, citavo saggi, facevo paralleli azzardati camminando sul filo di ragionamenti esili di logica forse per questo più complicati da smontare. Assomigliavano a quegli oggetti inutili che si caricano, e loro mettono in moto ruote dentate, fanno girare piccole ventole, scorrere simulacri di ballerine o di navi e alla fine si ripetono sempre nei movimenti ma non è questo che in fondo affascina perché è proprio il ruotare, l’attivare cardani, trasformare un moto circolare in lineare che è la meraviglia e l’ ingegno. Di certo Galileo non avrebbe condiviso quel parlare a lungo di cose complicate e senza soluzione, preferendo il piccolo e il semplice che alla fine si risolve. Ma Galileo non c’era e i suoi seguaci si sarebbero annoiati a morte se avessero colto la parole sentire, o ancor peggio sentimento , oggetti che non hanno misura e che stabiliscono rapporti mutevoli tra il dentro e il fuori. Ma non è forse questo che contengono in larga misura libri di successo scritti da presunti indagatori d’anime, guru e maestri di qualcosa, che isolano universali generici, come fa una maga girando i tarocchi, salvo poi non dire mai cosa serva davvero per uscire allo scoperto a quell’ io debole e fragile, bisognoso di eccessi d’ amore e di costanze che devono essere enunciate con chiarezza, capite, condivise.

Nell’ immaginare saggi verbali guardavo negli occhi il mio interlocutore per rassicurarlo che era farina del mio sacco, che non ero un imbonitore ma un ricercatore di analogie, un classificatore di corrispondenze e un raccoglitore di eccezioni. Perché è dalle eccezioni che si impara la ripetizione e se la regola non esiste però esiste il simile e nel veleno come nel piacere una piccola dose del simile esalta e guarisce. Non per sempre, visto che nessuno davvero lo vorrebbe un per sempre, ma per il poco che esalta il momento e stabilisce la differenza. Tutto sta nell’ individuare la quantità, nel tracciarne una conformità a noi e allora il dentro e il fuori, l’io e l’ altro possono capirsi profondamente, parlarsi e per un poco fondersi. Nell’esercizio di facoltà inutili come il cantare, il fischiare, il disegnare, lo scrivere, l’inventare qualsiasi cosa, vengono messe in moto le stesse facoltà che cercavo inconsciamente di esercitare sul mio, o i miei, interlocutori, in un gioco del prendere dalla testa di ciascuno un pezzo del gioco del pensare, metterlo insieme e proseguirlo perché si facesse strada, andasse in luoghi nuovi e mai veduti e che non erano altro che ipotesi logiche, sintatticamente corrette, ma che avevano una qualità incomparabile: facevano cadere le difese e consentivano uno scambio vero e armonico, una condizione che toglieva dalla solitudine ed era paragonabile all’ avvicinarsi delle labbra, caso raro in cui sarebbe successo deterministicamente qualcosa ma non era ancora cosi vero da essere piacere. …

Questo era lo stralcio e la matita nervosa si agitava, voleva sottolineare, cerchiare, trovare relazioni e cassarne altre. Mettere assieme un senso a quel guazzabuglio di descrizioni affermazioni. Per questo finché segnava dissi: lei era lontana e qui si svolge tutto come prima, però diverso, cerchi di capire. E se proprio le non riesce, per aiutarla le rivelerò un segreto: i suoi segni rossi e blu, sono affascinanti perché sono il disegno della sua testa, il grafo di ciò che ha capito e di ciò che pensa. Ed è questo quello che m’ interessa. Spariranno le parole, resteranno i segni. Accade sempre così. Io avrò un po’ di lei e lei un giudizio. Pensi a chi resta qualcosa per davvero. Ci guadagno io.

 

 

 

non assomigli

Tu non sei come, non assomigli.
Tieni stretto il bacio, la carezza, il grido,
ciascuno dici, con silenti parole, mai prima consumate,
così distingue e poi confonde, la grana d’un piacere, la briciola di te donata,
e ciò che nel farsi disgrega e svela.
E svelare aggiunge domanda alla promessa del mai toccato e domo.
Di te sgorga la liscia pelle,
la piega, il desiderio prima dell’includere accogliendo,
così il tempo che raggruma e scatta
perde senso nell’incontro
s’annulla e già attende
da te insaziato, il dare.

che nessuno possa dire

Che nessuno possa dire che non c’abbia provato, 

non i nemici, troveranno altro per sminuirmi,,

non gli amici, che facendosene una ragione, lascerebbero a me il rimpianto,

non io stesso, che tra stanchezze ed entusiasmi, dovrei pur giustificare il fatto,

d’ una possibilità che ha volato, e che ciò che poteva essere, non è stato.

Eppur conscio che non tutto è possibile

e neppure dato,

a una certezza non rinuncerei,

ed è nel molto che mi grato,

nel consapevole amore che mi viene dato.

Non rinuncerei all’amore, 

al rischio della forza ad esso mescolata,

allo sconvolgere che appresso s’è portato. 

Non rinuncerei sapendomi

finito, perplesso, limitato, 

non rinuncerei vedendomi

trafitto, svelato e poi cambiato,

non rinuncerei, pur umile di me,

per esser sicuro almen d’aver provato.

 

laica epifania

Epifania significa manifestazione del soprannaturale, chi viene prescelto dallo spirito o da ciò che l’ umano sente superiore a sé, è destinatario di una conoscenza che altri non hanno e che egli stesso può scegliere se rivelare meno. Nell’ accezione cristiana il mostrarsi della divinità porta con sé la meraviglia e il dono, ovvero fa nascere l’ omaggio in chi riconosce la divinità che si palesa.
Tutta questa premessa se non per dire che l’Epifania per un laico significa manifestazione dell’ inatteso, di ciò che gli muterà la vita. E chi viene prescelto è destinatario di una conoscenza nuova di sé che altri non hanno e che egli stesso può scegliere se rivelare o meno. 

Oggi ho riflettuto molto sul significato terreno e laico che è connesso al dono in questo giorno. Dono è molte cose, presenza anzitutto, creazione della sorpresa, o anche rivelare qualcosa di sé, metterlo in comune, non possederlo più da soli. 
Ho anche pensato che sia un prendersi cura della meraviglia dopo averla riconosciuta, un voler sorprendere chi si ama. Per questo tra persone ci si dovrebbe far doni e raccontarsi la bellezza che si sente, l’ emozione che si prova, come con un innamoramento che alla fine si deve pur dire a qualcuno perché non riusciamo più a contenerlo dentro di noi.  

Il dono è un terreno particolare che ci rappresenta: può includere tutto il buono e tutta la finzione che possediamo.  Il dono è esercizio di amore o di potere, o di entrambe le cose, prende la connotazione di ciò che sentiamo oppure non sentiamo e chi lo riceve lo percepisce. Anche quando non c’è un dono, sente che qualcosa manca e non basta dire che tanto ormai si può acquistare ciò che si desidera, che abbiamo tutto. La sorpresa è il consueto e il differente, è l’ attenzione.

Oggi pensavo anche alla gioia sorgiva dei bimbi, al loro rapporto con il dono, a come dobbiamo non banalizzarlo ma neppure farlo mancare. C’è un’ educazione al dono, allo stato di disponibilità a lasciarsi sorprendere e meravigliare, e se la riceviamo da bambini la conserveremo per sempre. In fondo sono cose che hanno molto a che fare con l’ amore, con l’ attesa, invecchiamo davvero quando  non attendiamo più nulla,  quando tutto è scontato.

Allora ho pensato che prendersi cura della meraviglia di chi si ama sia un dare spazio alla vita, un non permettere che tutto diventi già visto e provato. Per questo tra le persone che si amano dovrebbero esserci doni e raccontarsi la meraviglia che si è palesata tra noi. E allora l’ epifania durerebbe tutto l’ anno.

 

 

curriculum aggiornato

Gentile Signora o Signore, le allego il mio curriculum aggiornato pensando a un suo possibile mutare d’ opinione nei miei confronti. Non penso ad una collaborazione lavorativa perché non vedo come potrei esserle utile, resto ancora un sognatore che pratica sport senza speranza d’olimpiade. Devo anche aggiungerle che pur mutando nel mio vivere modalità, credenze e abitudini, anche in conseguenza dell’ investigazione nei miei luoghi comuni, mi sono rimasti degli ideali fissi che mi rendono poco malleabile nei confronti di chi pratica l’ opposto.
Ho qualche passione, che magari le spiegherò meglio, ma purtroppo per lei, non potrebbero essere utilizzate per fini con qualche valore d’economia. Insomma se potessi sinteticamente definirmi, le parlerei di un uomo che pratica inutilità e che non pensa di trarne vantaggio. Però non costo poco e sono pure difficile. Quindi se non è interesse reciproco avere un rapporto di lavoro, ovvero una subordinazione, cosa può essere conveniente a entrambi?
Mah, può sembrare una bella domanda, ma se pensa che perseguire l’ arte della conoscenza possa essere in sé piacevole e sufficiente, una convenienza reciproca ci sarebbe. E non perché io pensi di poterla conoscere più di quanto lei voglia e quindi darle informazioni su di sé e neppure perché sia interessante in assoluto avere maggiore conoscenza della mia maniera di ragionare sul mondo o su come lo vedo, ma piuttosto perché si dovrebbero avere degli interessi che non rientrino negli schemi codificati del presunto buon vivere, e che questi, uscendo dalle cerchie e dalle abitudini, diventano importanti per rinnovare quell’ immateriale DNA dei pensieri che alla fine si fossilizza e ci impoverisce. Quindi non è semplice verificare un interesse, ma può essere conveniente e allora la cosa non si ferma perché l’ altro, nell’ ascoltare, diventa lo specchio di noi e ci mostra le nostre resistenze, le povertà accanto agli eroismi raccontati, i lati pieni di buio che accuratamente occultiamo sotto pennellate di luce. Pensi che potrei, raccontandole qualche mia bizzarria, far intuire alle dita dei suoi pensieri, lo strato di felicità sorgiva che lei occulta sotto innumeri doveri, oppure l’ infelicità che si annida nel non essere come si era sognato, o ancora la leggerezza che accompagna un colore se questo esprime un’ emozione. Potrei continuare parlandole dell’ amore che quando s’acqueta diventa tiepido e sicuro per stanchezza, oppure dire dei rifiuti che mascherano le convenienze sotto il dispiacere, ma non ho né capacità né meriti particolari che potrebbero farle prevedere un risultato. Sarebbe un caso se accadesse per calcolo, anzi dovremmo entrambi diffidarne come cosa poco vera e posso solo dirle che essendo lei una persona che suscita in me interesse, l’ ascolterei volentieri anche quando mi raccontasse qualche transitoria scarsa verità. Del resto ascoltare lo si fa sia ascoltando l’ interlocutore ma anche quando si parla e si giudicano come confacenti o meno le proprie parole. Le preciso che non ho soluzioni e neppure consigli, non sono un esempio e, come le dicevo, non ho neppure grandi qualità che possano servirle. Coltivando un sorridente dubbio anche l’ autostima non è un granché, però non ho molti confini e mi sono costruito la casa nella terra di nessuno dove si cerca di non appartenere, questo ha comportato che essa sia un luogo di passaggio, di riflessione, di consultazione e costruzione di mappe.
Dovrei parlarle di questo mio interesse per le mappe che non ha nulla di scientifico, tanto che non di rado mi esercito nel tracciare congiungimenti tra luoghi inesistenti, che magari un po’ esistono visto che sono nei miei pensieri, però inverificabili perché non hanno distanza, se non per prossimità o lontananza, insomma tracciano più una mappa dei desideri, dei sogni, delle pulsioni, piuttosto che un insieme definito, che sarebbe quello che di solito si chiama un progetto, ma non è così perché questo si svolge nel suo farsi e non si conclude. Quindi niente priorità, tempi, successi e fallimenti, tutte cose che lei conosce bene e che anch’io ho praticato e pratico, e che a un certo punto purtroppo mi sono sembrate insufficienti per descrivere davvero ciò che sono.
Mi sono chiesto a suo tempo, se esistevo per davvero nella soddisfazione di un consenso ricevuto considerato che solo io conoscevo sia la fatica che i limiti di ciò che era stato realizzato. E mi chiedevo se i fallimenti potevo attribuirli solo alla congiuntura, al convergere delle volontà negative che avevano altri interessi rispetto ai miei oppure se ero io che non essendo all’altezza non avevo vinto? Mi chiedevo questo eppure sentivo che non era davvero così determinante rispetto ai pensieri più profondi che si riassumevano nel domandarmi: era proprio quella la vita che volevo. In realtà penso che quando il mondo si è rivelato non adattabile ai miei sogni e alle cose che ritenevo davvero importanti in quella fase della vita, ho rallentato la passione e fatto subentrare il dovere.
Ora le pongo una domanda che sarà utile se vuole proseguire la lettura e manifestare interesse: si chieda se è più vitale e importante la passione rispetto al dovere. E cos’è per lei il dovere? Non occorre mi risponda, se è arrivato sin qui, adesso è davanti a un bivio, o continuare a leggere e vedere dove vuole andare a parare questo noioso interlocutore oppure smettere e pensare ad altro.
Vede, se non è disposto a “perdere” tempo con me non credo ci possa essere interesse reciproco, perché come le dicevo innanzi, nell’interesse ci si specchia reciprocamente e lo specchio ci mostra l’ altro che conteniamo con i segni che la vita (non il tempo) ha scritto sul corpo.

Ma questa è una digressione, voglio tornare al tema del dovere e delle passioni, perché è essenziale per il mio curriculum: io ho seguito di più le passioni senza scordare il dovere, cercando un equilibrio tra loro. Questo a cose fatte mi ha fatto considerare che lì è la causa dei fallimenti perché le passioni dovrebbero prevalere in modo lampante, essere comunicate e mutare società e doveri. Ha fatto caso all’eclisse delle passioni nella nostra società? Non solo è palpabile ma ha portato con sé una denigrazione delle passioni collettive. Credo che questo giovi al predominio del mercato che propone passioni acquistabili e con una durata definita come il latte e le medicine, in modo da poterle sostituire con altre, egualmente acquistabili. Questo perseguire passioni senza scadenza mi ha collocato fuori dal moderno perché esse sono quella forma di inutile che non ha valore economico, che non è facilmente surrogabile e che è dialogo con se stessi, forma di compensazione, enfatizzazione delle domande e senso del tempo. Come capirà, queste sono passioni che non escono da una testa o da una casa, casomai cercano interlocutori particolari, ma ormai senz’ansia perché molto si consuma in solitudine.
Ora dovrei descriverle i miei tratti fisici. Sono entrato nell’età anagrafica degli anziani, anche se mi chiedo spesso cosa significhi questa parola. Forse la signora Fornero lo sa meglio di altri ma lei parla di numeri, mentre la mia età parla di un dialogo maggiore con il mio corpo, dice che avendo molto visto e provato ho una quantità non banale di ricordi. Se in questa anzianità c’è il senso di un rivedere, verificare e la curiosità che si accompagna alla necessità di meglio capire, allora è vero, sono anziano anagraficamente e mentalmente.
In compenso sono ancora alto 190 cm. Non c’entra ma è buona cosa, mi piace e credo mi sia sempre piaciuto anche se non mi ha mai dato particolari vantaggi, casomai qualche mal di testa accidentale, però mi ha regalato la consapevolezza positiva che gli altri non dipendevano dall’altezza, o dalla forza, ma da ciò che mostravano di essere un po’ oltre l’apparenza.
Mi piace trovare un equilibrio tra il mio stare con me e la necessità degli altri, non mi taglio del tutto la barba da quando questa ha cominciato a essere interessante, mi curo con qualche preferenza e piccola abitudine, ma credo che il fine sia lo star bene. E di questo vorrei parlarle per concludere l’ aggiornamento di questo curriculum. Star bene col proprio corpo, con ciò che si vede attorno, con tutti i propri sensi, con i pensieri che si fanno e non si dicono, non è cosa semplice perché c’è un grande ingarbugliare di stimoli, di priorità, addirittura di necessità, oltre ai desideri, che anziché puntare sullo stesso obbiettivo, divergono, affascinano cosicché alla fine si deve ricomporre la sensazione di benessere in piccole tappe. C’è insomma un accontentarsi. Lei si accontenta? Io no, perché ho scoperto che accontentarsi include una piccola infelicità e quindi il pensiero che questa sia la condizione del vivere. Certo, anche il non accontentarsi ha dentro l’ insuccesso e l’ infelicità, ma aspira alla pienezza e quindi, in fondo, persegue la felicità. Guardi che le parlo di un non accontentarsi che ha ben poco di materiale e che è riferito a sé; non ha relazione con i successi che vengono solitamente apprezzati. E neppure se ne cura, anche se oscuramente, in qualche modo li propizia. Insomma ciò che ci sta dietro è una diversità di sentire e di vivere che non si conforma. In questo vorrei davvero concludere il curriculum e lo faccio con due domande. Quanto di ciò che le viene proposto mescola la differenza con la rassicurazione della conformità a un modello, insomma quanto le lisciano il pelo. E la seconda domanda è su quanto nel tracciare vite e aspirazioni di altri ci sono le sue difficoltà. Provi a pensarci e mi sappia dire cosa e chi cerca, io non l’ avrò però la posso ascoltare e forse magari la capirò meglio, e questa sarebbe una comunicazione nuova.

che per noi il tempo sia buono

Non so bene chi sei, e chi può dire davvero di sapere qualcuno? Hai i nomi che mi hai dato, ognuno geloso dì sé oltre l’ apparenza, ma  questo era nel conto perché il nostro nome segreto lo doniamo solo a che ci prende davvero in fondo al cuore. Quindi non so chi sei eppure ti scrivo perché c’è del noi quando ci pensiamo. Accade per caso, oppure per intenzione, di pensarti, ma non posso sapere se sei pronto a ricevere il pensiero. Pensarci ci appartiene e se mi chiedo cosa starai facendo, magari immagino e sorrido al pensiero ma so che spesso non ci prendo. Però che accada di pensarci ( magari via distrattamente, direbbe Guccini) ne sono sicuro. Sei la persona con cui vorrei parlare e se lo faccio con la penna, non prendermi per matto.
Volevo parlarti di oggi perché a fine anno mi avevano insegnato a fare bilanci e a trarre insegnamenti, tradurre il tutto in propositi e magari scriverli per poi sentirsi in colpa se non si erano attuati. Da molti anni non lo faccio più e i propositi emergono tutto l’ anno quando mi accorgo che proprio non va. Quando riprendo quella frase che mai mi lascia indifferente: era questa la vita che volevi? In fondo forse sì, anche se le vite immaginate  sono sempre differenti e se mi sono approssimato, è stato per strade mai immaginate. E ogni volta ciò che pensavo probabile non accadeva come lo volevo, mentre altro prendeva il suo posto e mi sorprendeva. Quella frase ci chiede del risultato è di dove siamo arrivati ma non dice nulla del presente e del futuro, per questo bisognerebbe mutarla in: è questa la vita che vuoi? È quale vita farai? Per questo penso più agli spropositi che al raddrizzare le cose che ho fatto. Insomma mi perdono e se uso una parola che da queste parti significa qualcosa di negativo e fuori d’ogni ordine non è così che la intendo, sproposito ora è il contrario del programmare, del pensare che dipenda dal mio fare ciò che accade, mentre al più posso approssimarsi,  fare ciò che mi pare giusto, ciò che asseconda un desiderio. Insomma liscio il pelo al gatto e il gatto siamo, io e il tempo.
Così mi curo poco degli anni, del loro numero. Credo servano più al calendario che a me. Mi pare ieri che cambiavamo millennio, pensa che ho pure conservato una bottiglia di champagne dello scorso secolo da aprire quando il tempo sarebbe cambiato per davvero. Era una data mitica il 2000, la pensavamo come il realizzarsi di un futuro pieno di meraviglie e totalmente differente da quello in  cui eravamo immersi.  E invece era solo una continuità, le cose sono cambiate per strada e noi con loro, cosicché la mattina ci si svegliava uguali eppure un po’ differenti. Quello che non cambiava erano i sentimenti, ci siamo sempre innamorati allo stesso modo, abbiamo sempre pensato che non avrebbe avuto fine e se è finito il dolore è stato iimnane, come sempre. Quindi ho smesso di pensare agli anni e li ho lasciati all’ anagrafe. Anche quelli dei calendari sono più una sfida all’ intelligenza che  la misura di qualcosa che ci separa da un evento. Quanto di quell’ evento non è stato mutato per strada, reso simile al momento, insomma manipolato per cui ora è più un numero che un inizio. Gli anni hanno questo difetto, ci assomigliano, mentre il tempo è il continuo fluire in cui siamo.
Stamattina sentivo il ghiaccio che si rompeva sotto la neve camminando, e c’era il sole che tracciava ombre lunghe, mi pareva logico che fossero le stagioni a parlare con le vite, che esse contenessero le attese. Le stagioni non deludono, anche con il cambiamento del clima, anche quando fuggiamo altrove perché pare bello essere differenti, esse parlano al nostro corpo. E in fondo è proprio a lui che dovremmo rivolgerci per sentire se è questa la vita che vogliamo, a lui dovremmo sussurrare i desideri, parlare dei limiti e di ciò che non abbiamo esplorato. A lui dovremmo chiedere il possibile e lasciarci stupire, dovremmo fidarci perché ci conosce come nessuno.
Così questo è il mio sproposito che auguro a te che leggi, ovvero di saper ascoltare e parlare con te, di sostituire i giudizi con la fiducia in te, di perseguire i desideri che ti approssimano e di non lesinare su ciò che ti pare giusto.
Non facciamolo domani, ma ogni volta che ci viene.

Arrivi a te i mio desiderio che il tempo per noi sia buono.

approssimazioni 3.

Mi sono svegliato con un braccio gelato e una lama di freddo sul viso. Il braccio era fuori dal piumone, sotto è caldo ma sopra c’è un freddo inusuale. La notte mi agito nel sonno, mi sveglio e mi riaddormento con sogni faticosi in cui faccio cose, così la mattina sosto un po’ sotto il piumone, aspetto la lucidità della coscienza con una gradualità che un tempo non c’era. Cioè, non ne avevo bisogno, saltavo in piedi, ma ora che fretta c’è? Comunque stamattina fa freddo e non capisco perché, spero non sia il riscaldamento in blocco. Le cose che si guastano nei giorni vicini alla festa rendono tutto difficile, fanno capire quanto precari e dipendenti dalla normalità delle abitudini siamo diventati. Anche un mal di denti diventa difficile da gestire in questi giorni in cui tutto sembra essere inghiottito da una generale allegria e ottimismo in cui nulla si guasta, nulla fa male. È solo rimozione perché altrove le cose continuano come nulla fosse. Bisognerebbe informare il caso e il futuro delle feste, non scriverle sui calendari e basta.  Ho riflettuto a ogni fine anno sulla vacuità dei calendari, sul loro rappresentare visioni del mondo e dello spirito, segni sulle pareti come per i carcerati o gli euforici. Segnano date importanti, fissano un inizio e cominciano a contare: numeri, settimane, convenzioni, non stagioni astronomiche, cicli fisiologici. Numeri e simboli poco legati all’uomo, ma poi la paleontologia, le analisi dei paleo DNA ci bisbigliano verità scomode: eravamo in tanti ominidi, ci siamo accoppiati tra noi, per piacere e necessità, poi alcuni sono scomparsi ma non si sa perché e una sola specie ha continuato, e magari non sarà l’ultima, vista l’esiguità di anni in cui si è esercitata a far danni con successo crescente. Un dubbio per un gesuita potrebbe essere: ma per il Neanderthal c’era stato un salvatore? Mica tanto vista la fine che aveva fatto. E in cosa credeva, visto che aveva un’intelligenza, faceva delle cose complesse, procreava e si mescolava con altre specie, tra cui la nostra, ma non leggeva e scriveva e così niente testi rivelati? Si accontentava di una paura per l’esistenza senza trascendenze? Pensieri ricorrenti per i cambi d’anno, bisognerà metterci una pezza, nel senso di non rimuginarci su ma di trasferirli nell’agnosticismo. Quello che è oltre il sensibile non lo possiamo sapere con certezza, anche se indagare restringe il campo e toglie false soluzioni. Però fa freddo e questo è sensibile, meglio capire perché. Mi alzo e la stanza è decisamente fredda, gira aria e sono 14 gradi. Viene dalla porta finestra socchiusa. Basta uno spiraglio di questa stagione e raffreddi una casa. Fuori la stella cometa è illuminata, così adesso ricordo la fretta di ieri notte: me la sono scordata accesa. Beh, dovrebbe illuminare la notte, è o non è una cometa? Ma non ci sono prese nel terrazzino, così se si vuole illuminarla, il filo tiene un po’ aperta la porta. È un filo sottile che un tempo sarebbe passato tra gli infissi, ma oggi abbiamo porte così ermetiche, che non siamo più abituati all’aria che un tempo circolava per le case. Adesso ci respiriamo in continuazione nelle nostre ermetiche case. Aria viziata che produce pensieri viziati. Se le case con i camini e le stufe fossero state ermetiche si sarebbe estinta la specie nei paesi freddi, chi ha la mia età ha avvelenato dolcemente il sangue di anidride carbonica fino ad ogni successiva primavera. Ma poco, in modo compatibile, ed erano gli spifferi che portavano ossigeno. Mia mamma ogni mattina, in pieno inverno, spalancava tutto, cambiava aria alle stanze. Non era solo delicata, sapeva. Spengo la stella e inizia un nuovo giorno che approssima. Servirà tempo per riscaldare, adesso un caffèlatte che rimetta in ordine i pensieri e le cose. Sono soddisfatto della mia cometa.

Ogni mattina c’era un caffelatte con i biscotti secchi. Anche la settimana delle attese che finiva nella vigilia, aveva la stessa colazione, eppure prima della festa c’era un cibo particolare e i preparativi, che definivano già speciale quel giorno. Era il preannuncio di qualcosa con un sapore buono, il semi festivo degli autobus, una quasi festa che ancora non potevo definire, ma che si capiva che era un giorno differente. Forse per quello si mangiava pesce in una giornata sospesa, fatta di cose inusuali, di negozi di giocattoli da vedere, col gioco meno sguaiato del solito, con già vacanza. Era un pregustare le cose che sarebbero accadute, la mattina di Natale, con mia mamma che preparava la cioccolata, la guarniva con biscotti Lazzaroni e ce la portava a letto. L’alzarsi e il cercare i doni che ancora non si capiva bene dove fossero, ma che poi sarebbero comparsi sotto l’albero al ritorno dalla messa. Nell’aria, il profumo del bollito si sovrapponeva a quello del caffè, i tortellini erano sulla tavola in attesa, e con tempi lenti veniva l’imbaccuccarsi con i vestiti della festa che avevano qualcosa di nuovo che sostituiva il liso, poi l’uscire indolente nel freddo e se c’era la neve una piccola battaglia prima della chiesa. Era tutto speciale e così non importava il giorno in cui cadeva il Natale, ma sembrava una domenica assoluta e unica. La rivincita del Natale sulla Pasqua, del solstizio d’inverno sul primo plenilunio di primavera fatto coincidere con la domenica: il Natale poteva capitare quando voleva ed era comunque una grande festa mentre la Pasqua era obbligata. Erano tutte cose che non sapevo ma mi piaceva più il Natale d’ogni altra festa. Mio padre non lavorava la vigilia, sostava a letto e poi usciva con me a salutare amici. Per chi andava a scuola, le vacanze iniziavano il 24 e spesso arrivavano al 3 gennaio, ma non era certo. Non c’era una vacanza statuita che coprisse le due settimane sino all’Epifania, ma il capriccio di qualche deità scolastica che faceva tornare prima, a volte addirittura il 2. Poi la befana naturalmente, festiva, ultimo baluardo di qualcosa che era stato.

La settimana scorsa, ho confrontato i miei ricordi con quelli degli altri, attorno al tavolo della cena, e faticosamente sono emerse anche le loro vacanze. Avevamo pensieri e ricordi differenti, eppure abbiamo vissuto negli stessi luoghi e negli stessi anni. Mi è parso che i tempi non fossero sovrapponibili e invece lo sono ben più di quanto si pensi. Voglio dire che, a parte la durata delle vacanze che variavano da scuola a scuola, la letterina non la scrivevo solo io, la scrivevamo anche gli altri. I risultati erano diversi ma a tutti avevano insegnato che quella era la prova che sapevamo scrivere. La carta infiorettata la procurava la maestra e si pagava anticipatamente, il testo non era un miracolo di esposizione che già limitare gli errori di ortografia, le cancellature, le macchie d’inchiostro, era un’evenienza fortunata. Era la nascita di un conforme pensiero collettivo con tratti contenuti di originalità (gli errori e la grafia) ma mica lo sapevo. Da qualche parte ci sono ancora alcune di quelle letterine (mia madre le aveva conservate), che messe sotto un piatto di tortellini fumanti, trovate con una sorpresa che mi ostinavo a credere vera, avevo poi lette, all’inizio, in piedi sulla sedia. Poi solo in piedi. Quanto mi piaceva stare in piedi sulla sedia, ma il piacere era in quella e poche altre occasioni. Leggevo, incespicavo sul testo, arrivavo sudato in fondo a quelle tre righe in cui riconoscevo i disastri della vita precedente e promettevo le virtù future. Era l’antenato del tweet dei buoni propositi con più o meno dello stesso numero di caratteri, e già aveva l’avventatezza del futuro determinato dalla volontà. Poi s’ imparava a non promettere troppo e usare il per sempre con parsimonia. Ma anche allora, con il torrone, l’impegno finiva e per un anno non se ne sarebbe più parlato.

Per chi non conosce la Cologna veneta, il torrone duro e friabile, zeppo di mandorle, lucido e bianchissimo, non c’è possibilità di appartenenza culturale a questa regione. In Veneto, penso, ci sia una predilezione per le cose dure: il pane biscotto, i bussolai, il torrone di Cologna, i pevarini, ecc. Come fossimo persone dai denti forti e perenni. In realtà non è così ma nessuno s’è mai lamentato e il duro nel cibo ha aiutato a percepire le qualità del morbido, così il dolce quasi orientale ha fatto cercare l’amaro e il salato. Anche la stella illuminata da una candela veniva portata di casa in casa, cantando e ricevendo in cambio dolci e qualche spicciolo. Era un’uscita permessa serale permessa ai più intraprendenti che costruivano la stella con legno leggero, colla di farina e carta velina, come gli aquiloni. Una stella esibita, segno e non direzione, speranza senza parole particolari se non quelle del canto. La ciara stela. Portava bene, perché erano bambini ad annunciarla. C’erano più in campagna queste cose, ma anche in città qualcuno suonava al campanello e cantavano nell’entrata con i visi arrossati dal freddo, i nasi gocciolanti, le sciarpe rosse fatte in casa ben avvolte attorno al collo. Gli occhi luccicavano di luci e vin brulè, ridevano forte e ringraziavano, qualcuno non parlava e sorrideva solo, erano i più timidi a far numero, ma gli sfrontati facevano per tutti. 

Come faccio a mettere tutte queste cose in una stella cometa che può anche lampeggiare e che è fatta in una città cinese, che non ha il Natale ma in cui si fabbricano il 50% degli addobbi natalizi del mondo. Non si può. Come non si possono raccontare le attese, i motivi veri per cui ci sono tempi che dilatano e che si riempiono d’indefinito. Credo che l’amore abbia a che fare con l’attesa, che ne costituisca una parte non banale. Facendo le cose del mattino, penso, e mi viene in mente che l’amore si cerca, si aspetta, si riceve, tutte azioni che sono collegate a un sentire che preannuncia una soddisfazione successiva che non si esaurirà. Si pensa che questo non esaurirsi includa il per sempre, che sia questo un motivare le attese, un renderle sempre piccole rispetto all’accadere. Se il desiderio si avvera, l’attesa diviene annuncio, profezia avverata. E finché non si verifica, l’attesa prolunga la speranza. Allora la stella indica una direzione, è più di un segno legato a qualcosa di definito, è la via indicata e il percorrerla è il senso del viaggio. Solo che bisognerebbe capire quale sia questa direzione interiore. Mah. La casa s’è scaldata, guardo la stella e mi piace anche se non è illuminata.

continua, forse…

 

https://www.youtube.com/watch?v=EWtSzUo2ibo

 

 

altrove

Non sappiamo cosa pensino e prevedano gli gnomi che orchestrano le nostre vite. Per approssimazione, con suasione instancabile e gentilezza biforcuta, spingono in una direzione determinata. Fino a quando decideranno ciò sia utile. A cosa e chi non sarà mai chiaro. Come la vacca placida a cui ciascuno s’abbevera di latte, ci illudiamo di chiacchierare con l’amico, ci muoviamo nelle piazze, ci pare di scegliere dove andare nel mondo o vicino a casa. E intanto prepariamo cioccolate che dovrebbero scaldare l’anima, ritmiamo le parole intingendo pennini nell’inchiostro e nei pensieri. Ci pare d’essere liberi senza misura mentre altrove qualcuno, che neppure è uno, ci considera un acquirente potenziale, un numero da mettere nel mucchio, un pezzo di carne da usare secondo fini che ci sembrerebbero orripilanti se davvero nominati. Qualcuno ci pensa con moderazione, senza passione alcuna che davvero ci riguardi,; utili ad altri scopi che non sono precisamente il crescere, l’essere consapevoli e liberi e a volte felici. Ciò che ciascuno prova in una fase del vivere, ovvero l’usare l’altro, diventa professione senza oggetto, come se il fine fosse quello di un distopico futuro che contiene sì l’umanità, ma neanche tutta e per strati utili. E la consapevolezza che ciò accada può essere sommersa da mille piccole apparenti libertà, da decisioni che faranno bene o male, ma i conti prima o poi si faranno con quell’inquietudine che si prova ogni volta che qualcuno spinge con apparente dolcezza le nostre spalle e, voltati si dilegua un’ombra e coglie il freddo vuoto.

 

Altrove, qualcuno pensa a me,

ma non proprio alla mia persona.

Non come fai tu che chiedi, e vorresti ascoltare di me,

di noi il racconto del farsi e il fare. 

È un pensiero dell’altrove che ci ri guarda,

che lega i destini in lasche trame,

così mi pare siano povere le tue, le mie attese.

E se la libertà è il graffiare d’un pennino,

la cioccolata mescolata con cura d’ospite,

se è sentire i colori scivolarci addosso nel tramonto,

tutto questo, penso, lasci momenti di piccola pace,

una breccia in quel pensiero che ci ri guarda

e che apre la porta a finite quietudini da diluire in noi,

come possiamo.

Ma solo questo mai m’è sembrato giusto per davvero.

 

 

 

vicolo dell’anima

Avevo diverse cose da dire, pensieri che si rincorrevano seguendosi e poi tornando daccapo. Nel mio scrivere circolare in fondo torno sempre sui miei passi, come faccio in città cercando vicoli e percorrendoli fino in fondo. Abiti in un vicolo, direte, allora sarà per questo, e invece no, è la tangibilità del limite che m’interessa, la costrizione a guardarsi attorno, in alto perché avanti non si può andare. I vicoli nascono per qualche abuso perpetrato chissà quando: qualcuno ha deciso di mettere una casa dopo un giardino, di chiudere una strada. E qualcun altro gliel’ha lasciato fare. La città ne ha molti, alcuni dopo portoni altosonanti, altri anonimi e solitari. Quella del vicolo è una bella metafora di ciò che sta accadendo attorno a noi: si chiudono strade che prima portavano pensieri, diversità, saperi e chi potè (o può), vi installò la sua casa. È l’arteriosclerosi della società che mentre rende facile il viaggiare rende difficili i cammini individuali e interiori. Guardavo il vicolo dove abitava mia zia, neppure quello era un vicolo perché prima era una strada: strada vecchia. La vecchia toponomastica  ancora affissa lo dice: vicolo vecchio, già strada vecchia. Adesso c’è un cancello di ferro e il vicolo non si può più percorrere. In fondo a quel vicolo c’è una villa e un altro cancello impermeabile alla vista. Lo so per averci passato i pomeriggi vicino. Poi ci fu un fatto terribile, che accadde quando ero ragazzino, il proprietario della casa durante una gita in montagna, uccise i figli e la moglie e poi si suicidò. Dissesti finanziari, dissero in casa, ma c’era molto pudore nel parlarne. Non credo che quanti abitano nel vicolo, ora un cortile, sappiano di queste cose. Arrivano, aprono un cancello col telecomando, aprono un garage con un altro telecomando e salgono nelle case: prigionieri e protetti. Un tempo in quella strada giocavamo in parecchi, in tutti questi anni in cui guardo sotto il volto di accesso, non ho mai visto un bambino che gioca oltre l’inferriata. Tutti prigionieri.

Per rifarmi la vista, allora, ho percorso un altro vicolo vicino. Misterioso come il suo nome, tabacco, però stretto e corto come quelli del monopoli. In fondo ha il solito cancello di lamiera banale e gli alberi che spuntano oltre i muri con i cocci di bottiglia. La strada scivola tra muri e usci che danno sull’acciottolato antico, fatto di sassi della Piave, come si diceva un tempo, e le case s’inerpicano a cercar aria. Questo è un vicolo, talmente stretto da rendere inutili i cartelli di divieto di sosta, però il guardar alto rivela un ponte tra case, pietra traforata e una stanza di passaggio: hanno tentato di chiudere il cielo e non ci sono riusciti e così ne è venuta una continuazione del portico sul corso. Una finta, insomma, e pure riuscita a mezzo. Ovunque giardini pensili in queste minime strade, e subito la sensazione di essere arrivati al fondo dell’orizzontale.

Stamattina camminavo con intenzione curiosa e mi accorgevo che la città che avevo in testa non era la città reale. La mia è una città di fatti, di relazioni, di presenze che si conoscono, scambiano, confrontano e quella che vedevo era una città che fuggiva da sé. Non la città dei futuristi, neppure quella della storia, così presente in queste strade, ma una città che si chiudeva, che girava il capo e non ascoltava.

Ora serve l’eccezionale per smuovere le spalle, far girare i passi, mentre è il quotidiano, così pregno di realtà, che dovrebbe portarci in un vicolo dell’anima, costruito con pazienza e aperto dentro di noi per riflettere su dove si sta andando, guardare in alto e attorno, riconoscendo con meraviglia che non sappiamo dove siamo. E in fondo, nel giardino segreto, coltivare le piante che fanno bene, un orto dei semplici da aprire a chi bussa, un condividere per aprire una strada oltre noi che abbiamo capito il concetto del limite. E allora anche un vicolo avrebbe un senso e uno scorrere.