vicolo dell’anima

Avevo diverse cose da dire, pensieri che si rincorrevano seguendosi e poi tornando daccapo. Nel mio scrivere circolare in fondo torno sempre sui miei passi, come faccio in città cercando vicoli e percorrendoli fino in fondo. Abiti in un vicolo, direte, allora sarà per questo, e invece no, è la tangibilità del limite che m’interessa, la costrizione a guardarsi attorno, in alto perché avanti non si può andare. I vicoli nascono per qualche abuso perpetrato chissà quando: qualcuno ha deciso di mettere una casa dopo un giardino, di chiudere una strada. E qualcun altro gliel’ha lasciato fare. La città ne ha molti, alcuni dopo portoni altosonanti, altri anonimi e solitari. Quella del vicolo è una bella metafora di ciò che sta accadendo attorno a noi: si chiudono strade che prima portavano pensieri, diversità, saperi e chi potè (o può), vi installò la sua casa. È l’arteriosclerosi della società che mentre rende facile il viaggiare rende difficili i cammini individuali e interiori. Guardavo il vicolo dove abitava mia zia, neppure quello era un vicolo perché prima era una strada: strada vecchia. La vecchia toponomastica  ancora affissa lo dice: vicolo vecchio, già strada vecchia. Adesso c’è un cancello di ferro e il vicolo non si può più percorrere. In fondo a quel vicolo c’è una villa e un altro cancello impermeabile alla vista. Lo so per averci passato i pomeriggi vicino. Poi ci fu un fatto terribile, che accadde quando ero ragazzino, il proprietario della casa durante una gita in montagna, uccise i figli e la moglie e poi si suicidò. Dissesti finanziari, dissero in casa, ma c’era molto pudore nel parlarne. Non credo che quanti abitano nel vicolo, ora un cortile, sappiano di queste cose. Arrivano, aprono un cancello col telecomando, aprono un garage con un altro telecomando e salgono nelle case: prigionieri e protetti. Un tempo in quella strada giocavamo in parecchi, in tutti questi anni in cui guardo sotto il volto di accesso, non ho mai visto un bambino che gioca oltre l’inferriata. Tutti prigionieri.

Per rifarmi la vista, allora, ho percorso un altro vicolo vicino. Misterioso come il suo nome, tabacco, però stretto e corto come quelli del monopoli. In fondo ha il solito cancello di lamiera banale e gli alberi che spuntano oltre i muri con i cocci di bottiglia. La strada scivola tra muri e usci che danno sull’acciottolato antico, fatto di sassi della Piave, come si diceva un tempo, e le case s’inerpicano a cercar aria. Questo è un vicolo, talmente stretto da rendere inutili i cartelli di divieto di sosta, però il guardar alto rivela un ponte tra case, pietra traforata e una stanza di passaggio: hanno tentato di chiudere il cielo e non ci sono riusciti e così ne è venuta una continuazione del portico sul corso. Una finta, insomma, e pure riuscita a mezzo. Ovunque giardini pensili in queste minime strade, e subito la sensazione di essere arrivati al fondo dell’orizzontale.

Stamattina camminavo con intenzione curiosa e mi accorgevo che la città che avevo in testa non era la città reale. La mia è una città di fatti, di relazioni, di presenze che si conoscono, scambiano, confrontano e quella che vedevo era una città che fuggiva da sé. Non la città dei futuristi, neppure quella della storia, così presente in queste strade, ma una città che si chiudeva, che girava il capo e non ascoltava.

Ora serve l’eccezionale per smuovere le spalle, far girare i passi, mentre è il quotidiano, così pregno di realtà, che dovrebbe portarci in un vicolo dell’anima, costruito con pazienza e aperto dentro di noi per riflettere su dove si sta andando, guardare in alto e attorno, riconoscendo con meraviglia che non sappiamo dove siamo. E in fondo, nel giardino segreto, coltivare le piante che fanno bene, un orto dei semplici da aprire a chi bussa, un condividere per aprire una strada oltre noi che abbiamo capito il concetto del limite. E allora anche un vicolo avrebbe un senso e uno scorrere.

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