Questa mattina mi son lasciato invadere dalla speranza,
ed è pericoloso di questi tempi in cui tutto sembra fatto,
e deciso nel peggio, che non è proprio peggio,
eppure ti toglie il colore,
semina grigio nelle parole,
distribuisce forse che sono già dei no.
Ma stamattina le parole erano colorate,
c’era il rosso della piccola passione da spendere ogni giorno,
il verde che non accetta l’asfalto e cresce indifferente,
il giallo, cosi difficile con la pioggia sui vetri, prometteva il cambiamento.
Erano colori della vita
senza ritegno né creanza, così il viola sposava il blu e parlava arancio.
Ma non erano confusi e neppure sembravano parole: erano finestre
in un tempo di muri
mostravano che c’è aria da respirare
in quel sentimento insensato che si chiama speranza,
e se spesso non ha una precisa attesa,
si muove allegramente e tu sai che è vita.
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mi ha preso la tenerezza dei vecchi
Mi ha preso la tenerezza dei vecchi. Non perché mi ritenga tale, ma gli anni si accumulano, costruiscono una montagnola dalla quale si vede attorno. Magari sfuocato e così le cose diventano masse colorate, fili appesi al cielo, con una loro gentilezza interrogativa che chiede sorridendo: chi siamo? E nulla è mai ciò che appare, perché il ricordo aggiunge, spinge a ripetere pur sapendo che ci sono meccaniche celesti, come direbbe Battiato, alle quali si sfugge solo con la speranza. Sarà diverso e non finirà, però…
Ci si perde tra le immagini, ci si perde nella tenerezza del giorno in cui l’equinozio annuncia nuove gemme, colori e abiti leggeri. La tenerezza dei vecchi è addolcita di tracce, di mappe, che i passi conoscono a perfezione, è fatta di sabbie in cui è bello lasciare impronte, di asciugamani colorati stesi ad accogliere. È costruita con pensieri senza capo né coda, perché i pensieri non devono per forza avere un inizio e una fine. La tenerezza è fatta del vedersi, dell’ascoltare il corpo che brontola allegro tutte le ingiurie che gli abbiamo inflitto, ma è anche la pelle che sente il cotone fresco di bucato, il sole che la spinge. È il pensiero che già racconta altre attese mentre il corpo ascolta e si distende.
La tenerezza è ciò che si può fare ed è nuovo, così nuovo che suscita contentezza e oscura quello che ormai è da parte. Volevo scrivere in un quaderno, dividendone a metà le pagine, da una parte ciò che non potrà più essere ma è stato, e nell’altra metà, a fronte, mettere il possibile, il desiderato, il sollecitante. Mi sono accorto che la prima metà era ricchissima, ma la seconda era infinita e quella mezza pagina di ciò che attendeva d’essere, era gentile col passato perché gli lasciava tempo e infiniti spazi bianchi da riempire. Con tenerezza aspettava che raccontasse.
Forse anche per questo mi ha preso la tenerezza dei vecchi che hanno la pazienza del vedere, che si soffermano su una parola, che alzano gli occhi e guardano in alto, accorgendosi del cielo, dei cornicioni dei palazzi che giocano con l’ombra e le nuvole e gli sorridono. Mi ha preso la tenerezza dei particolari dimenticati che un tempo avevano richiesto cura e sapienza ed erano stati lasciati allo sguardo attento della bellezza. E ho pensato che quando si rallenta il mondo prende forma – lo sa bene chi cammina – e tutto ha una sua nascosta ragione, una domanda gentile di attenzione.
Mi ha preso la tenerezza dei vecchi e la mente ha abbracciato l’aria nuova, il sole, i rumori del cantiere, il vestire con una maggiore cura del solito, e il rizzare il corpo, fiero d’essere uomo. È stato allora che la gratitudine che si era sparsa tra i pensieri s’è fatta palese e forte e mi è sembrato un sentimento bello e pieno di compagnia.
dov’ero?
Ricordo i particolari di quella mattina. Ero distaccato in sindacato dal lavoro. Le notizie le avevo sentite per strada. La scorta di Aldo Moro era stata uccisa. 5 agenti, uno era al suo primo giorno di servizio. Pasolini aveva già detto chi erano i figli del popolo tra polizia e manifestanti con i padri importanti e nel sindacato si parlava di come rappresentare questi lavoratori che erano stati spesso contrapposti a noi. Pensavo a quei morti e a cosa si sarebbe fatto. Era un colpo di stato? Bisognava bloccare la città, il Paese con lo sciopero? Moro era quello che aveva parlato con Berlinguer, l’artefice del governo in cui forze distanti avevano convenuto che era il Paese a venire prima. Pensavo tutte queste cose confusamente, mentre salivo le scale. Ci fu una riunione e subito fuori a fare assemblee sui luoghi di lavoro. Mi colpiva il fatto che la città fosse indifferente, non c’erano assembramenti, le persone facevano la spesa nelle piazze, si coglieva qualche commento distratto. Durante la prima assemblea cercai di illustrare la pesantezza politica del momento, il pericolo per la democrazia. Ci furono interventi che assentivano, ma senza forza particolare. Alcuni rifiutarono lo sciopero immediato. L’assemblea successiva era più distante, ebbi tempo per pensare nel tragitto che forse la mia enfasi non era il modo giusto per dire la preoccupazione e la gravità dei fatti. Usai parole come difesa della democrazia e momento oscuro dopo la liberazione, dopo il fascismo. Alcuni lavoratori, che sapevo democristiani espressero dolore, ma anche parlarono di clima che si era giustificato. Che i rossi avevano giustificato o lasciato scorrere la violenza. Mi sentii attaccato, parlai delle difficoltà che c’erano, delle minacce ricevute anche personalmente. Poi mi fermai e chiesi quanti erano disposti da subito a fermare il lavoro, a far capire che le br non avevano un retroterra operaio. Contai le mani, erano una minoranza. Uno dei lavoratori democristiano mi disse che si affidava allo Stato, che gli scioperi non servivano a nulla, altri suoi colleghi assentivano. Era l’ora di mensa, l’assemblea si sciolse. Nel pomeriggio ci fu una manifestazione partecipata, ma mi parve insufficiente. Delle mie assemblee erano venuti in pochi, i soliti. Più forti e decisi i metalmeccanici riempievano le prime file del corteo. Dopo ci furono i giorni infiniti della prigionia. La notizia che rimbalzava tra la prima e le pagine interne dei giornali. Gli scontri politici tra fermezza e trattativa, fino all’epilogo tragico della morte. Non credevo l’avrebbero ammazzato, Moro, le br avevano avuto tutto: notorietà, impatto, divisioni tra lavoratori e nella politica, fatti segreti che erano stati loro rivelati. Pensavo che una mattina mi sarei svegliato con la notizia che avevano trovato un uomo, male in arnese, che avrebbe detto: sono Aldo Moro. Non fu così e al solito, il Paese non fece i conti con i misteri di quella morte, non fece i conti con la tenebra che sta sotto l’apparenza. Ho sempre vissuto questa data con un doppio senso di fallimento: l’Italia, quella in cui credevo, era impotente a dissipare trame, non colpiva l’antistato che si annidava nei poteri e non riuscì a salvare Aldo Moro con la legalità. Ma neppure gli Italiani lo salvarono, e avrebbero potuto farlo isolando con manifestazioni imponenti le br, ma già allora avevano in odio le icone del potere e le pensavano portatrici di colpe irredimibili. Questa sensazione di errore, di sfiducia in ciò che la parola, i principi, potevano generare come reazione collettiva a ciò che era profondamente sbagliato, in me toglieva la speranza e da quel giorno è sempre stata una maggiore fatica ricostruirla questa speranza. E ancor oggi la sento come un non capire appieno, un’insufficienza, una colpa.
occupiamoci di cose generiche
Occupiamoci di cose generiche, lo specifico muove vortici di domande e genera inquietudine. Occupiamoci dell’oggi, anzi del giorno, che agli storici spetta il giudizio. Lasciamo perdere il ieri, quel che è stato è stato, le nostre memorie allo stato solido conservano migliaia di foto che non guarderemo mai.
Però permettetemi una digressione. Prima pioveva e c’era il sole, le ragazze camminavano in fretta, qualcuna sorrideva, dei ragazzi hanno tirato il cappuccio sulla testa e parevano contenti. Chi aveva un ombrello lo apriva. La strada scorreva di pedoni e biciclette, nessuno si fermava sotto i portici, sembrava godessero di una pioggia gentile che annunciava la primavera. È stato allora che ho notato l’esiguità delle mura del ‘300, il mozzicone rimasto con lo squarcio verso l’altro pezzo di mura. Dallo squarcio si vede il palazzo che fu del banco di Napoli, davanti c’è la discesa del parcheggio che si intrufola sotto le mura, sulla strada un tempo, ero bambino, c’era il fiume, le barche e solo a lato, in alto, le auto. In uno spazio ristretto le auto, perché l’acqua e la vista era più importante. Poco avanti, c’è la casa in cui Dante non soggiornò e forse non incontrò Giotto (ma era bello pensarlo e così c’hanno messo una lapide al riguardo), davanti alla casa c’era un ponte, a tre arcate, di epoca romana che univa l’università dei giuristi, il Bò con l’ospedale vecchio di san Francesco, il luogo in cui è nata la medicina moderna. A sinistra del ponte, dopo il Bò, le piazze, la civis con la sala della Ragione, i commerci. Ora ci passano i tram in quella riviera, gli autobus e le auto, ma oggi c’erano anche le ragazze che sorridevano nella pioggia di marzo, e quel muro così esiguo per difendere una città, mi diceva qualcosa di me, di noi. Ci fu un pretore che difese quel muro, un sindaco condannato dopo anni di processi, e quel sindaco non era Attila, ma come il predecessore che aveva tombinato il fiume, pensava che la modernità poteva fare a meno dell’acqua e del muro di cinta d’una vecchia città ormai esausta di ricordi. Erano persone per bene questi due sindaci, che interpretavano il progresso come ineluttabile e la modernità come un generico contenitore in cui tutti potevano stare. E si sbagliavano perché pensavano genericamente e non interrogavano l’anima delle cose (che poi coincide con quella delle persone se c’è appartenenza). Io sono un sognatore, mi piace l’assoluto e il relativo, ma maneggio male i ricordi e senza dare colpe penso che il generico è come il nulla, erode ciò che ci sta attorno. A noi che ricordiamo, non alle ragazze che camminano sotto la pioggia e guardano nel loro futuro.
Però e questo è il secondo però di cui chiedo venia, se ci abituiamo tutti al generico, al relativo, non ci sarà più spazio per l’importante. E che fine faranno le vite se non hanno una direzione propria. Se non abbiamo nulla di profondo di cui dirci davvero. Se non ci sarà nessun segreto da tirar fuori a fatica perché ci rivela davvero e ci consegna inermi all’altro, che fine farà l’eros? Se tutto è rappresentazione qual è la commedia e quale la realtà?
Avete osservato che circola diffusa la paura di essere interpellati per davvero, che qualcuno ci chieda se abbiamo studiato come vivere domani, dopodomani. Con la competizione si sono risolte molte cose, si fa una corsa in qualsiasi campo, il lavoro, il divertimento, gli amori, uno vince e domani si ricomincia. Magari non gli stessi, non con lo stesso panorama perché nel frattempo qualcuno si è perso, un muro si è abbattuto, un tabù è stato espugnato, ma si ricomincia verso l’indefinito infinito senza chiedersi cosa sia davvero accaduto, cosa abbiamo provato. E credo sia perché anche se ce lo chiedessimo a chi potremmo dirlo davvero? A questo servono i poeti, che hanno il compito di mostrarci l’essenza delle cose, ma non compriamo libri di poesia se davvero non vogliamo andare nel profondo, se non vogliamo lottare con la realtà. Per l’apparenza, i poeti, basta citarli a spizzichi, con un tweet che suona bene ed è adatto alla bisogna e che sembra far bene per un attimo prima di restare uguali.
dire ti voglio bene
In fondo non ci obbliga nessuno ad aggiungere parole al ringraziare. Forse l’insicurezza di non essere creduti. Oppure la misura che percepiamo insufficiente e che vorrebbe trovare il giusto aggettivo, quello assoluto che corrisponde al sentire. Ma se abbiamo un briciolo di sensibilità, se riusciamo a vederci per come siamo, dobbiamo ringraziare.
Con molta consapevolezza del limite, penso alle passioni che sono nate da una donna e che senza di essa non sarebbero nate. Il limite è proprio questo, non è possibile fare a meno della generazione primigenia, del parto che poi evolve e cambia facendo finta di essere tutto nostro. Se tutto nelle vite, alla fine, si riduce all’assenza o presenza di amore, se il bisogno, anche in chi cerca la solitudine, ha sempre elementi femminili ci deve essere qualcosa che non è scritto solo nei cromosomi e questo non può prescindere da un confronto: esisto, penso, vivo perché qualcosa di femminile mi ha generato e accompagnato. Questo femminile mi accompagna pur non capendolo appieno, mi aggiunge perché mi mette dentro alla dolcezza della vita. Ma come si fa a ringraziare dell’impalpabile che ci avvolge, come si può ringraziare di una necessità, di gesti che hanno il vero della natura anche quando sembrano frutto di ragionamento. Nella parte femminile che abbiamo ricevuto non c’è solo la materialità di un dolore condiviso nel nascere, non c’è solo la ricerca di un dialogo col mistero che genera l’amore, non c’è solo l’impossibile coincidere che alimenta la meraviglia e il timore di non capire mai davvero, c’è qualcosa di grande che si riferisce a un aver ricevuto e ricevere inatteso, senza contropartita. È per questo che il ringraziare diventa insufficiente e il discorso dovrebbe essere sostituito dal gesto quasi muto, dal dire quell’amore che si declina in poche parole e dentro un abbraccio più lungo, più sentito e abbandonato a Lei. A Lei che si abbraccia e ci accoglie e ha bisogno di bene e di amore come noi, eppure ne ha sempre più di noi. Ogni giorno in cui si sta assieme. Comunque. Finché dura la nostra intelligenza e il ricordo di ciò che siamo e di come saremmo infinitamente più poveri e disperati senza quell’amore che continuiamo a ricevere. Da una donna, dalle donne della nostra vita.
primo marzo: ascolto e odo
Rare faville di neve su tetti bianchi. Il caffè l’ho rovesciato. Una tazza intera mentre un biscotto attendeva d’essere inzuppato. La delusione del biscotto meriterebbe Cioran. Come potrei parafrasarlo? Solo nel disfarsi il biscotto trova la sua natura, irrigidito nella cottura eccessiva, come pensiero stantio, si libera nell’intridersi di natura altrui. Ovvero come rendere un’apoteosi la delusione e far dello sciogliersi tra nature una metafora dell’amore. Se l’amore non cambia la sostanza imbibendosi dell’altro, che amore è?
Della vigilia del voto scriverò domani, oggi curo l’anima che non ha vigilie. Un passo di un’epistola in versi di John Donne
Una sospettosa presunzione sta di casa in questo luogo,
e l’avere tante orecchie quanto tutti hanno lingue;
pronti a vedere i torti, lenti ad ammetterli.
indurrebbe al silenzio e a un diverso ascolto: ascolto te oppure ascolto me? Ovvero Ti ascolto per trovare una mia ragione oppure per sentirti entrare con le tue ragioni.
Le ragioni si dovrebbero mischiare come si fa con le carte perché il gioco precedente non si ripeta, ma ogni volta le possibilità facciano il loro lavoro.
Mischiare le ragioni e cogliere i segni e le immagini. Dare un significato alla taroccata vita e fermarsi sui segni per straniarsi dal consueto, dall’apparente.
Posso dire con sicurezza che il caffè versato era peggiore di quello nuovo, ne sono sicuro: era un segno che mi occupassi di me senza distrazione. O forse, romantica presunzione, era un pensiero che scoccato da distante voleva raggiungermi e dirmi qualcosa che dimentico nell’abitudine. Anche la neve, che continua indolente a cadere, è segno di un guardarsi attorno: non ci si chiude in casa se non per paura, ma si resta a casa per scelta e ci si guarda attorno per vedere come si è.
Nel tuo dire esplicito ho trovato tracce d’innumerevoli rintocchi
e l’aprirsi all’amore che, ostentato, era meraviglia e insicurezza,
il timore che sfuggisse l’attimo
dileguando in un richiamo importuno,
o che il dubbio prendesse un posto che non era suo.
Del doman non v’è certezza è l’invito alla pienezza, mia cara,
e il rigetto di ciò che ha scalato il cielo e poi è caduto
ma ora vola, altro dirà di te.
Non ascoltiamo le stesse cose, non leggiamo gli stessi segni, ma ciò non impedisce che nel caffè che si versa io veda un richiamo ad altri caffè non versati, la sequenza di quelli che seguiranno in diversa (versa e diversa hanno la stessa radice che è versus, ossia il part. pass. di vertĕre volgere) e più agevole compagnia.
Non ti curare del senso, che di me io parlo, che ascolto ma odo e si rincorrono le voci della polifonia di Biber.
Odo la neve, odo il segno d’un tempo che scade se messo nell’abitudine, odo l’accento di una lingua che non è la mia. Odo e ascolto la prima neve di una quasi primavera.
io sono l’aria
Io sono l’ aria,
immateria qualcuno mi dice,
e mentre m’ ignora,
altrove cerca sostanza.
Eppure m’ insinuo, e colmo silente,
mostro il colore, lo muto,
spargo il profumo,
delle stagioni racconto,
ma d’ un mistero mi glorio,
nel mentre sorreggo: senza me non c’è grazia nel volo,
muto della corsa il sapore,
e persino d’un luogo non resta il ricordo.
Pensa che nel costruire dove tornare,
ognuno tiene me nel ricordo e cerca la forza sicura d’ un cielo:
sono ciò che non pesa e fa la mente volare.
tra soli e solitari
In quell’egoismo che stentiamo a riconoscere, a volte, non c’è chi vorremmo ci aiutasse con la presenza. Bisognerebbe ricordare che lo stesso facciamo noi quando riconosciamo una richiesta di aiuto e ci schermiamo per una qualche impossibilità. Non è cattiveria e neppure indifferenza, è che l’umano che c’è in noi ha un contatore che dice che non ce la fai. Forse è quel limite strano che tutti quelli che santi non sono attribuiscono agli altri e chiamano egoismo. Oppure è uuna incapacità di essere sempre troppo fuori di te. O ancora, più semplicemente, è un limite. Abbiamo limiti e dovremmo accettarli, in noi e negli altri.
Dovremmo ricordarcene quando una risposta non è come la vorremmo perché conosciamo cosa significa essere soli e rendere più soli.
Dovremmo esserne coscienti, quando ci pare d’essere trascurati, che se non c’è stata risposta, un qualche motivo ci sarà pure ma noi non lo sappiamo perché è difficile dirlo.
Non ci basta, quando si sta male è l’aiuto che conta, non la giustificazione della sua assenza. E allora anche il dolore di un’assenza dev’essere accettato, un dirsi: non sei come ti vorrei, ma ci sei.
Tutto complicato e difficile perché si svolge in quella terra piena di trabocchetti e di solitudine non cercata che si chiama bisogno d’amore. E nessuno, neppure i solitari, quelli che scelgono di stare per loro conto prescindono da questo bisogno. Certo un solitario è più portato a cercare in sé risposte, ma anche lui cerca un’anima con cui parlare, un dire che non si ferma alle parole e ai silenzi.
Questo riguarda tutti e non c’è maggiore solitudine di quella che non riesce a dire, che ha una particella di sé da mettere altrove e non trova il luogo. Poi c’è chi si accontenta, chi attende che passi, chi seppellisce sotto coltri di momentaneo altrove il bisogno, ma questo è lì, pronto a chiedere e i conti si fanno con la solitudine più sola, quella che il poeta chiama con atroce gentilezza il cuore del mondo, ma è anche un fuoco che si spegne prima di una partenza, un treno che s’allontana, un guardare uno schermo che non s’illumina, questo è il cuore limaccioso dell’assenza.
apolidismo spicciolo

Camminare, ancora camminare, per percorsi circolari perché sempre si torna, perché sempre c’è un’ora in cui le cose si invertono, perché perdersi è l’orlo della follia, l’emergere dell’insicurezza di sé. E noi abbiamo bisogno di sapere chi siamo, che poi è dove siamo e che ora è del giorno, in che mondo viviamo. A questo servono i notiziari, i giornali, a dare conto della sicurezza che il nostro mondo esiste, che ha nefandezze evidenti ed eroismi nascosti. Abbiamo bisogno di concludere che la realtà è quasi fuori dalla nostra portata decisionale ma non del tutto e che muta con noi. Guardiamo il mondo dietro una vetrina e pensiamo che qualcosa passi con lo sguardo dall’altra parte. Almeno finché sappiamo dove siamo. Sapersi è confinare il pericolo e la sua paura, dare un posto tranquillo a noi e una possibilità all’amore e al suo bisogno.
Le vite, penso, sono un ancestrale controllo dell’insicurezza ed è così rara la libertà di perdersi perché in essa c’è la follia oppure un fidarsi estremo di sé.
Cammino in fretta tra le luci di un san Valentino municipale, luci in attesa d’essere smontate. Mai come quest’ anno l’amministrazione cittadina è stata prodiga di luce, forse a raccontare che è cambiato qualcosa di profondo, che una nuova stagione viene e muta la città, e con essa i rapporti tra le persone. Più luce e più festa, più condivisione e maggiore crescita assieme. Naturalmente non è così, ma sembra il messaggio che i nuovi amministratori ci provano e pur mettendo assieme desideri e pregiudizi diversi, molte parole ripetute e fatti incipienti, mescolano la volontà con il tempo che corre per suo conto. Una sorta di esorcismo e così flussi negativi devieranno fuori da questo territorio che vuole star meglio. Come in una città medievale ci si chiude in una realtà ristretta, la città è cinta da lunghe mura e ciò che minaccia scivolerà all’esterno. In quella luce di festa residua si può guardare con fiducia al presente e al futuro. E creare il nuovo nella luce dove non c’ è nulla da nascondere non è forse la cosa più bella che si può regalare alla consapevolezza? Oppure non è così (penso) e tutta quella luce serve a distrarre da ciò che si annida nell’ombra?
Segni ovunque, incuria e comunicazione, leggo simboli e li rivesto di significati impropri. Che m’assomigliano (penso), sono loro che si sono assunti il compito di parlare ben oltre l’ evidenza.
Mi viene da ridere perché ciò che pensavo non era la realtà ma un desiderio e se con i desideri si costruisce il mondo, io di desideri ne ho pochi, poche passioni e molta stanchezza. Non fisica, o almeno non cosi pronunciata da impedire di fare ciò che voglio, ma stanchezza di una lotta infinita. Penso al lottatore cosparso d’ olio che a metà incontro vede sia l’ avversario che il tempo senza limite che sta innanzi e viene preso dal dubbio su di sé, sulla sua forza, sulla capacità di resistere. E si chiede ragione di tutto quello sforzo, della fatica immane che l’aspetta. La vittoria si allontana e la sconfitta si aggettiva nell’ onorevolezza. Perdere con onore, sì va bene, ma vincere ha un altro significato. Combattiamo per una causa giusta e vinceremo. Parole ormai antiche a cui bisogna aggiungere il tempo: non importa quanto ci metteremo, cambieremo il mondo in meglio, lo renderemo più giusto, più eguale, più umano.
E vincere è tirare una linea che distacca dal passato, che diventa definitiva perché poi si può anche cadere. Le acquisizioni non sono per sempre, però è la vittoria che porta avanti. E nel momento della stanchezza bisogna attingere a risorse nascoste, credere nelle proprie capacità di influenzare il corso degli eventi. Questo è il mio stato (penso), ma sono stanco.
Camminando i pensieri si quietano, si ordinano. Come il respiro hanno un ritmo. Dickens, ha raccontato bene la solitudine e in più, preveggendo, ha capito anche la solitudine del possesso e del lavoro che rapina su chi ha bisogno. Quando parla sullo spirito degli anni già stati legge il peso del non fatto. Il passato è ciò che non siamo stati, anche, soprattutto, ma c’è la possibile speranza dell’uscirne vedendo gli altri come sono, non come avversari o ombre. Quante solitudini ho confrontato con la mia, e sapevo che non erano confrontabili perché nessuno sente allo stesso modo ma al tempo stesso c’è sempre la speranza di mettere assieme un desiderio, un ideale, un modo di vedere sé e il mondo. Ero giovane e vedevo che attorno si disseminavano donne e uomini che la società espelleva come disturbanti, persone che si ubriacavano per dimenticare, che usavano tutto quello che avevano a disposizione per accentuare una differenza, come a dire: se non ce la faccio a essere come voi, guardatemi pure come posso peggiorare.
Quelli che nascondevano sotto patine di normalità e perbenismo questo stordirsi di percezione erano i peggiori, facevano finta e stavano mentendo a se stessi oltreché agli altri. L’ ho fatto anch’ io (penso), con moderazione, ma l’ho fatto. Mi sono stordito di speranza, di possibilità di mutare me stesso e il mondo e poi col tempo ho capito che cambiarsi era una faccenda lenta e complicata che includeva molto di più che l’accogliersi e l’evolvere assieme. Era più facile essere qualcosa di adeguato subito, ma se non ti viene che fai? L’adeguatezza è un criterio che viene esaltato, che premia immediatamente e per essere tale deve includere anche la diversità, ma compatibile. Non è questione di educazione, di regole di convivenza ma proprio di conformità. Anche l’individuale deve essere ricompreso in un infinito bon ton dove solo ai geni è consentita la diversità più accentuata, ma bisogna essere geni.
Funziona così in politica, nell’economia, nei rapporti sociali e mi chiedo che fine abbiano fatto i devianti conosciuti. Quelli che si ubriacavano per solitudine le notti di tutte le vigilie d’una festa, quelli che studiavano con me ed erano scappati via, chi avanti, chi nella droga, chi nella follia, ma anche quelli fuggiti dall’Italia perché già allora non c’era una buona aria per i diversi. E di quelli che non ce l’avevano fatta ho ricordo? Si erano persi, scegliendolo, qualcuno l’avevo pure incontrato nel lavoro, dopo anni, ricoverato in luoghi che assicuravano la sicurezza che dentro non erano riusciti a mettere assieme.
Si scrive una lettera mettendoti alla fine? Perché questa è una lettera e tu lo sai. Tu che hai collezionato una bella serie di sconfitte diverse e simili alle mie non me le racconterai mai. Sei distante, magari giudichi inutile il ricordare e forse pure il vedere questa realtà che costruiamo noi pian piano in posti diversi. La realtà siamo noi, mi ha detto un’amica, ed è vero, siamo una casa sull’acqua. Una palafitta. Sotto scorre il mondo che ci riguarda solo quando esonda, quando trasuda dal pavimento su cui camminiamo e la realtà è questo attorno che è fatto di difese. Un tempo, prima di partire, hai abbassato le armi: mi hai detto che la vita era altrove e sorridevi di questa avventura che si apriva. Poi il buio tra notizie frammentarie, una cartolina, le mie respinte per il mittente sconosciuto. Diventiamo sconosciuti per scelta, per arroganza, per autosufficienza o per incuria. Meglio l’ultima anche se non fa bene e fa capire chi è passato sotto nel crivello dell’importanza.
Ci stai ancora con qualcuna? Oppure sei un solitario, che inquieto cerca giovinezze impossibili? Sei stanco di praterie e di città, di campus e di conversazioni al bordo dei barbeque? Magari nelle conversazioni usi ancora i luoghi comuni che abbiamo condiviso, stupirai e spiegherai, traducendoli nella tua lingua, che sarà pur matrigna ma che in fondo ti ha dato molto di più di quello che trovavi qui. E sei ancora diverso o ti sei bruciato il cervello in qualche solitudine nuova dal sapore antico? Ieri sera ho visto un programma che ha fatto mio figlio su San Remo, c’erano canzoni che abbiamo vissuto assieme. Ho pensato che le canzoni parlano molto di noi e che non avere più coscienze critiche e canzoni che narrano la realtà ci costringe a confrontarci solo con la nostra. Le tue canzoni, dopo, sono state diverse e le mie sono scivolate nella musica antica. Lo sai che la nostra epoca assomiglia al 1600 per insicurezze, false notizie ed efferatezze? Ma in fondo è solo un modo per cercare similitudini a quello che non assomiglia e quando ci si trova dopo tanto tempo, non si sa di che parlare oltre la curiosità di capire dove sta l’altro. Questo è un paese per vecchi, ma tu lo sapevi già da giovane, questa era la tua diversità che si accettava con fatica.
Non sapere nulla mette tutto il possibile, ma mi hanno parlato di te, dell’agiatezza e della precarietà, dell’ultima volta in cui, per caso, hai parlato di te e di noi. Era tempo fa, in un luogo che non è luogo. In italiano apolide.
il giorno dopo san Valentino
Mi ha preso un’euforia leggera. Quel modo felice di vedere le cose, le persone che fa cogliere i particolari, pensando siano rivolti a me. Non come persona ma a me come attenzione e che dicano: finalmente ti sei accorto che ci siamo, c’eravamo anche ieri, anche prima, ma eri distratto, non ci mettevi nella tua vita. È uno stare che assomiglia al guardare il soffitto dopo aver fatto l’amore, quando ci si accorge che la luce disegna per suo conto e gli occhi si socchiudono sprofondando in una leggerezza stanca e felice. Sarà per reazione ma il giorno dopo la celebrazione luccicante degli amori, le cose scorrono lievi e naturali: la cortina breve di gelo nell’ombra cede al sole, l’aria ha già parecchia primavera dentro e mi pare di capire bene che amare non è un verbo ma una condizione personale, che ci riguarda e ha vie proprie.
Il giorno dopo san Valentino si può amare la limpidezza, il gesto, l’aprire una finestra su ciò che ci riguarda e dimenticare che giudicheranno il nostro amore. Parl3eranno di ciò che non sanno e non vedono, ma questo non li fermerà nel catalogare l’incatalogabile. Assomiglieremo, per chi guarda, a qualcosa di conosciuto anche se non è vero, però non importerà. Quello che c’è un giorno nell’anno non ci manca mai e anzi c’è di più nei giorni successivi o antecedenti perché è diverso prima di essere uguale.
Così mi piace il giorno dopo che non è un passato, mi piace ciò che è complicato da scrivere, da dire e a volte neppure facile da vivere. Mi piace scoprire che in ogni particolare c’è un pezzetto di quell’amore che fa vedere, che chiede di condividere. Cura anzitutto, è condividere: comunicare ciò che senti. E non importa se ciò che si racconta è grande o piccolo, è importante in sé, è un’attenzione prima che un’attesa.
Il giorno dopo san Valentino, ma ogni giorno in cui mi rendo conto che amare è una condizione necessaria e mai sufficiente, mi piace lasciare che questa sensazione avvolga, che incarti qualcosa che per commozione si scioglie e che imbeva questa carta di giornale, di realtà, facendosi più forte di essa. Mi piace pensare che essa coincida con l’infinito da scoprire e che ci siano parole così belle da pronunciare e che per questo non sono ancora state dette, ma sentite sì, intuite, accolte.
Mi piace fischiettare nei giorni che non sono san Valentino perché ci sei e questo toglie ogni vergogna al mostrarsi felice.
e forse bastava l’ultima frase a spiegare ciò che non si spiega