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Alcuni di noi, io, abbiamo una Patria, un paese che amiamo, una cultura comune. Sappiamo cose, magari non tutte così precise, e non tutti le stesse. Ci formiamo idee, un’ analisi della realtà, soluzioni. Di sicuro non abbiamo, da molto tempo, verità assolute e il relativo ci sembra un buon modo per accogliere la differenza e il ragionamento contrario, ma pretendiamo rispetto. Per noi e per chiunque. E nel rispetto sono comprese le regole che devono valere per tutti, la verità dei comportamenti. Per questo e per altro, non ci piacciono i furbi, quelli che cercano di fregarti, neppure gli arroganti ci piacciono perché usano la forza per imporre verità non vere. Non ci piacciono gli irresponsabili che dicono cose che non faranno, oppure fanno guai e li attribuiscono ad altri. Non ci piace chi la racconta, chi imbonisce, chi prende in giro la speranza. Sappiamo che la colpa di ciò che accade non è sempre altrove, che un motivo per tutto non giustifica niente, e quindi facciamo autocritica. Spesso. L’onestà ci sembra una precondizione in ogni rapporto, e non è un fine. Bisogna essere onesti, anche con se stessi. Vediamo i nostri limiti, sappiamo che sono importanti, però abbiamo sogni grandi e piccoli, vecchi e nuovi. Sappiamo che il mondo è complesso, che bisogna semplificare le cose per star meglio, ma nessuno di noi banalizza la realtà e sappiamo che semplificare è difficile e non lo si fa a colpi di slogan e tanto meno con l’accetta. Pensiamo che c’è un primato del capire e dell’intelligenza nel fare, e che quest’ultimo ha bisogno almeno di essere pensato. Siamo stanchi degli annunci, vogliamo partecipare e l’abbiamo sempre fatto. Oggi siamo coscienti che il problema prioritario è la corruzione e il malaffare, la legalità e il rispetto delle regole e pensiamo che il marcio vada amputato. Ovunque. Per noi le istituzioni non sono immutabili, ma sono il nostro patrimonio e baluardo democratico comune e quindi pensiamo si debba agire partendo dal rispetto del futuro e del presente nel modificarle.

Abbiamo un Paese che amiamo, una cultura, volontà comuni, ma non abbiamo più una parte sociale e politica. Temiamo di non avere più un partito in cui riconoscerci e pur essendo tanti, ci sentiamo soli.

chissà cosa mi piace

Solo il politically correct americano ha potuto inventare una dichiarazione di amicizia facile –e l’amicizia vera è ardua non facile- e il mi piace che può essere tolto dal contesto di un giudizio etico, limitandolo al ghiribizzo, o all’ estetica, o anche alla sola emersione momentanea dalla noia. E’ un modo ipocrita di far emergere le parti peggiori dell’individuo, senza pagare dazio, togliendole a qualsiasi riflessione. Così emergono i mi piace per sventure, tristezze, sfighe e porcherie varie, dove il mi piace forse vuol dire ti sono vicino, ma può significare anche molto altro: sei la realtà, è accaduto a te, posso guardare cosa si prova e non essere nella tua condizione. Tutto ben diverso dal con-patire, dal vivere assieme il dolore oppure la gioia, dal partecipare profondamente dell’altro, in questo caso sì amico. La rete, il virtuale, tolgono freni ed educazione alla riservatezza nel condividere. Tutto negativo? No, ma è un palliativo perché finiti gli aggettivi e contati i followers, la solitudine riemerge piena. Parlavo di ipocrisia perché non esistono i bottoni dei sentimenti forti, non c’è il ti amo, né il ti odio o il ti detesto, per questi sentimenti vengono lasciati lo spazio dei commenti dove potranno essere sfumati o meno. Quello che mi colpisce è la carica di aggressività che comunque esiste in questa società 2.0 , la trasposizione sul virtuale dei meccanismi azione/reazione che fanno così tanta parte della società economica e lo scivolamento di essi nella sfera emotiva è pieno e forse addirittura più forte, mancando il controllo sociale. Non è una novità, e neppure è nuovo che esso diventi fenomeno di massa, in tre anni Hitler mutò un paese che aveva una cultura imponente, classica, musicale, filosofica, che amava il greco e il bello, che aveva prodotto le principali invenzioni di fine ‘800, in un popolo che era disponibile a qualsiasi cosa, compreso perdere la vita per un concetto di superiorità che non c’era in nessuno dei parametri prima osannati come parte della propria cultura. Per questo non mi stupisco, ma mi preoccupo che non ci sia un argine, che al più si veli di ipocrisia l’emergere del superficiale come schema di pensiero, che non si analizzi e non si vedano le ragioni. Potrei consolarmi meditando sulla sublime inconsistenza del mi piace, del perché esso generi dipendenza. Magari ricordare che in una mostra d’arte raramente dopo tre bello, due bellissimo, un meraviglioso e un unico, resta ancora qualcosa da dire e si resta vuoti e ci sono ancora quadri da vedere, con l’annessa angoscia del mi piace reale. Quindi l’aggettivo è di per sé fallace e restrittivo, ma mi rattrista che in fondo si cannibalizzi il sentire e lo si trasformi in qualcosa che serve a sé, mentre l’altro ha l’illusione dell’essere al centro di una attenzione che in realtà è talmente labile da non avere consistenza. In fondo questa è la dimostrazione che il male della modernità è la solitudine e il disamore, ma parlar di questo non porterebbe molti mi piace.

solo posti in piedi

L’uomo ha fatto fatica a tirarsi in piedi. La sua schiena glielo ricorda per tutta la vita. Ma anche la posizione seduta, di riposo, non è così naturale, le sedie seguono più principi estetici che la fisiologia. E qui finiscono le considerazioni generali. Un tempo il cartello solo posti in piedi indicava un disagio, una minore fruizione di ciò che veniva proposto riservato agli ultimi o ai meno abbienti. Credo che per questo abbiano inventato lo sgabello ovvero un modo per stare in piedi appoggiando la coda. Ma il pensiero non nasce dalla stanca e alcoolica osservazione dei propri vicini appoggiati al bancone del bar, ma dalla notizia che una nuova tendenza dell’organizzazione aziendale magnifica gli effetti produttivi del lavorare in piedi. Se è per questo bastava che ci si guardasse attorno e si sarebbe visto che una gran quantità di persone si siede di rado, ma la grande “intuizione” consiste nel far lavorare in piedi gli impiegati, che non sarebbero proprio in piedi ma sorretti da una gruccia su cui appoggiare i glutei. Se magari gli si racconta che questo rassoda la parte forse ci saranno schiere immediate di adepti. Però sorge una domanda: se ci sarà un aumento di produzione a fronte di un disagio, non appoggiare mai la schiena non è proprio il migliore dei modi per lavorare 8 ore, chi si terrà il beneficio? Ecco una risposta a questa domanda ci riporta all’inizio di queste considerazioni: i primati si sono rizzati sulle zampe posteriori per correre meglio, per raggiungere la frutta sui rami bassi senza fare salti, per spostarsi vedendo cosa c’era sopra le erbe della savana, quindi hanno perseguito un utile. Allora la domanda diventa: se cambio postura che utile ne ho?

espunti dalla realtà

Nessuna prima pagina dei giornali su carta parla dello sciopero di domani. E’ significativo, la stampa si conforma ad una idea per cui chi protesta è marginale. Il fatto che vi sia un declassamento delle idee a favore dei personalismi, delle banalità momentanee è un processo che dura da tempo, prima sui talk show, ora ovunque. Anche l’antipolitica viene derubricata a fatto accessorio, serve anch’essa ad una maggioranza fatta di pochi che raccontano un paese diverso da quello che esiste.

I lavoratori, i pensionati, non fanno notizia, espunti dalla realtà, assieme alla crisi strutturale. Scompare l’aggettivo epocale quando servirebbe davvero e la crisi viene trattata come problema transitorio. Del resto sono scomparsi anche i suicidi di imprenditori. Le morti strane e poco spiegabili diventano trafiletti di interruzioni di servizi: una persona è caduta sotto un treno, due ore di fermo della linea ferroviaria.  Non basta più una storia, un morto, serve qualcosa che superi l’indifferenza. La crisi silente, i disoccupati atomizzati in migliaia di piccoli fallimenti e ristrutturazioni aziendali, sono un elemento di sistema e ciò la dice lunga sull’utilità di una informazione che sta diventando conformazione. Embedded.

Solo il caso, lo scontro fisico fa notizia ormai, questo sindacato ha stufato, si sente ripetere e Renzi l’ha capito subito. Ma di quale realtà si sta occupando chi per mestiere dovrebbe riferire ciò che accade? Va bene così? Chi riguarda la crisi, come se ne esce, quali alternative ci sono?

Domani chi sciopera ha una realtà diversa di quella di cui si parla, anche così il popolo si divide, anche così il potere diventa nemico, e invece avremmo bisogno tutti di unità, non di conformazione, di obbiettivi condivisi non di prove muscolari, ma non se parla e chi sciopera non si sente ascoltato. Il danno diventa anch’esso strutturale.

l’illegalità fa male: digli di smettere

Accendo mezzo sigaro, sono in un bar, quasi immediatamente mi chiedono di spegnere o di uscire. Ho attorno la riprovazione generale. Anche dei fumatori. Spesso mi accade anche fuori di sentire commenti infastiditi sul fumo.

Salgo in autobus, è pieno, faccio fatica ad arrivare a timbrare il biglietto. Ad ogni fermata salgono e scendono persone, pochissimi timbrano, tutti abbonati? Nessuno protesta o chiede ragione. Arriviamo in stazione, tutti scendono, tutti liberi. Farla franca sembra dia una soddisfazione particolare.

Quindici giorni fa un amico dirigente mi parlava del seminario, che ha tenuto la sua azienda, sulle nuove regole sugli appalti della pubblica amministrazione. Dovevano capire cosa c’era di nuovo e allora hanno chiamato avvocati, dirigenti pubblici (quelli che scriveranno i nuovi appalti), commercialisti. Alla fine la conclusione è che la procedura non è più difficile, neppure più trasparente, solo si sono moltiplicati i decisori, e quindi ci saranno problemi, che nel migliore dei casi saranno burocratici. Però tutto si affronta e il lavoro è lavoro. Ci sono centinaia di persone che lavorano e che devono essere pagate ogni mese, si capiranno le regole e si cercherà di vincere le gare. Guadagnandoci, naturalmente.

Siamo al bar, parliamo di Roma, tutti sono schifati, tre mesi fa parlavamo di Expo e Milano, poi due mesi fa di Mose e Venezia. Vedo sorrisi di compatimento per il mio accalorarmi, dicono che è così ovunque, hanno preso quelli facili, quelli impudenti. E’ uno scandalo che serve a qualcuno, poi tutto si quieterà, è il sistema che è marcio. Ma io dove sono in questo sistema? Se pago in nero un lavoro, se l’amico del bar mi fa uno scontrino a volte sì e a volte no, se faccio un favore per avere un mio diritto, se chiedo una raccomandazione nessuno si indigna. Se corrompo per avere un lavoro o evitare una ispezione e dico che è per non chiudere l’azienda, allora molti giustificano. Però quando prendono un corrotto tutti si indignano, e i corruttori? Perché non hanno altrettanta riprovazione di quando mi sono acceso il sigaro nel bar ? Se nessuno fuma al cinema o al ristorante, significa che il controllo sociale funziona benissimo. E allora quando si dice che siamo tutti onesti significa che non rubiamo cose, ma pure che gran parte di noi si gira dall’altra parte se vediamo farlo. Certo c’è il problema del rapporto cittadino istituzione, se si denuncia qualcosa la parte istituzionale ha proprie regole e abitudini, non interviene secondo i tempi con cui si attende che le cose vengano affrontate, le pene sono ridicole, lo Stato è inutilmente inquisitorio con i piccoli, e non con chi trova la strada per passare attraverso le regole. Ma pur senza sanzioni applicate non si fuma nei luoghi chiusi e quindi significa che una strada c’è per far rispettare la legalità senza troppi interventi. Dipende da noi, non votare più un disonesto, non prendere prodotti di una azienda che corrompe è un deterrente più forte della legge. Dipende anche da noi.

p.s. Le grandi aziende di software e i governi, assumono gli hacker per capire da chi li viola, le debolezze dei sistemi informatici e renderli più sicuri. I maggiori esperti di corruzione sono i corruttori, chi studia le norme per violarle, lo Stato dovrebbe assumerli, pagarli moltissimo e utilizzare la loro scienza per rendere forti e applicabili le leggi sugli appalti. Non lo dico io, lo dice l’OSCE. Costerebbe molto meno della corruzione e i lavori sarebbero fatti meglio.

prima notizia

Da mezzogiorno, su radio e tele giornali, la prima notizia era la trascrizione, in Campidoglio, delle nozze tra omosessuali italiani celebrate in altri Stati. La seconda notizia, che adesso è diventata prima, è quella del sinodo dei Vescovi che apre su gay e divorziati. E si spacca. Quindi oggi davvero non ci doveva essere molto di importante se si gira attorno a questioni becere e vecchie come il cucco. Per quanto mi riguarda, sono contento che i vescovi discutano, sono contento della trascrizione delle nozze, ma proporre questo piccolo angolo di novità come il più importante, è testimonianza di quanta pruderie ci sia ancora in questo Paese. E credo che anche dimostri quanto distanti siano i diritti dalla normalità. Perché di diritti si tratta, ovvero della libera scelta di due persone di amarsi e di stare assieme, e con questa unione generare diritti affettivi, assistenza, diritti patrimoniali, identità civile. Nell’amore lo stato dovrebbe occuparsi solo di tutelare la parte debole, non entrare nell’amore stesso. Ma in questo non c’è alcuna notizia, sui ritardi dello Stato nei confronti dei cittadini si può disquisire, dividersi, dissentire, concordare, ma alla fine non c’è nulla di nuovo. La novità sarebbe una legge italiana sulle nozze tra omosessuali e sulla possibilità di avere figli, adottarli, crescerli, ma questa legge non c’è e allora dov’è l’importanza di questa notizia? Credo che per essere cittadini del mondo, ma anche solo dell’Italia bisognerebbe che la stampa ci proponesse una visione diversa del Paese. E invece ci liscia il pelo, tocca le corde che fanno alzare gridolini di compiacimento o biasimo, ma sempre gridolini sono, Paese visto dal buco della serratura. Cosa c’era di davvero importante attorno oggi: cortei per il lavoro, scontri con la polizia, la Libia che sta esplodendo, Kobane che resiste e contrattacca, l’ebola, la crisi e le sue soluzioni, una manovra economica che avrà effetti, positivi e negativi, sulle vite di tutti. Sciocchezze? Non notizie? Credo che ci siamo lasciati prendere in giro per troppo tempo, che a furia di non guardare siamo diventati miopi e che questa miopia abbia bisogno di essere coltivata attraverso le non notizie. Bravo sindaco Marino, ma vorrei che la sua notizia fosse un articoletto di quarta pagina e che in chi ascolta e legge, ci fosse la coscienza che essere cittadino implica sapere dove si è, capire se le cose ci vanno bene e, nel caso che così non fosse, modificarle. Insomma farsi un’opinione del mondo. E se permettete il mondo è anche e soprattutto altro.

scorie dell’anima

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Più di dieci anni fa, pochi se ne ricorderanno, ci fu un pasticcio per la creazione di un deposito di scorie nucleari a Scanzano Jonico, in Lucania. C’era il governo Berlusconi, e ancora pochi se ne ricorderanno che Berlusconi ha governato a lungo, tanto che si vantava, che il suo era stato il governo più lungo della storia della Repubblica. Sarebbe meglio ricordarsene quando le cose non vanno bene, che comunque c’è stata una genesi, che qualcuno non ha fatto, ha tranquillizzato o rimosso. Ma questo vale per tutti, perché si rimuove molto in questo Paese. Ad esempio quand’ero ragazzo, non si riusciva a parlare di fascismo a scuola, eppure tutti, o quasi, insegnanti e bidelli erano stati fascisti o nel immersi nel fascismo fino a non molti anni prima, possibile che nessuno si ricordasse. Me ne stupivo da piccolo, ho continuato a stupirmi da grande. Divago. Tornando a Scanzano Jonico, in quell’occasione, poi sventata dalla protesta popolare, si era pensato di ficcare in una miniera abbandonata di salgemma, tutte le scorie radioattive d’Italia. Quelle passate e quelle future, perché oltre alle centrali che sono state smantellate, di scorie radioattive se ne producono in continuazione in ospedali, laboratori, industria. Quindi si risolveva un problema togliendolo da molti posti e mettendolo in un posto solo. E questo non è sbagliato in sé, ma parte da un fatto che coinvolge tutti, ovvero quando si fa qualcosa non si pensa alle conseguenze, tanto poi qualcuno risolverà. Come dicevo, alla fine non se ne fece nulla, ma sarebbe istruttivo ricordare chi era il sindaco del comune, chi il presidente della Regione, chi il ministro, chi il generale che fu incaricato di preparare il terreno, quale impresa doveva agire, ecc. ecc. e anche il problema sarebbe istruttivo chiedersi che fine ha fatto. Ma come per Report e Presa diretta, queste sensibilità, durano poco. 

Sono partito da questo ricordo per collegarmi ad altro, in fondo quelle scorie che abbiamo rimosso dall’attenzione e non risolto, assieme a tantissimi veleni sono rimaste nelle nostre anime e hanno generato il relativo in cui ci dibattiamo. Certo, Calvino non si peritò di venire in Italia per predicare il rigore delle anime, restò in Svizzera forse perché pensò che era una battaglia persa, oppure, considerato il passato e il presente, già allora capì che i veleni erano ormai nel corpo italico e il mitridatismo impediva all’organismo di soccombere, ma c’era una propensione ad assuefarsi più che a depurarsi. Sembra un ragionamento moralistico, non sia mai, penso invece che tanti anni di preti, incenso, e digestioni difficili nelle sacrestie e nei confessionali non hanno scalfito (oppure hanno favorito) una doppiezza di pensiero che porta a rimuovere, mettere da parte. Si deve pur vivere, no? Sarà per questo coltivare le anime che rimetteva tutto all’aldilà che il degrado non ci impressiona più di tanto, oppure si sarà formato un cuoio dello spirito che porta a tener dentro, come ci fosse sotto la scorza, un giardino di bellezze che comunque resta nostro mentre attorno le cose cadono a pezzi.

Si dirà, c’è una crisi feroce, la gente non sa come finire il mese, il lavoro manca ai giovani come vuoi che ci si preoccupi di quello che è accaduto o sta accadendo attorno, è il particulare che trionfa, risolto questo si potrà pensare ai problemi comuni. Credo che questo modo di vedere faccia bene a chi risolve i problemi mettendoli sulle spalle di qualcuno più debole oppure occultandoli. La nostra casa è sporca e ha sporcato anche il nostro spirito, il nostro modo di vedere, di sentire. Le priorità diventano difficili da individuare se non sono comuni. Spesso si allargano le braccia, ma non per volare, piuttosto per testimoniare le terreità delle nostre capacità. Non ce la facciamo, anche quando siamo sensibili, e così è meglio rimuovere.

Oggi guardavo la fotografia di una scuola fatiscente in Puglia e leggevo della rivolta dei genitori e degli alunni, prima degli insegnanti. E cosa potevano fare gli insegnanti, come i soldati non possono scegliere il campo di battaglia, al più chiedono collaborazione alle famiglie, ma si adeguano. Come farne una colpa, non lo è e non lo può essere. Ma quelle aule cadenti e sporche, gli intonaci scrostati, i mobili sconnessi e i banchi disastrati impoveriscono anche loro. Chi riceve un messaggio guarda il messaggero, il contesto, la busta. Se tutto questo è malridotto quanto valore sarà perduto, quanta fiducia banalizzata e dispersa.

Guardo il mio tavolo ingombro, non c’è sporco, ma c’è disordine. L’ordine non è un obbligo, rimuovo e rimando, quindi capita anche a me. Prendere coscienza è fatica, ma è indispensabile quando non si sta bene nella vita. Allora penso che rimuovere è un artifizio che da insieme ci fa diventare soli, che ci pone davanti ai nostri problemi senza alcuna possibilità di affrontarli assieme. Che strano, quando abbiamo un peso eccessivo nell’anima, una pena d’amore, una modalità di vivere che ci fa soffrire, si pensa a un aiuto, a parlare con qualcuno. Magari si cerca un medico, uno psicologo, un analista, per chi ci crede, un confessore, oppure uno dei tanti “esperti santoni” che rovesciano le vite. E invece di questa casa che ci cade a pezzi attorno non parliamo con nessuno, come fosse una vergogna irrimediabile o qualcosa che non ha poi così tanta importanza. Gli estremi si ricongiungono e noi mettiamo sotto il tappeto della rimozione quello che non vogliamo vedere perché ci interpella.

Vi do una cattiva notizia, in questi anni non si è risolto nulla sulle scorie, di qualunque tipo, la monnezza è ancora nelle balle ecologiche in Campania, i cornicioni e gli intonaci delle chiese e dei monumenti continuano a cadere, anche sulle frane e sul rischio sismico si è fatto ben poco. Vi do una buona notizia, se vi guardate attorno, anche qui in rete, quelli che si interessano non mancano, continuano a spazzare anima e mondo che ci sta attorno. Non è una soluzione ancora, ma almeno qualcuno con cui parlare c’è.

reti di città e agricoltura di prossimità

La scorsa settimana, ho curato un convegno sulla possibilità di invertire la tendenza all’uso di suolo e sulla ricomposizione del rapporto tra città e campagna.

Direte: ma cosa c’importa, tanto queste cose sono fuori dalla nostra portata. E invece io penso che i consumatori hanno un grande potere in mano per determinare come vivere, ma ancor di più possono imporre come configurare il territorio che determinerà la vita nostra e dei nostri figli e nipoti. Le città sono nate come risposta alla conservazione/consumo di cibo prodotto dalla campagna. Come luogo dove conservarlo e poter sopravvivere. E le città, e le loro attività di manifattura, si sono prioritariamente indirizzate a soddisfare i bisogni di tecnologia e di trasporto che la campagna e il cibo generavano.  Ma capisco che così non convinco nessuno. Che gli orti di città, il verde verticale, sono vissuti più come bizzarrie o risposte alla crisi piuttosto che come segno che si può andare in direzione diversa rispetto al solo cemento. E sento questa distanza dalla coscienza di poter modificare il modo di vivere, non solo come fatto individuale, ma collettivo, soprattutto ora che la crisi fa accettare molto di poco accettabile. Eppure questo sarà il tema dei prossimi anni perché c’è una tendenza mondiale a costruire megalopoli immani, da cui l’Italia, per fortuna, sembra restare fuori. Pensate che in Cina si programmano città da oltre 200 milioni di abitanti, l’equivalente di tre Italie messe assieme. Ma riuscite a immaginare come avverrà la gestione di questi aggregati immensi di individui, veicoli, abitazioni, di quanto territorio dovrà essere al servizio di tante persone solo per soddisfarne i bisogni primari. Eppure anche se fuori dalla competizione ai grandi aggregati urbani, l’Italia arriva, dopo oltre vent’anni di discussioni, con un procedimento legislativo sulle città metropolitane a rendersi conto che il paese inurbato ha una struttura e una complessità diversa dall’italietta che era fatta di campagna e piccoli centri.

Quindi pur restando fuori dalle progettate megalopoli, è certo che il panorama territoriale italiano muterà. Ma quali saranno gli effetti e soprattutto le nuove possibilità che il governo delle reti di città e delle città metropolitane potranno generare per una migliore vivibilità del territorio?

Se ci saranno razionalizzazioni infrastrutturali, nuova urbanistica e nuove suddivisioni degli spazi dell’abitare e del produrre. Se i cittadini delle reti di città prenderanno coscienza del loro consumare allora si genereranno nuove abitudini a ciò che il territorio produce, si rispetteranno le stagioni e crescerà il benessere. In pratica si tornerà ad un territorio che ha smarrito la sua cultura negli ultimi 50 anni e che ha confuso la possibilità di acquisto con il benessere. Una risposta possibile e relativamente facile, che apre prospettive inedite dal punto di vista qualitativo ed economico, è l’agricoltura di prossimità, dove campagna e città tornano ad integrarsi e si esce dal paradosso che schiaccia sotto i trattori la frutta in eccedenza, che manda al macero il cibo, perché il prezzo non vale il trasporto mentre contemporaneamente cala la possibilità di acquisto. La campagna e il territorio agricolo tra le città possono essere quasi autosufficienti e sopperire ai fabbisogni di frutta, verdura, carne necessari al buon vivere, conservando tradizioni, immettendo nuovi standard salutistici, producendo energia e ottimizzando i consumi.

Quindi le città, oltre a non consumare ulteriore suolo, possono, attraverso i loro cittadini consapevoli, generare una crescita compatibile verso produzioni a km zero, che creano lavoro e cominciano ad incrementare un benessere gestito localmente. Alcune risposte a questa domanda di qualità del vivere e di crescita sono già in essere. Sono le risposte dell’auto organizzazione del consumo, i GAS, i mercati di vendita diretta dei produttori, ma questo è ancora insufficiente rispetto alla domanda che attende di essere organizzata e di diventare interlocutore di prossimità. Attraverso il consumo e la sua domanda selettiva, si apre un ambito di organizzazione nuova del vivere e del produrre, molto compatibile con l’ambiente, perché, oltre a rispettarlo, lo migliora nell’attuale uso, abbatte la produzione di CO2 da trasporto, sviluppa nuove specie vegetali e conserva le culture del produrre, con una redditività e sviluppo nell’agricoltura di prossimità, difficile con l’uso estensivo e indifferenziato delle coltivazioni.

EXPO 2015 vuole dare una risposta al bisogno di alimentazione del mondo, e comunque essa sia, l’agricoltura di prossimità ne interpreta il lato più ecologico e più vicino al consumatore, fornendo una risposta economica e culturale di assoluto interesse per l’Italia, ma anche per altri Paesi dove la sovranità alimentare non è un’opzione ma una necessità. 

Tutto questo si potrà fare? Dipende da noi, da quanto queste possibilità diventeranno consapevolezza prima e domanda poi. Mangiare le fragole e le ciliege a natale è una curiosità, ma se noi conoscessimo il percorso di quel cibo, se avessimo coscienza delle relazioni tra allergie e conservanti, forse si preferirebbero le arance. L’anno prossimo sarà l’expo di Milano a portare il tema del mangiare a sufficienza e con una nuova coscienza, al centro dell’informazione, ma chiusa l’expo torneremo alle abitudini facili del tutto, tutto l’anno? Se così fosse avremmo sprecato un’occasione di libertà, per questo ragionare di queste cose riguarda tutti, ci dà la possibilità di mutare il mondo che ci attornia. E credetemi, anche se vi ho annoiato, provarci non è davvero poco.

non tutto è buono

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Non è tutto buono. Le strade sono ben lastricate, tortuose dove il medioevo ha soppiantato l’impianto romano, i palazzi hanno finestre fitte e alte. Come vi fosse bisogno di luce, in realtà mostrano sfavillanti lampadari, schienali di poltrone e sofà firmati, angoli di colore che sfuggono da doppie tende leggere. Far vedere, vedere e non essere visti. Qui i garage si inabissano quel tanto che la sovraintendenza ha permesso. Qualcuno ha restituito, stizzito, steli romane a decine, le ossa s’erano ormai sciolte. Dormiva su un cimitero e finché non ha scavato per mettere l’auto nella pancia della casa, non lo sapeva. Ha speso un patrimonio, ma aveva qualcosa da raccontare. Un problema della ricchezza è avere qualcosa da raccontare che attragga e resti, che porti fuori dall’ostentazione. E questo è maggiore se le fortune sono davvero tali perché c’è un che di melmoso nel denaro che produce denaro, un sudato che s’appiccica agli abiti, che trasuda dal luccicore delle carrozzerie, che parla filippino o moldavo per bocca di ignari, vestiti di giacche in rigatino rosso nero o in abitini mezzo polpaccio, attillati e neri. S’accomodi, la signora o il signore arrivano subito. Si accavallano le gambe, si prende in mano una rivista esclusiva d’arredo o d’orologi e si guardano i dorsi dei volumi allineati, gli intellettuali mostrano Einaudi e Adelphi, i bibliofili e i millantatori il marocchino impresso in oro. Un pianoforte s’intravvede nella stanza a fianco. Chissà perché lo slancio d’una borghesia ricca di possibilità si è poi ritratto di fronte al cambiamento. Cavalcare la tigre, non è questione di censo ma di coraggio. Nella città un animale divora gli interni e restaura le facciate. Il libro d’oro di chi conta è sempre aperto e pieno di lamenti. E pensare che i facoltosi officianti della ricchezza rintanati negli studi di libere professioni sono ancora considerati servant, pur essendo loro i veri rivali dei committenti in ricchezza. Nelle città borghesi di pianura il denaro oscilla nelle fasce più basse dei parvenu, in alto è una costante che al più si dissipa. I nomi dei palazzi lo testimoniano, doppi nomi spesso, quello del proprietario attuale e quello originale, l’architetto si perde nei rifacimenti, resta l’epoca, non di rado retro datata come facevano le schiatte nobili, su su fino a Roma e alle gens perché andava bene essere stati pecorai, ma di genio e nel posto giusto. Qui anche nelle case che furono dei poveri ci sono mattoni romani, pezzi di marmo, rocchi di colonne annegate tra intonaci e tracce d’affresco.Tutto antico? Più o meno, si recuperava tutto, dalle rovine e non molti anni fa, dai bombardamenti. Andando a scuola, facevo la prima elementare, una mattina d’inverno vidi che davanti alla latteria c’era un grosso buco e sotto, tre o quattro metri, un mosaico. A me pareva identico a quello sotto il portico del palazzo nuovo vicino a casa. Adesso è al museo,  grandissimo e ricco di volute di code d’uccello, grottesche, sprazzi di antico rosso e d’azzurro. Li sotto c’è l’intera villa, ne hanno tratto il possibile, ma era una piccolissima parte, forse un boudoir o un camera, il resto dorme sotto le case. Per fortuna.
Aria bassa, alito di pianura, non tutto è buono. Dopo aver dormito per secoli si è entrati nel rifacimento ( che alcuni, i più, hanno interpretato come rinascimento) ma la cultura vivacchia tra i blasoni dell’università gloriosa, i master all’estero, non c’è nessun premio nobel che allieti una storia, un’epoca, un sapere. Il denaro antico dura sepolto nelle abitudini, in cento anni le famiglie che contano davvero sono ancora le stesse, bisognerebbe seguire i dna per capire che, oltre i fallimenti e le rovine, si trasmettono geni e ricchezza in ambiti ristretti. C’è sole, suoni inediti eppure le finestre, sempre aperte, non si aprono al nuovo, al più plaudono al potente di turno. Qualche ritratto nuovo arriva nei salotti, ma le ville in montagna e al mare che restano sempre più chiuse. I giovani hanno altre abitudini, si muovono molto, i parvenu si adeguano al vecchio e se rappresentavano il nuovo, la rabbia, la voglia, ne hanno perso memoria. Non tutto è buono, c’è poca aria, digestioni lunghe e malmestosità.  Si vive di più in mezzo alle piazze. Troppi ricordi e poca storia, è un vizio del denaro che fa denaro, non pensa in grande e chiude forzieri. I caveau delle banche custodiscono collezioni uniche e preziose, ma da troppo tempo nessuno regala più nulla al museo o all’università, è questa micragnosità che impedisce la gloria, la grandezza, il nuovo che sarebbe possibile.
Non tutto è buono e anche se lo conosco ogni volta me ne stupisco.

rumori alle porte

Notizie gravi si susseguono dal mondo. Basta leggere i giornali, sfogliare Internazionale, seguire i notiziari per capire che ci sono rumori alle porte di casa. E crescono le pressioni emotive che mescolano difficoltà quotidiane, la crisi economica, i giovani senza certezze, le crescenti debolezze dei già deboli, con le notizie inquietanti e terribili dal mondo sempre più vicino. Ucraina, Iraq, Siria, Libia, Israele, l’epidemia di ebola. Insomma un quadro dove prevale il fosco, e il pittore sembra non avere colori chiari e non sa raddrizzare la situazione. Il binomio economia/democrazia, astutamente usato per mascherare la crescente diseguaglianza negli stati democratici, si rivela imbelle e inetto sulla difesa dei principi all’esterno. Se morire per Danzica era un azzardo idealista ora non lo si considera neppure perché sarebbe negativo nei sondaggio di popolarità e si toglie comunque la possibilità che ci sia un governo positivo per il mondo. Nel governo della medietà, delle parole alla pancia, le cose andranno come devono andare. L’occidente rinuncia e sceglie che al più si salvino scambi ed economia.

Obama è stato una delusione, ma forse caricare la speranza su un solo uomo è sempre sbagliato, in piccolo accade anche da noi con Renzi, ciò che può fare la differenza è la volontà prevalente di un popolo, la presenza di forti principi comuni, l’idea di un mondo possibile e diverso. Poiché questi latitano e le bandiere restano nel fango, emerge il fatalismo e la sensazione di impotenza. Solo i giovani ci possono spingere in avanti, ma non si avvertono segnali forti su quel versante di età. Basta una osservazione per capire come funziona il mondo della real politik: negli impianti petroliferi dove sventola la bandiera nera dell’isis, non si è fermata la produzione (lo stesso accade in Libia) e quel petrolio viene acquistato e pagato in contanti da mercanti occidentali. Finirà nelle nostre auto immemori. E il denaro pagato servirà a comprare armi, sempre in occidente, che serviranno per altri eccidi, di cui ci si scandalizzerà, e per altre conquiste da riconquistare: La malattia viene eccitata e resa più virulenta dal corpo malato. Alla faccia degli embarghi e delle sanzioni, che quelle riguardano i produttori di frutta e verdura, di prosciutti e di formaggi, manovalanza dell’economia.

Segui il denaro e troverai le sue ragioni vere e il marcio, ma davvero interessa farlo oppure è tutta una finzione e di questi buoni sentimenti e principi al più portiamo qualche piccolo dolore d’assenza? Qualcuno dirà che tutto questo realismo evita guai peggiori, ma è un occultare la verità e il non dire che ciò che è giusto è evidente e riguarda il rispetto dell’uomo. Solo che economia e denaro l’uomo non lo rispettano affatto al più se ne servono.