Tenere bene a mente questi nomi: Germania, Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia, Olanda, sono gli stati che diranno se si potrà trattare con la Grecia. Quelli che hanno più sovranità degli altri. Tenere a mente anche questi quattro nomi: Germania, Olanda, Estonia, Finlandia: sono quelli che devono approvare l’accordo nei loro parlamenti. Questi hanno ancora più sovranità. Voi pensate che un’Europa che umilia una Nazione e non ha nessun processo di unione dei popoli in corso abbia un futuro? In queste trattative non c’è stata una parola sulle miserabili condizioni del popolo prigioniero del debito, non una considerazione su chi si è arricchito, non un pensiero che considerasse sia le banche salvate che le aziende fallite, nulla sul lavoro perduto, sulla diseguaglianza cresciuta, sulla povertà acquisita.
Questa non è la mia Europa, non è quella di Spinelli, ma neppure quella di Adenauer e Schumann. Non è l’Europa dei socialisti e neppure dei democristiani che avevano conosciuto la guerra e la necessità del rispetto comune e della pace, Non è l’Europa che mette assieme ed esclude la volontà di potenza, questa è altra cosa e m’ interessa poco.
Non c’è nulla di nuovo e non s’è imparato nulla, non siamo più vicini, siamo prigionieri. E ciò che accade non promette nulla di buono perché ogni gesto verrà ricordato, ogni umiliazione tornerà a galla. E c’è un corollario in ciò che è accaduto: chi crea un debito pubblico ha una responsabilità che non è solo politica, ma personale. L’ha già fatto l’Islanda. È una cosa nuova, ci pensi chi governa: il popolo può chiedere conto, non solo la finanza internazionale.
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lasciami stare, va…
Un attentato al Cairo, le trattative segrete tra Europa e Stati Uniti su ciò che mangeremo, berremo, compreremo nei prossimi anni, la coda davanti ai bancomat della Grecia, un vecchio sconsolato che piange seduto a terra, una bambina appena salvata da un gommone che affondava e che stringe un orsacchiotto, un sindaco del nord che vieta le tende dentro una caserma perché non ci devono essere neppure quelle per ricoverare gli immigrati, la cattiveria gratuita di chi ha e che non vuole che altri abbiano qualcosa, gli occhi di una ragazza che fugge dalla Siria e quelli di un novantenne che scappa dallo stesso Paese, la rabbia che circola assieme alla violenza e colpisce gli inermi, i campi di guerra silenti che uccidono ogni giorno ma non fanno notizia, altri 186 corpi trovati a Srebrenica e seppelliti oggi, il Papa che parla della proprietà privata e traccia il limite tra essa e il bisogno, l’IS che progetta stragi e le compie ma trova sempre chi gli compra il petrolio, i morti davanti alle moschee all’ora della preghiera, i poveri che chiedono il necessario, il lusso sfrenato, la folla all’expo che parla di nutrire il pianeta ed è pieno di ristoranti, manovre di armate in nord Europa per mostrare i muscoli, persone che fuggono e che non stanno in piedi, le sofferenze indicibili e mute nel deserto, sulla riva, sulla barca, sotto a un camion, a piedi, una tromba d’aria e un uomo che dice: abbiamo perso tutto ma siamo vivi, la lettera disperata di un suicida, la follia che uccide i vicini, ecc. ecc.
Il mondo delle notizie cataloga e archivia, ma noi dove siamo in tutto questo? Cosa sappiamo di noi, cosa pensiamo del nostro futuro, mentre tutto ci accade attorno e l’inquietudine cresce?
Speriamo e vorremmo, ma cosa davvero perché questo sia il nostro mondo, la nostra realtà, il nostro presente che non s’accontenta e vuole il futuro.
libera nos
Libera i nostri occhi dal calzino bianco nella scarpa nera, dai sandali col fantasmino, dai calzoncini al ginocchio e dalle loro gambe bianchicce e magre.
Suggerisci la libertà della noncuranza elegante che allieta l’anima e il suo trasparire.
Fa che i corpi stiano bene negli abiti senza voler dimostrare nulla.
Lascia che i colori riposino nel pantone, che gli abiti lascino guardare i visi, che la bellezza trovi se stessa senza assomigliare a chi non è.
Difendici dai pois e dai quadri scozzesi messi nei posti sbagliati.
Tieni a bada i colori forti nelle città che si sciolgono e portali in vacanza verso il mare.
Fa che i cappelli siano sbarazzini e sobri.
Difendi l’estate dei nostri corpi dal cattivo gusto e toglici dal suscitar ridicolo in chi ci vede.
Fa che lasciamo tracce leggere con le nostre parole, perché esse, come alito, se profumano di menta e di fresco, rendono più bella la vicinanza.
pare che i pensieri siano in fondo piccole mail
Pare che di ciò che siamo, restino a noi le cose importanti. Che sia ciò che vive in noi, che siamo noi: difficile chiamarli ricordi. Così il bello che ci è stato dato cresce e diventa parte di ciò che si è, porta verso un sorriso, oppure a un moto di malinconia, ma vive e mai lascia indifferenti.
Pare, ma non ne sono sicuro, che mentre ci preoccupiamo del momento, chi ci ama si preoccupi di noi. Senta la notte come assenza e il giorno come possibilità quando non ci siamo.
Pare, che se mettessimo in fila i pensieri, le gioie, e tutte le piccole conquiste che abbiamo fatto sin da quando ci siamo fermati per la prima volta su quel sorriso che ci sorrideva, queste e molto d’altro, annullerebbero ogni peso, ogni fallimento, ogni sconfitta che abbiamo subito restando noi stessi. In fondo non ci perdoniamo il tradimento di quel noi che abbiamo dentro, e che è l’unica cosa che possiamo donare.
Pare, ma non ne sono sicuro, che qualche volta ci vogliamo bene, che ci curiamo non degli altri, ma di noi e che quando succede si riesca a ritrovare, tutti assieme, il bambino, il ragazzo, l’uomo che siamo stati e ancora siamo. E pare che tutto questo dia una grande forza e contentezza, e aiuti non poco, a vedere che si può andare avanti, perché è bello farlo. Magari solo a volte, magari per poco, ma è bello e si ripete.
semplicità
Semplice non è buono, ma fa bene. E quindi aiuta. Sulla terrazzetta il verde aumenta, chiede acqua e una piccola attenzione. Le aromatiche ringraziano. L’elicriso, la menta, il basilico si sporgono arditi e curiosi verso la piazza d’aria tra le case. Lavanda e timo, più contenuti, osservano. Il ribes nero cresce lentamente, le sue foglie verdi e forti, partecipano alla confusione di profumi. Eppure sono distinti, quando la notte, nell’innaffiare, passo la mano e me ne viene una nuvola intensa, che penso amica. Non come la seppia che schizza il suo nero, ma la risposta a una carezza col buono che si ha.
Il pomodoro cresce nei frutti, lascia sulle mani un odore forte, di verde sapore selvatico; l’ultimo cespo d’insalata si nasconde tra due piante di peperoncini piccanti, ciliegini, ora provocanti nel frutto rosso che avvampa. Oltre, i due girasoli crescono, il rosmarino per suo conto, il rafano potente, i piccoli garofani e qualche pianta grassa. I bulbi sonnecchiano assieme a due cespuglietti un po’ stenti di lantana.
La vita semplice è verde, l’avete mai notato? Ed è pure generosa perché restituisce molto più di quanto riceve.
tempo proprio
Gran parte del nostro tempo cosciente lo cediamo ad altri. Per fortuna siamo fatti talmente bene (o male per l’economia di rapina) che il sonno e il sogno ci sono dovuti. E questa felice incoscienza dei ruoli e delle necessità ci riporta a noi. Ma oltre a questa necessità, ognuno sceglie dei momenti che contengono l’amore per sé. Se posso regalare, scialacquare il tempo del giorno, il risveglio e la notte devono essere miei. E sono due momenti diversi in cui mi conformo alle mie nature.
Per alcuni il dire d’avere più nature adombra la duplicità, l’essere più persone, insomma l’essere infidi per la prevedibile normalità. Per altri nature ricorda la nudità dell’assenza di obblighi. Preferisco la seconda anche se potrei vantare l’ esser nato sotto il segno dei gemelli, ma per me, sono i gemelli che mi rincorrono nei loro oroscopi, non io che ascolto loro. Il vaticinare individua la nostra natura, non il nostro futuro, esso è conseguenza d’ essa. Cioè noi siamo i nostri bisogni e desideri e quale momento migliore del mattino, quando il sogno ha ceduto alla luce per trovare l’attimo lungo della sospensione e della libertà?
Al mattino sono il profumo del mio caffè, il pane che si tosta, la luce che invade la stanza, i tetti che non cessano di piacermi, le rondini che volteggiano e riempiono la piazza d’aria tra le case. E sono i miei tempi lenti, la mezz’ora prima del necessario perché necessario è non avere fretta e così dev’essere la cura della mente e del corpo. Sono la prima musica e le prime parole, il pensiero che vaga e si sofferma, sono il preannuncio della giornata senza assillo. Sono l’attesa senza fretta, l’accadere nuovo, il boccone di pane imburrato che mi stupisce per la sua pienezza. Sono una parola scritta per non dimenticarla, sono tutto quello che ancora non è preso da altro. Insomma sono. Poi verrà la giornata, le corse, le telefonate, i chilometri, la stanchezza del ripetere, i problemi che se fossero facili non te li darebbero da affrontare.
Te li darebbe chi? Questo chi in realtà contiene anche me, la mia volontà, nel contratto in cui si presuppone la responsabilità, ma questo è un altro discorso. Farebbe parte della libertà, del contrarre tra eguali, e spesso si sceglie di non essere eguali. Voglio dire che la dignità nel lavorare, nel fare, è una educazione severa di sé, faticosa perché presuppone una serenità interiore che semplicemente fa dire di no quando serve. Ma questo è l’altra natura e al mattino non ci pensa.
E neppure la sera ci pensa. Passa la giornata e arriva la notte e si ripete la magia del ritrovarmi intero. Intero significa corpo, sentire, anima, pensiero, tempo proprio e libertà di non avere obblighi. E’ il raccogliersi per la notte. E anche quando si veglia, la notte ci possiede e la possediamo, ciò significa che essa è uno spazio in cui siamo. La notte esalta ciò che manca e ciò che si ha, mette a confronto i desideri con la quiete, il bisogno con la regola interiore.
Siamo tutto questo: ossimori. Solo la parola sente la contraddizione dell’ossimoro, non noi, che abbiamo più nature, più età, più generi se non c’accontentiamo. La notte con i suoi silenzi, i rumori lontani, le abitudini che preparano il sonno (meglio sarebbe pensare che preparino il sogno ovvero l’altro da noi) ha per ognuno i suoi codici. Sfortunato colui che dorme e basta, sfortunato chi non conosce la zona tenue in cui si addensa il pensiero della saudade, sfortunato chi non conosce la soddisfazione dell’ultima riga letta e ripetuta prima che gli occhi si chiudano, sfortunato chi non ha un desiderio dolce, un pensiero che prende, una mancanza che attende. Poi il sonno e il sogno e di nuovo un mattino. Mai lo stesso, se lo si vuole, come il tempo. Il proprio tempo. Non quello ceduto espropriato, regalato, rubato, il proprio tempo, la propria possibilità, quella che nessuno potrà mai prenderci se noi non vogliamo. E ciò che di più alto possiamo donare senza alcun eroismo è proprio questa nostra quiete dedicata: un me per te.
A uno solo, due sarebbero troppo.
stanchezza
Sposto di poco un quadro; si vede la linea grigia del tempo. Segni in una stanza dove le pareti sono impregnate di me eppure indecise sul da farsi. Tentano e si guardano chiedendo se va bene. L’indecisione fa parte delle cose che non sanno mai che fare, dove stare, con chi stare. Quasi tutte sarebbero superflue, ma è quel superfluo necessario. Almeno un poco perché le nostre vite semplici non sono monacali, vogliono la semplicità ma anche l’essere libere da regole troppo severe. C’è già il super io con cui fare i conti, il resto dovrebbe essere un continuo spogliarsi degli abiti ricevuti.
Pulisco il muro, allineo le cornici. Ovunque guardi questi muri mi parlano; sono conseguenza di un immaginare coniugato all’essere, alla realtà. Quindi approssimano. Accade a tutti, o almeno a quelli che rifiutano un ordine esteriore imposto. Per questo sposto quadri e oggetti, tolgo e aggiungo. La casa è uno spazio quieto. Quasi sempre lo è. Però è uno spazio mobile. Le corse e il nuovo vi arrivano filtrati; sarà perché nella casa a propria immagine si può depositare l’inermità della stanchezza? La stanchezza viene da fuori, la distendo sulla chaise longue, la faccio sciogliere in un libro scelto a caso, la svuoto in una musica che conosce la battuta che segue. Insomma la tratto bene e col giusto tempo.
Tra le tante stanchezze, quella del dover fare, del ruolo, del dover essere è tra le peggiori. Puzza di libertà decomposta, di ragioni trovate per farsene, appunto, una ragione. Non ha la limpidezza del sudore, ma l’unto di ciò che non era nostro. E non basta una dormita e via, bisogna toglierla dall’anima. A questo servono i luoghi propri, a togliersi quegli abiti imposti e sentire la pelle.
tempo 2.
Frammento sulla fine della giovinezza …
Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.
Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.
E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.
svolte
L’edificio è al buio, ha avuto luce a lungo e ora si appresta per la notte, ma sopra la luce lo investe e sembra a lui inutile. Non a me che lo vedo e che colgo l’edificio e il cielo, assieme, congiunti.
Noi siamo struttura. Stanze comunicanti con corridoi. Pertugi e passaggi. Cantine e soffitte. Belli o brutti secondo il gusto del tempo. Solidi e fragili. Contenitori di pensieri, insomma. Ma dietro di noi, o in alto, cosa c’è. A malapena ci giriamo, guardarsi attorno sembra sia insicurezza, eppure qualcosa ci aspetta e pensa per suo conto a ricombinare le nostre scelte.
Nella mia vita ci sono state svolte. Parecchie. Non ho avuto percorsi lineari. Alcune svolte, importanti e inattese, mi hanno fermato per un momento sulla soglia, poi la sconsideratezza mi ha spinto oltre. Saggiare, imparare, usare l’umiltà di non sapere. Non so cosa sia rimasto poi, a me molto.
Altro mutare era collegato al sentimento. All’attrazione, che si trasforma, interpella, vuole una risposta precisa, ma è già amore. Queste sono svolte che mutano dentro. Forse il per sempre di cui parlano, è questo: l’essere definitivamente mutati.
Il lavoro spesso mi ha chiesto di osare. Mettere lo sguardo appena oltre quello che pensavo un limite, una condizione acquisita. Per un po’ nasceva silenzio e solitudine. Ma cosa tempera il silenzio se non la voglia di creare, di fare qualcosa che a partire da condizioni date muti il luogo in cui siamo finiti? Il silenzio così trovava le sue parole.
E’ un caso? Non credo, come per ogni possibilità c’è stato qualcosa che dentro di noi l’ha generata. Allora è vero che siamo struttura, ma anche divenire, sogni, luce che investe dall’alto. Come il cielo oltre l’edificio, nella sera che osa la notte, nel giorno che resiste, nella mattina che attende.
Noi, me. Non solo connessioni e stanze, abitudini e attese.
Ieri era così buio.
Non solo.
miles
Noi così pieni d’amore e di disperazioni, di baratri nelle coscienze, di icone e santi laici.
Noi così pieni di sentimenti fatti di silenzi, di forza e di fragilità, di battaglie perdute e di speranze.
Noi così pieni di senso del limite, di rivoluzionarie gentilezze, di stanchezze immani, di parole piene d’ amore.
Noi così pieni di sogni e di certezze, di dubbi e di voglia di capire.
Noi che quando vinciamo ci chiediamo come sta chi perde.
Noi che ogni volta che cadiamo diciamo come da piccoli: fatto niente e riprendiamo a correre.
Noi che contiamo le cicatrici e guardandole ci sembran belle perché, ogni volta, gli occhi e il cuore si sono riempiti di sangue, lacrime e sorrisi.
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