Un paese senza vergogna. Lo fu a guerra voluta e perduta, lo fu nell’applaudire le leggi liberticide, poi nelle leggi razziali. Lo fu ridendo delle censure e applaudendo il potente locale o supremo. Lo fu quando sparivano gli amici e i conoscenti e veniva negata amicizia e conoscenza. La lotta partigiana, il no di Cefalonia e della divisione Acqui, le divisioni che combatterono accanto agli inglesi e americani per rifare l’Italia, furono il sussulto dell’onore, la riconquista delle libertà di pensiero prima che di azione. Poi pian piano è tornato il paese sonnolento, connivente e normale. Non è un giudizio morale ma la percezione che la società italiana abbia nuovamente dismesso degli argini, tolto delle virtù civili e sostituite con quello che esisteva anche prima, ovvero l’essere sempre con chi vince, glorificare il furbo, portare col sorriso il sottile disprezzo delle regole comuni. Questo ha prodotto la classe politica che ci governa adesso ed è coerente con il fascismo perbenista del me ne frego, ma anche quella di prima, pian piano annegata nella retorica e nei riti senza religione, ha dato una grande mano a disilludere sul cambiamento e a far impallidire il ricordo delle libertà riconquistato a prezzo altissimo di morte e devastazione. I partigiani, gli ideali che mossero un lampo tale da stupire le coscienze dell’abbrutimento vissuto per 23 anni, meritavano di più e di meglio. Quando leggo i sondaggi che danno la destra al 40% e fdi oltre il 28%, magari nelle regioni che governano da anni e dove i servizi sono precari, la sanità solo per chi paga, il lavoro una chimera, mi chiedo come si sia creata questa morta gora delle coscienze e dove sia la vergogna di chi è stato vilipeso ripetutamente in questi anni, dove sia la dignità di chi cerca il consenso in chi lo considera ancora cittadino di seconda serie. Un suddito. Si potrà dire che negli anni, dopo la ricostruzione, con il benessere non si è fatto meglio, che la politica è stata potere, come durante il fascismo, solo che c’era la libertà, ma non è stata che per poco, servizio. Eppure li ho conosciuti, io stesso sono stato parte di quella diversità che voleva cambiare il mondo e cominciava dalla strada in cui si abitava. Quindi c’era una alternativa, c’è. E l’orgoglio, la dignità, la lotta per la giustizia sociale per sé e per gli altri, c’era. Credo che non pochi abbiano ancora dentro questa indignazione che è rifiuto dell’esistente, anche se sembra che il futuro non conti e che sia questa l’era dei furbi e del solo presente. Ma se i voltagabbana sono una realtà, nelle famiglie un tempo si insegnava l’onore, si rispettavano le persone, si pagavano i debiti perché era un disonore non onorarli. Si teneva al proprio buon nome che nasceva dalle scelte e dalla coerenza.. L’ospitalità era un modo per sancire la propria presenza sociale, il potere di dare misura di sé. Era tutto sbagliato? Ora i ministri si fanno vanto di non onorare leggi dello stato, di conservarsi nel potere con indagini per bancarotta e truffa in corso. E magari crescono nei consensi. Per questo penso che si siano abbattuti gli argini e la vergogna dilaghi senza essere sentita come tale, non più considerata una consapevolezza che abbassa lo sguardo e arrossa il viso. Mi ostino a credere in chi ha dato la vita, è stato torturato e non ha parlato, in chi ha costruito dalle macerie un paese e non solo per sé. Mi ostino a credere nella pace, nella libertà, nel cambiamento dell’economia verso la giustizia sociale, nel mutare delle abitudini verso il rispetto della natura e del pianeta. Mi ostino a credere che esista un futuro migliore per tutti e che sia nato in chi vide la tenebra del fascismo squarciarsi, rivelando la menzogna, la violenza, la sopraffazione perpetrata a un intero paese. Mi ostino e credo che resistere difendendo i valori del 25 aprile sia creare il nuovo, il buono, il giusto per tutti.
In questa notte che spinge sui vetri, che volteggia e danza col vento. In questo silenzio di parole gonfie di buio, di sogni interrotti, di piccole luci accese su comodini carichi di libri, parlami d’amore mariù. Parla con le parole umide di te, con l’accento che ti piace, con le sintassi frenate, gli aggettivi arditi, i silenzi eloquenti.
Parlami della mia vita, incagliata tra scogli, che attende la marea, del tuo orizzonte che mi cerca, del tuo navigare insicuro e fidente. Parlami del mare e del salso che bagna i capelli, dell’odore forte dell’estate quando s’appiccica alla pelle. Parlami dei salti temporali, delle primavere passate, degli scrosci d’acqua costellati di risate, del piacere d’allungare il corpo nel letto avvolti nei sogni sognati.
Sosta un poco presso il mio cuore e perdona ogni striscio sul vetro, la tazzina versata, le parole consumate in cerca di significato. E perdona quel dire sconclusionato che gridava alla luce d’ essere presente, lì in quel momento, tra noi.
Ancora parlami d’amore mariù e poi fammi dire delle nuvole bianche che non vedo nel cielo. E sorridi, come sai fare tu, senza un motivo apparente, perché la realtà non è mai come appare, eppure l’abbiamo dentro, mariù, anche se non coincide mai con le ore. Sempre in ritardo sul tempo e sempre in anticipo nell’attesa. Parlami sempre d’amore mariù, e tieni stretto ogni pensiero che non dico. Leggimi a fondo e poi raccontami, che mi piace sentire la tua voce che spiega nella notte. Che dice e poi si ferma, che s’assopisce parlando con i sogni, e poi si gira, s’avvolge e si sveglia e mi guarda.
Parlami sempre del tuo amore mariù, con la voce bassa che risuona nelle giornate che attendono, nelle sere che verranno, nei sogni che stentano, eppure si fan largo, aspettando d’essere capiti.
Se ti viene, usa con me l’entusiasmo della pazienza che capisce, prendimi d’assedio con le braccia, estrai il dolore dell’assenza dalle parole. E dai silenzi, soprattutto.
E col tuo sorriso dammi dimensione delle cose. Io ricambierò come so, come imparo, come viene, mariù.
“Il libro che gli serviva aveva cento capitoli, uno per anno – era la storia del ventunesimo secolo. … Un’occhiata all’indice poteva forse bastargli. Saremmo riusciti a dirottare la catastrofe del riscaldamento globale? La trama della storia prevedeva il verificarsi di un conflitto sino-americano? L’ondata di nazionalismi razzisti nel mondo avrebbe ceduto il passo a qualcosa di più generoso, di più costruttivo? Era possibile invertire l’andamento crescente del numero di specie in via di estinzione? La società aperta avrebbe trovato modi nuovi e più giusti per trionfare? L’intelligenza artificiale ci avrebbe resi saggi, folli o irrilevanti? Ce l’avremmo fatta a far passare il secolo senza scambio di testate nucleari? Per come la vedeva lui, anche solo uscire vivi dalla fine del ventunesimo secolo, dalla fine del libro, sarebbe stato un enorme successo.”
Ian Mc Ewan – Lezioni -Einaudi 2023
Fuori, il cielo dall’azzurro glaciale del primo mattino era diventato grigio, come rattrappito dal freddo, poi con il sole pieno, senza dar nell’occhio, s’era stirato in un nuovo azzurro. Un gatto al risveglio.
Guardava gli uccelli becchettare tra l’erba, indeciso su ciò che fosse utile adesso. L’ansia, che poi era irrequietezza e incapacità di afferrare una tranquilla visione del tempo, dell’importanza delle cose e del loro attendere nel compiersi, si era sciolta nella lettura delle ultime pagine del libro. Un finale positivo aiuta l’umore, si disse, riordina le cose e la loro importanza.
Vedere la propria dimensione e avere pensieri più grandi, metteva energia, scartava la visione delle difficoltà e induceva a tentare.
Siamo idee, immagini, desideri, che si portano davanti alla grandezza di un orizzonte che è già infinito anche se lo nasconde. Pensò a quando in montagna la cima sembrava lontanissima e invece non solo la si sarebbe raggiunta, ma il ritorno, ebbri di stanchezza sarebbe avvenuto nella luce calda del pomeriggio che entrava nella sera.
Così al limite dell’acqua, preso dall’orlo dell’onda e dal suo divagare, alzare lo sguardo era perdersi e insieme trovare una diversa dimensione raccolta. Il calore diventava brezza, profumo d’erbe alle spalle e odore di salso davanti. I gesti dei pescatori vicino alle barche erano la dimensione di un tempo che si ripeteva e l’osteria del paese era il luogo dove rompere i silenzi protratti nel lungo dialogare interiore.
Una dimensione al limite e l’estrarre dall’infinito quotidiano accadere, l’essenza di ciò che era importante a sé e agli altri, con quella scala dei valori che costringeva la mente a ricordare il dove e il dito a percorrere l’atlante. Poteva sbattere le ali una farfalla in Tasmania e nel bicchiere di vino, ancora a mezzo, vedere i suoi cerchi muoversi. Oppure era il tuono che rotolava giù dal cielo e costringeva a rapide ricerche di riparo, a crearli, ma qualunque cosa fosse, c’era una gerarchia d’importanza nelle vite dove il desiderato dialogava con la necessità e l’accadere era insieme caso e spinta di volontà. In tutto questo essere oggetto e parte c’erano grandi spazi di libertà da riempire d’affetto, d’amore, d’impegno e di quieto essere in pace con sé. Per il nuovo che veniva e dal passato che mutava, confondendo entrambi la mente e l’agire ben oltre l’accadere.
Siamo memoria nel presente, pensò, e intuizione di ciò che ci riguarderà: una tavola in cui inscrivere lettere e colori che rimandavano ad altro e pian piano trovavano quiete e posto.
Gli uomini di pianura hanno le gambe snelle e forti di chi cammina a lungo, le scarpe sempre impolverate, un cappello per il sole e un berretto per le nebbie di novembre. Hanno la testa che pensa altrove, l’odorato che sente il salso della marina mentre gli occhi vedono i monti appena oltre le città. Risalgono i fiumi in barche dal fondo piatto, remano in piedi tra odore di fango e canne, si fermano a guardare i salti dei pesci che pescano dall’aria gli insetti. Conoscono osterie dove si approda e che fanno zuppe forti, di verza e di maiale, sanno gli uomini di pianura, dove tacere se si gioca a carte e alzare il vino quando un pugno sul tavolo protesta.. Sanno il fresco dell’alluminio delle sedie allineate in piazza, l’odore del cotone delle tende dove riposa l’ombra, l’orologio dei tacchi di chi è attesa. Offrono un chinotto, un pevarin, un fiordilatte ai bambini, mentre per loro c’è il musetto caldo e i fagioli cotti nel coccio. Risalgono le pianure e ritornano, stanno nelle città come i principi a palazzo, si stupiscono di ciò che al ricordo dello sguardo manca, inseguono un pensiero che li era accasato. Tornano sempre negli stessi posti, conoscono le pietre, i visi, il mutare delle stagioni nelle luci. Sanno l’ora della sera, la lunghezza delle notti insonni, il richiamo dei rapaci sopra il campanile. Amano i vicoli di notte, i campi a maggio oltre la periferia, l’acerbo verde delle vigne a giugno. In bicicletta vanno verso i campi dove gli Iris, le giunchiglie e i fiordalisi fuggiti dai giardini occupano i fossi, si fermano su vecchi muri, le schiene appoggiate al cotto che s’arroventa al sole, calano sugli occhi il cappello e guardano il lavoro ordinato delle formiche. Non amano le auto incolonnate, l’aria satura di azoto, l’asfalto che scalda i piedi. Aspettano l’inverno quando si sentono da distante i fumi che l’aria suddivide tra legna e stoppie nei camini. Sanno che i contadini adesso serrano le porte, come in città e che conoscono il sudore della paura, per questo sono cauti e rispettosi. Camminano, pensano, si fermano per una parola e se ne vanno inquieti, cercando la misura dell’ombra d’estate, lo spessore del ghiaccio a gennaio. Hanno grossi pastrani, baveri alti per tenere in petto il calore del respiro, seguono la ferrovia, la strada, il fosso e si meravigliano che così tanta pietra, mattoni e anni, si siano accumulati nelle città togliendo gli alberi dai giardini, tombinando fiumi, spianando le piccole salite dove c’era il ricordo di rovine antiche. Gli uomini di pianura amano con l’allegria triste di chi non sa stare al suo posto e sognano un sogno che sia nuovo, mai prima frequentato. La sera accendono le luci necessarie, vanno alla finestra, guardano tetti e dentro altre finestre. Vedono muovere corpi, bocche che dicono qualcosa che non prosegue, poi le luci si spengono e c’è una luce azzurra che non si ferma e fa star zitti. Ogni tanto una ragazza, o un uomo, d’estate in canottiera, vengono nella piccola terrazza o al balcone e con un gesto pieno d’abitudine e di grazia, accendono una sigaretta. Si vede la brace che rosseggia, il fumo che si spande e guardano il cielo o attorno, immersi nei pensieri.
I biscotti, “zaeti” , stanno cuocendo. C’è un buon profumo in casa che si mescola con quello della farina che cuoce tra mandorle e uvetta. Scrivo nella mente cose mai prima d’ora comprese, leggo chi sa scrivere stupendo e penso. E ascolto Tschaikowsky, il primo concerto per pianoforte.
Ho pensato spesso all’amore, agli amori e all’attrazione in questo periodo, come a componenti dello stesso processo. Le letture, i ricordi, portano nei particolari, mostrano ciò che si è generato e ancor meglio, ciò che ha incrinato o mutato il sentire. Perché sembra che tutto si riconduce a noi, alle nostre volontà, ma i barlumi del possibile, l’addensarsi dell’accadere si annidano lontano, poi a fatti avvenuti, subentrano altre virtù: la passione, l’attesa, la pazienza, la giusta misura, il silenzio, la verità e chissà quant’altro che sia noi e solo noi.
Ho pensato anche a quanto si frappongono società, religione, usi, timori e ruoli tra gli uomini, che rendono disgraziate le vite anche di chi poteva essere felice. Un’amica cara è immersa da anni in problemi enormi che inutilmente la consumano nella sua bellezza, per un matrimonio fallito, basterebbe la realtà e invece funzionano rancori e tribunali.
Come se per due persone che si amano fosse lo stato civile a fare da barriera.
Ho pensato anche a un criterio, che è un priori, ovvero il piacersi reciprocamente, cosa che aiuta non poco a scambiare sentimenti e verità ed è stranamente questo che viene dato per scontato nella vita sociale, mentre è un farsi non sempre semplice ed è proprio esso l’anticamera dell’attrazione. Piacersi ossia provare piacere dell’altro è condizione rara. E questo viene negato dall’ educazione che sottolinea il diverso, che mette dubbi dove non ci sono e porta le cattive esperienze come fossero verità.
L’amore è semplice, potente, unitario e desideroso di piacere, in tutti i sensi, partire da ciò che è significa aprire un mondo che prima non c’era e non sarà mai uguale, mai lo stesso per sempre e quindi mutevole, solo la verità gli rende onore, il resto è indebito possesso.
Penso che la fragilità interiore, ed esteriore, aumenti. Che si copra, a volte, di aggressività, mentre in altre occasioni sia infermità che piega l’anima in sé e le impedisce di volare, di sorridere, anzi le fa sentire il peso di un mondo che s’abbuia. Penso che tutto questo avvenga senza comunicare e che a cresca la solitudine, la difficoltà di avere una comunicazione profonda. Forse non è così ma è la sensazione che leggo nella violenza insita nelle immagini, apparentemente innocenti, nelle parole che vengono ritrattate o relativizzate e poi ripetute sino a non distinguere più la realtà. Non la verità che è un processo che si svela ma la realtà, ossia ciò che percepiscono i nostri sensi e la nostra mente interpreta. Nel digerire ogni cosa aumenta la fragilità e la violenza e non c’è bisogno di repressione ma di condivisione etica, di sentirsi nella stessa condizione precaria, di lottare per lo stesso cambiamento sociale. Leggevo oggi la percentuale di anidride carbonica in atmosfera, siamo a valori che superano di molto le 400 ppm, questo indica una irreversibilità progressiva del degrado ambientale che per noi sarà un dato statistico, per i nostri figli e nipoti, una realtà che renderà più fragili le esistenze. A questo si somma una tensione crescente tra i popoli indotta dalle volontà di potenza, dalla mancanza della percezione che proprio le armi rendono più necessaria la tolleranza e la comprensione della differenza. Un mondo di eguali parte dalla giustizia e dall’equita per stabilire rapporti profondi tra modi diversi di sentire. Tutto questo evidenzia l’umano prima delle idee e rende compatibili le diversità, così si può stare assieme, meno fragili, diversi, sicuri che saremo orientati ad affrontare assieme i problemi di sussistenza della specie. Il contrario di questo è violenza, sull’ambiente, sugli uomini, sulla bellezza, sui deboli, sulla crescita comune interiore ed esteriore. Siamo diventati vecchia plastica, apparenza che si decompone e si disfa alla luce, questa è la fragilità che percepisco e siamo ancora a tempo per mutare, ma non è possibile farlo senza pagare un prezzo che non tocca le esistenze, anzi le rende migliori, è la volontà di dominio che deve pagare il prezzo, l’economia di rapina, la glorificazione della diseguaglianza. In cambio c’è vita e bellezza, rispetto, futuro, questa è l’alternativa che vedo dinanzi.
Ogni giorno correvo verso i giochi, anch’essi fatti di corse, cadute, polvere e rincorse. Ogni mattina camminavo, mia Nonna mi accompagnava a scuola e d’estate dove si poteva correre. Ai giardini o nelle piazze di sera, con lei, mano nella mano potevo andare ovunque. La sua mano era bella, appena più grande della mia. Era fragile e tenace, regalava la sicurezza e ciò che mi era necessario. Con mia Nonna ho imparato a camminare, ad amare il cammino come modalità del vedere e del sentire. Molte volte all’anno il camminare assieme diventava speciale e due di queste erano consegnate alla sua religiosità, le vigilie di Natale e di Pasqua che avevano itinerari fissati e duravano l’intero pomeriggio. La vigilia di Natale si andava a vedere i presepi, la vigilia di Pasqua erano i Sepolcri i protagonisti. Mia nonna aveva abitato sempre dentro le mura cittadine, e le Chiese erano quelle storiche della città, con qualche digressione per luoghi che ho imparato ad amare con lei. Le chiese erano grandi, spesso altissime ma tutte particolarmente buie, gli altari coperti di panni violacei sembravano tolti all’esistere, solo al centro della navata o in una cappella importante, era tracciata una grande croce a terra fatta di candele e fiori. Le persone si inginocchiavano, alcuni sostavano a lungo, altri un segno di croce e qualcosa mormorato a fior di labbra. Mia Nonna sostava poco, guardava e io facevo lo stesso, confrontando mentalmente quello che vedevo con la cura di altri Sepolcri già visti. Non riuscivo a collegarli al racconto della Passione che avevo ascoltato il giovedì, le mie preghiere erano quelle di un bambino e in latino, imparate perché in quei luoghi si dovevano usare. L’altare dove andava mia Nonna era quello della Madonna, lì si fermava e accendeva un cero. Le donne di casa avevano una particolare devozione per la Madonna, credo la sentissero una persona con cui si poteva parlare e che capiva sia i problemi da risolvere che la loro condizione. Una vicinanza che era confidenza, da Lei poteva venire consiglio e comprensione. Ho visto, da adulto, che accadeva lo stesso in altre donne e non importava in cosa credessero ma il rapporto con la Madonna c’era ed era tanto più forte quanto più era appartato. Un bisogno di confidenza e una certezza di ascolto.
Mia Nonna non aveva avuto una vita facile, ma l’ho sempre sentita serena e amorosa, con me in particolare, nei giorni della Pasqua qualche parente veniva a trovarci e lei ne era felice. Ne parlavamo camminando, di solito era già arrivato a casa e il giorno dopo avremmo pranzato assieme, ma quel parlarci era fatto dalle mie domande e dalle sue risposte che spesso erano memorie. Tempi che risalivano verso l’inizio del secolo e oltre, storie di casa e poi di migrazione, di un abitare distanti, tra lingue sconosciute in bocca a persone come noi, solo che questi uomini e donne avevano il potere di accettare o rifiutare chi arrivava per abitare e lavorare. Un potere immenso perché essere rifiutato implica a una solitudine e un timore ancora più grande e allora serviva coraggio, silenzio e dignità e lei e il nonno ne avevano ben più che a sufficienza per farsi rispettare. Le chiese erano i luoghi comuni, la lingua era il latino, le immagini dei santi, della Madonna, del Cristo, le stesse, li si poteva andare senza timore. Mia Nonna l’ho conosciuta così sin da piccolo: coraggiosa e fiera della sua libertà, con una vita difficile che non faceva pesare su nessuno e che aveva trasformato in amore per mio Padre e per me.
Il nostro giro continuava nel pomeriggio della vigilia, che riempiva le strade. Le vetrine sfavillavano di carte colorate, di uova di cioccolata, di focacce piene di mandorle e anche chi vendeva abiti o scarpe per la nuova stagione aveva uova in vetrina. Noi entravamo ed uscivamo dalle grandi chiese, dall’oscurità alla luce, finché queste si equilibravano e si accendevano i primi lampioni. Allora era tempo di tornare, un dolcetto per me e le caramelle al latte e i pescetti di liquerizia da mettere in un cartoccio in tasca ed estrarre per gustarlo e succhiare piano. La sera, a casa, avrebbero cotto e colorato le uova con il caffè o con altri misteriosi colori pastello, servivano per il mattino seguente e per chi veniva in visita. Da qualche parte un uovo con sorpresa mi aspettava per il pranzo del giorno dopo, la cena già aveva novità in tavola e i discorsi leggeri della festa, poi a letto, sentivo le donne di casa che andavano alla messa di mezzanotte. Ogni volta mi ripromettevo di attendere sveglio per chiedere cosa c’era di speciale da vegliare così a lungo, ma ogni volta m’addormentavo e mi svegliavo nella festa.
Per Pasqua c’erano preparativi che iniziavano settimane prima. L’imbiancatura delle stanze era una costante che toglieva il fumo sparso dell’inverno e odorava di calce su cui poi con dei misteriosi rulli gommati, venivano sovrapposti disegni in colore. Questo trattamento era riservato alla stanza in cui sarebbero arrivati gli ospiti del pranzo di Pasqua, le altre stanze restavano in tinta unica, ma diversa perché il bianco restava in una sola e le altre erano pastello. La cerimonia della ri pittura coinvolgeva tutti i presenti, ed era uno stendere di lenzuola lise, di giornali vecchi, di stracci pronti all’uso per togliere le macchie appena formate. Quest’ultimo lavoro era riservato a me che trovavo piccole chiazze anche degli anni precedenti sui battiscopa o dietro ai mobili. Le finestre aperte portavano il profumo del canale e del prugno in fiore, mia madre si apprestava al lavoro ulteriore che avrebbe seguito la pittura, passare i pavimenti con gommalacca e mordente sciolti nell’alcool, cosa che avrebbe impedito il camminare per mezza giornata nella stanza e avrebbe conservato l’odore pungente per almeno tre o quattro giorni. Una vera catena di montaggio, dove per ultima, a sera, sarebbe rimasta la cucina ad asciugare e meditare nella notte.
Tre giorni di lavori intensi, con la difficoltà del soffitto e l’abilità del gocciolare il meno possibile, poi con una casa che sembrava nuova soprattutto per i profumi di pulito, cominciava l’impasto delle focacce di Pasqua, che poi erano sempre le stesse: la focaccia Margherita, forse in onore della Regina come la pizza, ma certamente più profumata e fragrante. Della Regina intendo. Di focacce ne venivano fatte per consumo e per regalo, da un minimo di quattro in su, la disponibilità di uova fresche era assicurata dal pollaio della nonna in campagna o dal lattaio, bisognava comperare la fecola e lo zucchero e l’aroma di vaniglia. Non ho ancora capito perché la fecola veniva messa in cartocci di carta leggera e poi avvolta di nuovo in carta marrone mentre lo zucchero veniva messo direttamente su una carta azzurra, color carta da zucchero. Per l’appunto. Pensavo che le carte avessero un rapporto strano con le cose e che avrebbero potuto far impazzire la montatura degli albumi che dovevano essere rigorosamente a neve oppure non sciogliersi nel tuorlo e mancare la creazione di quel caldo giallo che era un sole in miniatura e una delizia da leccare dalla terrina (piadena per i veneti) prima che venisse aggiunta la fecola e gli albumi montati a neve. Orbene, queste focacce infornate una alla volta e cotte nel forno della stufa, si accumulavano nella stanza imbiancata più fresca, quella da letto, e mescolavano il profumo di zucchero, vaniglia e calcina in un bouquet unico, perché era il sapore della casa e della festa.
Ci avvicinavamo alla Pasqua, i riti nella grande chiesa ricostruita dopo il bombardamento devastante del 1944, erano solenni e sobri, il parroco non puntava sulle apparenze ma era la sostanza dei significati che gli interessava. Le immagini sarebbero state coperte il venerdì dopo la feria quinta in cena Domini con la reposizione e il giorno successivo sarebbe stato dedicato alla meditazione e al silenzio per prepararsi a qualcosa che per noi era festa, ma non era solo quello. Per i ragazzini silenzio e meditazione erano attività difficili, il patronato era chiuso, andavamo ai giardini dell’ Arena, ma c’era un imbarazzo che entrava nelle libertà e nelle abitudini di gioco. Non si chiedeva nulla eppure il contrasto tra la primavera, le rondini e le fioriture con il pudore che sembrava pervadere i discorsi anche degli adulti, doveva significare qualcosa di profondo. I bambini vivono le cose, i misteri, l’inconosciuto fa parte del sentire e dell’apprendere e sanno quando fare domande o insistere, sanno che ci sono cose che matureranno pian piano nei significati. Ci sono cose più grandi di noi, lo si impara allora e non si smette mai di cercare di capire.
Brucoli era splendida di sole, comprato il pesce fresco per la sera, una corsa a casa e salimmo in auto per la gita sull’Etna. I bambini erano piccoli, noi grandi e ancora pieni di giovinezza, le auto, erano quelle che ci potevamo permettere, la mia 128 Fiat con cambio modificato (ma questa è una storia diversa) e una Lancia Flavia. Tre persone in una e quattro nell’altra. L’avvicinamento a Catania cantando, poi il caffè con i cannoli in via Etnea e guardando gli orologi a il sole ormai alto, via di corsa verso le pendici del vulcano. L’Etna è una presenza quasi umana, ben lo sanno i siciliani, noi ci avvicinavamo senza vederlo, perduti sotto alberi e per strade sconosciute, ma lo sentivamo. Si sentiva qualcosa che toccava dentro, una presenza che attirava e nel frattempo parlava per suo conto. Noi eravamo immersi in un’arcaica fase di approssimazione a un desiderio, presi da una spinta che ci faceva svoltare per strade e luoghi che preparavano all’incontro.
Alle 11, in un paese non identificato, ci imbattemmo in una corsa ciclistica, le deviazioni sul posto erano ben visibili, i vigili e l’organizzazione, solerti. Ma era entrare in un labirinto di deviazioni e stradine, dove nessun cartello corrispondeva più alla carta e alla meta confondeva le idee. Non c’era google maps a quei tempi, bensì una enorme carta Michelin, interpretata dalla cosa più fallace che l’uomo conosca: l’intuito. Dopo molto girare in tondo e dopo aver visto per tre volte scritto su un muro a caratteri bianchi cubitali “vota Bianco”, dopo esserci fermati e sfamati. Prima i bimbi e poi gli adulti. Finalmente nel sole a picco apparve, un po’ sbiadito, un samaritano, definito come tale perché sapeva cosa cercavamo. E infatti con poche indicazioni e un solo votaBianco, la strada verso la presenza amica del vulcano fu ripresa.
Arrivammo al rifugio un po’ in ritardo sui tempi previsti, ma intanto il vulcano era dilagato ovunque, sopra e intorno a noi, tangibile, ricco di rumori intestinali, di cui ci fu detto di non preoccuparci perché c’era sì un’eruzione in corso, ma tranquilla e da una bocca larga la lava fluiva lenta e regolare. Il paesaggio era strano, tagliente, casuale nei pinnacoli che sembravano usciti dalla mano di un bimbo che faceva uscire la sabbia e l’acqua, dalle mani per creare statue. Era impressionante perché mai visto eguale, senza neppure un ricordo delle montagne dolomitiche che lo potesse approssimare. C’era il nero e il corallo acceso delle rocce, qualche cespuglio, rade macchie gialle tendenti al rosso. Anche i bambini erano meravigliati e parlavano piano, ma volevano vedere il fuoco e la lava incandescente, lo chiedevano con cortesia ritrosa, quasi intimoriti dalle domande che facevano.
Trovata una guida, partimmo per l’escursione, in calzoni corti, scarpe da ginnastica e maglietta maniche corte. I bambini con i k-way per il vento, noi forti e impavidi ai limiti del freddo. La nostra guida era gentile, precisa nelle istruzioni sui pericoli, paziente nel raggrupparci in modo che tutti potessero sentire. Con i bimbi a mano, cominciammo a camminare. Noi sette eravamo assieme, un unico gruppo, parlavamo veneto tra noi e italiano con la guida. Erano tempi strani, in Veneto, la lega scriveva sui muri forza Etna o forza Vesuvio, ma a noi sembrava un modo per ridere all’osteria perché poi in fabbrica si lavorava tutti assieme, così non ci pensavamo. Anche perché noi eravamo comunisti, mica della lega, e ai nostri vicini a Brucoli chiedevamo dei parenti al nord, cercando di scoprire conoscenze comuni.
Il mio amico, compagno di banco e di università, risiedeva in Sicilia da un paio d’anni, faceva il direttore pro tempore di uno stabilimento chimico dell’Anic in provincia di Siracusa, era una persona squisita per modi e gentilezza, un compagno integerrimo e se non si vedeva dal sorriso allegro, noi lo sapevamo bene. Questa notazione ci servirà per il ritorno. I bambini erano felici di camminare in mezzo a tutta quella graniglia nera, su sentierini strani che si stagliavano appena e in mezzo a una polvere sottile che s’intrufolava ovunque. Si grattavano e si toglievano le scarpe ogni 10 passi, noi resistevamo stoicamente cercando di fare domande intelligenti. Il paesaggio che banalmente si definiva lunare, aveva sole e colori nitidissimi, era impressionante, come i brontolii del vulcano, cosa viva che forse qualcosa voleva dirci, ma si distraeva per ragioni sue. Capivamo tutta la letteratura epica greca, la meraviglia degli antichi, il timore e l’ estraneità umana del posto riservato agli dei. Visto che Vulcano era tranquillo, si capiva che non ci voleva male, ma quello era un posto solo da ammirare con creanza e cercare di capire quello che si poteva del mistero e della forza della Gea primordiale, non una terra da considerare per umani. La guida ci propose di arrivare, con i bambini a debita distanza e ben tenuti a mano, fino alla distanza di sicurezza dal fronte della colata lavica. Accettammo con entusiasmo come fosse un regalo.
Tra noi commentavamo sottovoce la singolarità dei luoghi e due alla volta fummo accompagnati fino a una strana roccia grigia, larga come un torrente, che si muoveva con un fronte arrotondato come in un film di fantascienza da paura e che dalle crepe mostrava vene rosso fuoco. Tutto era quieto, non un uccello o un verso d’animale, la roccia faceva un rumore come masticasse il terreno su cui avanzava e se c’era un arbusto o qualcosa di infiammabile sul suo cammino, immediatamente questo prendeva fuoco. La guida ci raccontò le temperature, la velocità di uscita, sentivamo il calore come davanti a un camino senza fiamma, poi cominciammo ad arretrare. Qui subentrò una strana impressione, ossia che la graniglia nera e grigia e la polvere si attaccassero ai piedi molto caldi, infatti guardando le scarpe da ginnastica queste erano diventate stranamente larghe, palmate come quelle dei paperi. Arretrando con una certa fretta constatammo che avevamo un paio di pinne ai piedi, io in particolare, e che la graniglia nera si era incorporata nelle suole fuse. La cosa aveva non pochi lati ilari per i bambini ed era allegra anche per noi, che scherzavamo, pensando di ripristinare le suole togliendo quella sovrastruttura come si fa con il fango. Ebbene, non era così, anzi raffreddandosi, suola e sasso diventavano un tutt’uno. Avevamo le suole di pietra, belle larghe e stabili: una nuova moda. Con discrezione, sulla via del ritorno, considerato il peso crescente delle scarpe, ne parlammo con la guida, che in modo allegro ci confermò l’inadeguatezza del nostro equipaggiamento, già oggetto di osservazione alla partenza, e si lasciò scappare che se si incoraggia l’Etna, il vulcano benevolo, si dava un po’ da fare.
Capimmo il sottointeso, il parlare veneto era diventato un linguaggio poco gradito a chi ogni giorno faticava per guadagnarsi la giornata proprio su quell’Etna che veniva incoraggiato. Ci sperticammo nei distinguo, e credo fummo convincenti, anche perché i bimbi era così allegri mentre noi ciabattavamo verso il rifugio, così subentrò il dialogo e il perdono. Restavano le scarpe da paperi, ma quelle avremmo tentato di aggiustarle nella discesa. Cosa non semplice perché ritagliammo il profilo con il coltello e con le nuove suole, dopo saluti e pacche sulle spalle, ci avviammo verso le auto. Il sole stava calando, illuminava il nero dei basalti, con bagliori che si rincorrevano su pagliuzze che ad occhio nudo non si erano viste, l’immanenza dell’Etna era sopra e sotto di noi, un animale che dormiva vigile e sognava, così lo raccontavamo ai bimbi e a noi stessi. Si faceva fatica a staccarsi da quella sensazione di meraviglia ma il pesce fresco ci attendeva a Brucoli e con i calzini e le ciabatte, perché le scarpe erano da buttare, ci accingemmo al ritorno. E qui comincia un’altra storia di vulcani e gentilezza.
Scendendo verso Catania la Flavia del mio amico ebbe un comportamento strano. Era il crepuscolo e accendemmo i fari, io ero dietro e vedevo la sua auto rallentava procedendo a sussulti. Se spegneva i fari il motore riprendeva e le cose sembravano normali, ma non si potevano avere entrambe le cose: motore acceso e fari accesi. Passai a condurre e lui mi seguiva a fari spenti cantando Battisti, continuammo per un pezzo a scendere, ma le curve , le strade sconosciute, non illuminate e povere di indicazioni, ci persuasero che era pericoloso continuare in quel modo. Arrivammo, credo, in pianura in un paese di cui ci sfuggì il nome, parcheggiammo la Flavia lungo una lunga recinzione in muratura che portava la scritta VotaBianco e pensando di tornare l’indomani, tutti salirono sulla poderosa 128 Fiat berlina. Eravamo in sette in auto e ritenendo la cosa stretta ma normale, tornammo cantando, cercando di evitare i luoghi e le strade troppo affollate. Naturalmente sia chi era alla guida, cioè io, e il mio amico cercavamo di imprimerci bene in mente la strada del ritorno, per tornare in fretta il giorno dopo.
Tra canzoni, sfottò, sonni dei bimbi stanchi, superammo Catania, e a notte arrivammo a Brucoli. Finché friggeva il pesce cominciarono le docce e la ripulitura dalla polvere, non ho ancora capito come ne avessimo così tanta addosso e come mai non si intasò lo scarico, posso dire che dopo tre giorni alla doccia serale restava ancora una traccia di polvere nera. La serata continuò tra racconti, impressioni, giochi e vino, finché tutti stremati, andammo a dormire con l’appuntamento per la colazione, il giorno dopo di buonora, con il nuovo viaggio per il recupero della Flavia, ma questa è altra storia e la continuerò se avrete pazienza.
Imparare il silenzio quando si posseggono le parole “Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire” ” Heidegger”
Quando non si vuole rispondere a una domanda si parla di cose inerenti, interessanti, ma d’altro. Forse quella domanda non ha risposte in noi, eppure ce la siamo posta, magari da sempre la evitiamo perché affonda nel buio e il buio fa paura. La domanda resta, la si può coprire d’altro, anche per sempre, ma condizionerà a suo modo la nostra vita. Se è una domanda sui sentimenti, farà fare qualche omissione, dirà mezze bugie fino al suo esplodere o soccombere nell’implosione dell’impotenza affettiva, e allora devierà risposte e attese, fino ad essere consumata dalla vita.
Per questo il silenzio dovrebbe preparare la verità che deriva dall’ascolto e dalla comprensione che muta, non essere il modo per fuggire da sé e dagli altri. Per questo silenzio serve apprendere e l’umiltà di ascoltare.