ego ed altri amori


Dominati dall’ego oppure alla ricerca dell’ego, sicuri, insicuri e mai affidabili. Com’erano i tuoi uomini? Quelli che hai amato, quelli che ti hanno amato. E che non sempre sono coincisi. E gli amori sconclusi, asimmetrici, quelli che hanno aperto porte e scavato voragini, e poi, come per magia tutto si è rinchiuso, com’erano? Chi è rimasto dentro, chi ha camminato sopra e avanti?

E com’erano le donne che hai conosciuto? Come ti hanno cercato, tenuto, respinto, amato? Dove finiva la ricerca dell’ego, velato, proposto, sbattuto in faccia, offerto o negato. L’hanno cercato in te, condiviso assieme, oppure accuratamente separato.
Quanta fragilita, fraintendimenti, abbagli dell’intuire, offerte sconsiderate, generosità inverosimili. E riflessioni a posteriori perche cio che è verosimile è logico e non si offre facilmente, ma la logica fa a pugni con l’amore. Quella consueta, almeno.
Cercando di evitare di essere numeri primi, ci si incontra e qui le storie possono iniziare o finire. Ma da allora, comunque,  c’è un prima e c’e un dopo e ognuno scrive il suo, ma prima ci si incontra ed è il momento dell’ego. Della sua epifania.
“Fammi capire, non chi ho davanti e vedo, ma se dovrò subire oppure condividere, se mi verrà chiesto d’essere altro da me. Tu che sai, fammelo sapere, ammaestra per tempo il mio intuito, fallo sbagliare per generosita eccessiva, ma non all’inizio, dopo.”
Bisognerebbe recitare i mantra quando è ora e ad alta voce. Ascoltarsi perche le parole facciano effetto. Sconcertarci perche l’ego emerga e dica qualcosa e poi, prima che l’amore dilaghi, muti i segni delle equazioni, aiuti a decidere se restare o andare, mitigando il fato. Ma in realta non si decide mai nulla, accade e basta. Allora preferisco i generosi agli avari, perche i primi a volte soffrono, sono traditi, ma qualche volta sono felici, i secondi, invece, mai.

c’eravamo tanto amati e adesso?

Ogni anno, con le feste torna c’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Penso che da qualche parte ci sia un programmista RAI, sfuggito al nuovo renziano e che ha più o meno la mia età. Un “comunista” cinefilo, di quelli diffusi fino agli anni ’80, che erano attenti a ciò che accadeva nella realtà ed erano così audaci da proporre una soluzione alle sue storture. Scomparvero travolti da improvviso successo, alcuni, e da stanchezza immane gli altri, ma non il nostro programmatore cinefilo, che nascosto nel suo lavoro e lo usa subdolamente e cosi tra mille porcheriole  continuerà a mandare questo film finché non si accorgeranno di lui, oppure finché non finirà il suo interlocutore, ovvero la mia generazione. Penso sia il suo memento e la vendetta lanciata contro chi ha sotterrato gioventù, passioni e voglia di cambiare.

Premetto che è un film che mi piace ancora molto, e non è l’unico con un soggetto che ricorda come una generazione conquistò, costruì, sperò, e infine si conformò. Anzi ci fu un filone che produsse letteratura, film, saggi, quadri, statue, musica.e che parlava di speranze perdute.

Però questo film che ho visto tante volte, non riesco più a vederlo, mi fa male.

Mi fa male perché racconta delle speranze deluse, delle lotte apparentemente inutili, dei compromessi pagati con il potere, degli abbagli, della buona fede e di quella cattiva, del fallimento e del successo, insomma della vita e dell’amore che sembrano certezze e spesso non sono tali. Già, vita e amore, cose molto concrete quando si mischiano nel costruire le scelte e che fanno volare ma anche molto sanguinare.

Mi fa male perché mi sembra abbiano vinto gli altri, quelli che sono arrivati dove solo l’io conta e il noi l’hanno perso per strada.

Era davvero tutto finto, tutta illusione? Davvero non c’era differenza tra una parte e l’altra?

Non so se il potere sia triste, so che ha la capacità di rendere tristi, so che la poverta non è  mai felice, so che chi crede in qualcosa di piu grande e lotta per darla a sé e agli altri, è felice. Spegnere le speranze è una colpa contro natura, ma è quello che è accaduto per quelle grandi. Ora restano le piccole speranze rintanate in un io che fatica a diventare noi.

Mi pare che quello che non mi piace, sia il prodotto di quelle disillusioni, che la mia generazione abbia trasmesso la propria sconfitta e che così oltre a far vincere i furbi intelligenti abbia reso più difficile l’amore. Ma tutto questo è preistoria, contatto fisico, speranze comuni, attese, lotte, che nel virtuale si chiudono con un mi piace, oppure con uno scontro che si cancella con il successivo. Non so come sarà  il noi al tempo del virtuale e dell’adesso, non so piu che dimensione abbia il futuro che si racconta con i tweet. Non lo so e anche se tutto questo non c’era quando il film fu girato, anche allora si chiudeva con una disillusione triste. Un sentire che conosco ed è forse per questo che non riesco a vedere più il film per intero.

P.s. La canzone partigiana del film era davvero bella e pure la cantammo spesso, solo che non era partigiana ed era nata molto dopo in occasione del film, ma si poteva credere ci fosse continuità e che non fosse davvero finita un’epoca.

essere straniero

Cosa si prova a sentirsi straniero lo conosciamo tutti, fa parte dei ricordi dell’infanzie e dell’adolescenza, è una sensazione che si è rinnovata ogni volta che in un gruppo non si è sentita l’attenzione e l’accettazione. Quindi è esperienza comune il sentirsi intrusi, isolati quel tanto per capire che dopo ogni atto, ogni discorso e incontro, quando la porta si è chiusa, dietro, i discorsi continuano. Si sa che inizia un chiacchiericcio, un manovrare e togliere consistenza a ciò che con fatica è stato elaborato e proposto. Le barriere invisibili, non sono poi tali, si vedono e si sentono. Allora la sensazione è quella di provare passioni inutili, d’essere un ghiribizzo di congiunzioni astrali che hanno portato in quel posto per uno strano scherzo del caso, e c’è la certezza che tutto si ricomporrà appena ce ne andremo.

Tutto tornerà come dovrebbe essere: tra noantri. In quell’immoto equilibrio in cui si aprono voragini domestiche, destini e stelle cadenti, ma tutto in un microcosmo dove le cose devono avvenire. Eppure lo straniero porta sempre un’altra visione delle cose, non ha le stesse abitudini, ha libertà non ancora adeguate alle consuetudini. Dovrebbe essere tenuto in buon conto, spinto a dire, fare, capire, non isolato ma reso parte. In fondo lo straniero è una ricchezza possibile, e i forti, quelli che davvero governano le cose, lo sanno e s’appropriano del nuovo che ne viene. Persino i pupari utilizzano il nuovo che porta lo straniero, perché sanno che egli è debole, non ha reti, né sodali in grado di difenderlo, si muove con ingenuità intelligente perché ignora le regole non scritte e vuole apprendere.

Questa sensazione dell’estraneità mentre rafforza la volontà di fare, però stanca. Ci si chiede ragione della fatica (questa è la domanda di chi non ha ambizioni personali), si punta sul lavoro, sul suo successo, sperando che tutto vada per il giusto verso. È un navigare in un mare infido e quel giusto verso è sempre controcorrente, fa i conti con una vischiosità reale di cose non dette, di doppiezze nel dire, pensare e fare. Insomma navigare stanca.

Lo straniero non è migliore, è semplicemente una diversa visione delle cose e se questa viene composta in un diagramma delle forze, la realtà futura sarà diversa, altrimenti ripeterà se stessa. E il diverso, checché se ne dica, è sempre migliore della monotonia atona di ciò che non muta.

l’europa è delle donne e dei giovani

Solo le donne e i giovani potranno far fare un balzo in avanti alle libertà e ai diritti. Solo loro potranno, magari con l’aiuto di molti uomini di buona volontà, bloccare la deriva di destra e di conservazione che ha fermato l’unica speranza che possa essere giocata nella globalizzazione: un’ Europa unita, politicamente ed economicamente, dove ci siano diritti spendibili, crescita compatibile, mobilità sociale, tutela dei beni comuni ed equità.

Sono loro, le donne e i giovani che più hanno da perdere in un mondo in cui la libertà di muoversi viene limitata, dove viene impedito l’esercizio libero dei sentimenti, dove alla religione laica della libertà si sostituiscono le religioni che discriminano, convertono obbligatoriamente, impongono una morale e un dogma.

In 50 anni nell’800, dal 1820 al 1870, un movimento di idee, trasversale alla società di allora, controcorrente, fece emergere gli Stati nazione, unificò ciò che pareva impossibile mettere assieme, prese la libertà e l’applicò alla costruzione di una economia e di una crescita scientifica senza precedenti. Come fu acquistata, la libertà in Europa venne perduta, solo dopo il 1945 ricominciò una crescita basata su nuovi principi. Ma l’economia e la finanza in particolare, hanno affievolito, assieme al benessere, la percezione che la crescita non è automaticamente il progresso sociale e civile di uno stato, di un continente. Dopo l’ultima fiammata del ’68, che ha costretto la politica ad occuparsi delle aspirazioni di una generazione, del genere femminile e della libertà, come elemento che cambia i rapporti, non c’è stato più nulla che spingesse governi, opinione pubblica, cultura a misurarsi con il tema delle libertà reali, dal bisogno, dall’ineguaglianza, dalla subordinazione, dai pregiudizi di genere, dalla sessualità consultata, dalle culture che negano la libertà.

Ciò che oggi viene descritta come una deriva populista di destra è certamente il timore di perdere privilegi e condizioni che appartengono a pochi e sono negate a molti, ma questo non vale solo nei confronti di chi viene da paesi extra europei, bensì vale per i cittadini della stessa Europa. La speranza di avere un posto di lavoro che corrisponda a ciò per cui ha studiato per un giovane, è talmente bassa che viene considerato un valore la flessibilità intesa come modalità di fare qualsiasi cosa. La speranza che queste generazioni hanno di avere una tutela, almeno equiparabile a quella goduta dai propri padri, è inesistente. Le donne, hanno una difficoltà crescente a veder riconosciuti diritti che appartengono alla persona e che sono tutelati in modo differente nei vari stati e i processi di equiparazione delle normative che riguardano i generi sono solo sulla carta e spesso neppure su questa. I movimenti anti europeisti non hanno nei loro programmi l’estensione dei diritti, non hanno la formazione di una Europa unita e libera dai confini, non hanno sistemi economici coordinati ed interscambiabili. Anzi hanno al loro interno, chiusure, protezionismi, limitazioni, sessismo di genere, enfatizzazione della cultura nazionale o religiosa basate su presupposti che non sono verificabili se non proprio attraverso quella libertà di capire e contaminarsi che è sempre stata propria della cultura europea. 

Quindi quello che si prospetta è un mondo chiuso, dove ci si difende con i muri, dove la libertà è limitata da leggi eccezionali che diventano normali, dove la libera circolazione delle idee, delle persone, delle merci viene regolata, contingentata, impedita.

Chi ha da perdere in questo processo sono le parti sociali più deboli, i giovani, le donne, a cui viene – e verrà preclusa – la possibilità che i diritti siano estesi, che ci sia una normalizzazione delle libertà di essere con l’unico limite posto dalla violenza sull’altro. Per questo mi aspetto che ci sia una coscienza della realtà e un risveglio, dei giovani e delle donne, che essi dicano la loro sul mondo che vorrebbero, che lo sostengano, che impongano la discussione delle loro esigenze, che non aspettino da altri quello che da questi non potrà mai venire.

ma dove stiamo andando?

Qualche giorno fa sentii una delle poche analisi davvero nuove sui fatti di Parigi. Un orientalista e politologo francese, Olivier Roy , (allego il link)  diceva che non era lo jihadismo, la radice di questa violenza inusitata e cieca, ma la rivolta generazionale dei figli musulmani (o anche atei) contro i padri e la loro quieta e integrata religione portata in occidente. Per questo i terroristi avevano spesso un percorso che passava dall’ essere prima conformi alla società in cui vivevano, in pratica, buoni figli che passavano alla negazione e alla ribellione assoluta, con una deriva nichilista che era strumentalizzata dai movimenti estremisti, ma che era anche il rifiuto della vita propria e altrui.

Le vite degli altri perdevano senso perché la propria vita aveva perduto senso, questo motivava la determinazione sistematica dell’uccidere senza emozioni per togliersi, infine, ala vita senza paura.  E questo fenomeno non riguardava solo l’Europa, ma gli Stati Uniti (a partire da Colombine), la Norvegia di Breivik con la strage di Utoya, il Giappone e l’attentato alla metropolitana di Tokio, quella di Madrid, la strage del teatro a Mosca, quella di Beslan in Ossezia del nord  e chissà quanti altri luoghi diversi da quelli in cui il senso comune non si preoccupa di indignarsi in Africa, Medio Oriente, Filippine, Pakistan ecc. ecc..

Quindi da tempo un nichilismo serpeggia per il mondo e prende varie forme, ma ha giovani come protagonisti. Il rifiuto dei padri e di ciò che essi avevano prodotto. Una richiesta non espressa di cambiamento radicale. Questo non giustifica nulla, ma pone un dubbio sull’efficacia dell’affrontare le crisi con la sola forza. Cioè se si distruggerà il califfato dell’Is, se in Libia si riporterà una parvenza di ordine e così in Somalia, questo basterà per eliminare il problema oppure si deve vedere cosa non sta funzionando in una visione globalizzata del mondo che rende tutto, fintamente, occidente?

Ogni attentato è il rifiuto della speranza di cambiare davvero, come far capire che esiste la possibilità di un mutamento e che questo può essere non violento?

http://www.internazionale.it/opinione/olivier-roy/2015/11/27/islam-giovani-jihad

dettagli

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Mi diceva che mi perdevo: sei troppo in alto oppure perduto a cercare tra le pieghe, negli anfratti, comunque con la testa perennemente chissà dove.

Insomma non c’era modo di essere adeguato.

Questa cosa dell’adeguatezza, magari con altri nomi, ci veniva insegnata ad ogni piè sospinto, come forse richiedeva il mondo del lavoro al quale eravamo destinati: l’industria. Conformi a qualcosa, ad un metodo, ad una prassi che era poi tradotta da un’altra di quelle maestre di scuola e di vita nell’assioma che ciò che contava era il mediamente giusto e il tempo d’esecuzione. Era un mantra. Non cercare troppo, fai veloce e abbastanza giusto. La teoria del quasi esatto.

Tutti questi maestri che m’ insegnavano a nuotare nella vita non mi salvavano dalla caparbietà ribelli dei miei naufragi E così continuavo a navigare nei particolari. Oppure così in alto che tutto diventava piccino e allora mi pareva di capire il senso di ciò che si faceva e accadeva.

Inadeguato.

Sembrava una colpa, ma era troppo interessante cercare nei dettagli significati rivelatori. Lì scappavano le verità che non si volevano quasi dire, in una sintassi dell’oscuro e della sostanza che sonnecchiava dietro l’apparenza. Era una macrofotografia in cui indagare e che mostrava cosa c’era tra le pieghe. Forse cercavo l’anima nella superficie. Era il contrario di ciò che dicevano i maestri del pensiero arduo e facile, quelli che ascoltavo e quelli che leggevo, ma mi dicevo: e se avessero torto, se in realtà l’anima evaporasse in continuazione come tutti gli altri fluidi e che, come questi, si riformasse, ci sarebbe una ghiandola dell’anima, un ormone che si spande attorno e induce a capire cosa proviene da dentro. Forse  era così. Mi pareva. E intanto guardavo affascinato gli ingranaggi che si muovevano in un nitore stupefacente di moto, la leggera patina di olio che luccicava, lo sfilacciare delle gomene delle barche al mare, l’infinita esattezza delle conchiglie, l’avvolgersi spiraliforme dei gusci marini, le striature precise e conformi alla bellezza dell’insieme.

E tutto questo mi pareva fosse una dimostrazione di un equilibrio tra dentro e fuori, un trasudare inconsapevole di esattezze interiori. Ecco, mi interessava l’esattezza interiore che, al pari di una qualsiasi età dell’oro, ci portavamo dietro. Non era l’esattezza dei numeri, ma quella delle cose che s’incastravano.  E questa esattezza intrinseca doveva uscire in qualcosa di definito, di particolare. Non poteva essere dappertutto e di tutto, era un pressappoco di una esattezza sotterranea che non si piegava alla sovrapposizione dell’apprendere, neppure a prezzo di enormi sacrifici che travisavano la naturalezza. Le cose si lasciavano sfuggire particolari, dettagli e c’erano senza sforzo. L’insieme li ricomprendeva, li fondeva in masse di colore che davano il senso, la direzione. Come in quelle foto in cui si vede una folla e poi con la lente si scava sino a cogliere l’espressione della persona. Il tutto e il particolare, quello che stava in mezzo era importante all’economia, ma non per capire le cose, e in fondo neppure serviva per decidere.

Non ho perso il vizio anche se l’ho corretto nell’apparenza, così non sembro sempre perso altrove. E quando all’olimpiade vidi Yuri Chiechi che faceva delle cose mirabili con il corpo in equilibrio sul nulla e non sbagliava il giusto tempo di esecuzione, mi dissi che quella era la fusione del generale e del particolare, del tempo e dell’attimo, ma che occorreva un grande esercizio dello spirito per renderla conforme. A cosa?

Alla bellezza interiore, ovviamente.

fuor di retorica

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La retorica è una cosa buona e seria, ha un suo luogo e una sua dignità. Ma non gioca con i sentimenti. E quella farlocca stanca. Per cui sono stanco di magie del natale, di marsigliesi, di rivalutazione della cultura che c’era pure prima dei morti di Parigi, di crociate che sconfiggeranno l’isis, ma non mi dicono cosa ci sarà dopo in medio oriente. Sono stanco e proprio per rispetto non parlo dei morti, dedico loro il mio silenzio, la mia riflessione e ciò che posso fare. Cerco di capire il mondo che mi sta attorno, di vederne le connessioni e non ho le conclusioni, ho opinioni. Questo non basta a me, agli altri non so, ma sento l’insufficienza dell’analisi e l’incapacità di superare i limiti del momento. Un progetto del mondo include la necessità di enunciare ciò che accadrà dopo, a obbiettivi raggiunti. Ma siccome i fini non dicibili, giustamente non si dicono, le questioni che attengono alle opzioni individuali sulla libertà propria e altrui vengono sottaciute, poiché si esclude un ruolo attivo dell’economia nel ridurre la diseguaglianza e far crescere la spendibilità dei diritti, allora anche le parole sono sempre parziali e diventano incomplete e non vere. Ciò che si dice ai funerali riguarda i morti e i vivi e se si vuole dare una speranza ai secondi si dovrebbe uscire di retorica, testimoniare la propria insufficienza, scegliere delle opzioni che definiscano l’identità e la cultura di chi vive. Questo sarebbe un passo avanti, una dimostrazione di forza interiore, ben più complicata di quella esteriore, che infine potrebbe includere e far sentire che non c’è uno scarto immane tra chi decide e chi è deciso, che la civiltà include e accoglie, vive e si perpetua, e soprattutto indica i suoi obbiettivi con chiarezza, affrontando le contraddizioni, e che quando esercita la forza ne specifica bene le ragioni e il fine.

In Syria, qualche anno fa, all’inizio della guerra civile, ero in un villaggio di poche case vicino a una delle oltre cento città morte che nacquero e si spensero nell’alto medioevo. Guardando quelle persone, che vivevano di pastorizia e agricoltura, non di turismo, pensai che in tre generazioni, erano passate per quelle case almeno cinque diverse dominazioni e poteri. Che quelle persone erano diventati cittadini dell’una o dell’altra parte, subendo e continuando a fare quello che potevano, cioè vivere. E in quel vivere c’erano state le stesse emozioni degli uomini delle grandi, civilizzate città: amori, dolore, piccole gioie, feste, fatica, ma anche fame e morte. Non erano indifferenti quelli che vedevo, guardavano e aspettavano che ci fosse qualcuno che li avrebbe fatto vivere meglio. E se guardavano con distacco ciò che accadeva, al più immaginando la fuga e il suo dolore nel lasciare, era perché sapevano che il potere non sarebbe durato. Nessun potere. Ma le cose buone duravano e loro attendevano quelle per lasciare la paura. Ecco credo che allora pensai esattamente ciò che penso ora, il potere non dura, gli uomini restano, i valori profondi che una civiltà riesce a distillare, restano. E questi, se vengono ripuliti dalla retorica, danno la vera misura del valore, enunciano con verità gli obbiettivi, uniscono rispettando i vivi e morti. Ma forse anche questa è brutta retorica. 

del rapporto

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del rapporto si conserva il giusto, apparentemente nulla, a volte. ad un certo punto le braccia si sono fatte dure, stecchi rivolti a un cielo che non preannuncia. La ginnastica del cuore riabilita la morbidezza. Ne tiene in giusto conto, il limite. Non s’arrovella sul passato che giace, orologio rotto, ai nostri piedi. Abbiamo, non abbiamo, fatto il necessario? C’è una teologia del fare e del possibile speculare a quella dell’attendere un fato.

Scrivere mantra è sempre un utile esercizio per dare un senso alle spirali che percorriamo. Qual è il loro senso, verso l’esterno infinito oppure nel profondo, all’indietro, verso l’origine?

Lì un giorno sono stato, eppure di quel giorno è rimasto non il luogo, ma la presenza. Come i viaggiatori dovremmo davvero innamorarci dei luoghi e delle persone, non lesinare gli addii della voce, se questo era già scritto. Tenere il molto che riceviamo invece, nel cuore, con la cura degli oggetti che prefigurano divinità. E lasciare ch’ esse agiscano nel profondo. Ma non possediamo la sublime modestia del viandante, il suo acume quieto. Così quando leggo di un disagio che prende alla gola, che le persone si allontanano, e si preannunciano stanchezze interiori, foriere di giorni grigi e inconosciuti, vorrei dire che ci sono sempre braccia attente, che ciò che è in pericolo, di fatto se n’è già da tempo andato, che tenere è un’arte difficile perché non trattiene ma custodisce.

La domanda forse era: perché tutto ciò accade? Perché è la vita ed essa impone, quasi sempre, il suo tempo al nostro. Perché non sappiamo davvero nulla che ci ponga al riparo dal disamore, non abbiamo ricette e le soluzioni sono sempre parziali, ma l’esserne consapevoli fornisce qualche strumento in più. Di qualcuno ho ammirato svisceratamente il coraggio, di altri sento, nelle parole, la paura che precede l’ignavia, in altri ancora una consapevolezza dolorosa che getta dentro un vortice da cui certo si esce mutati nel profondo. Volevo dirlo, con parole di vicinanza e non ci sono riuscito. Ho tenuto cari pochi amici, di loro posso dire che non cessa il confronto sul presente e sul futuro. Altro non so, ma chi non ho trattenuto dialoga con me e se non penso sia una questione di reciproche responsabilità e colpe, so che potrà accompagnare il ricordo d’aver vissuto. Non altro, ma è già davvero molto.

ho vissuto

… Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. … (P.P.Pasolini, Corriere della Sera, 14/11/1974 Continua a leggere

del dolore

Faccio fatica a guardare la foto di una madre che abbraccia la figlia prima di essere uccisa perché ebrea.  

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Accadde innumerevoli volte e accade ancora. La contabilità dei numeri  non esprime la grandezza e l’atrocità del sentire. Così con ancora più fatica, penso e immagino, il dolore che hanno vissuto quelle persone. Un dolore che faceva preferire la morte. Quel dolore non ha insegnato nulla. E di questa morte, come di altre abbiamo testimonianza, ma di tutte quelle che sono state morti altrettanto dolorose e silenti, non resta nulla.

Può insegnare qualcosa il dolore? Intendo dire, ai popoli, ai governanti, alle persone comuni?

Può mutare una decisione, un gesto a qualcuno che non sia chi ha vissuto il dolore?

E se il dolore è solo un fatto personale, cosa resta di esso?