quisquilie

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Mettere a posto un particolare, una cosa minuta che nessuno noterebbe. Prendere qualcosa da uno scaffale seguendo un pensiero. Accanirsi nel riparare un oggetto che non vale nulla, eppure vale. Cose importanti a noi, in quel momento, urgenze che celano la mania. Qual era la mania che ci avrebbe fatto grandi, quella che se portata a compimento avrebbe colmato quella crepa con il noi  irrealizzato? Ed essa che relazione ha con la felicità? La stessa felicità  che s’affaccia quando tutto va a posto e ritrova un ordine solo nostro, una tranquillità e un deporre le armi.

Quisquilie

frammenti

(Ci) Sono sempre frammenti da ricomporre anche se pare tutto intero.
E tutto quello che non scegli mica si dilegua.
Ma ogni tanto torna. E queste storie che sembrano compiute non si compiono per davvero.
Capisci che c’è un principio e un’apparente fine.
Ma qualcosa torna sempre. Resta ed è un fantasma piccolino che sorride e poi scompare. E tu mica hai capisci cos’è rimasto ancora.
A volte mi par d’essere la stazione degli autobus. Sono tutti così uguali.
E magari chi parte ti pare di conoscerlo perché sembra quello che da poco è arrivato.
Invece è diverso com’è per ogni storia nuova. O almeno così sembra.
E allora penso all’Africa, ai suoi pulmini colmi di persone, di fagotti di cui non è possibile far senza, però se lo perdono mica ci pensano poi troppo.
Forse è nostalgia di colori e di precarietà che si respira assieme, di profumo di persone che sperano così forte che si sente, e ti contagia come un’allegria.
Oppure è quel viaggiare che va in ogni posto e non si ripete mai, che riapre storie.
È che ognuno raggiunge qualcosa di suo, quando deve, ma quando si può chissà se mai finisce.                                           E forse loro non han frammenti da riattaccare. E neppure gran motivi per restare in quel posto che sembra non bastare.
E forse neppur hanno i fantasmi piccolini che gli fanno compagnia di tanto in tanto.
Forse.
Ma magari è differente e non si capisce bene.
E allora penso che non ci sia una regola.
Non una che vale poi per tutti.

bianche e perfette

Pare un buon segno al cuore

che, tra i vasi, 

il rosmarino, la lavanda, l’elicriso,

due uova bianche, piccole, 

perfette,

siano d’una coppietta di colombi.

Lui grigio, un po’ indeciso nell’attesa,

lei tenera di bianco

e già solerte nel saper che fare.

Han fatto un letto di legnetti,

dove posare quel perfetto bianco

e attendono pazienti,

ed io con loro,

che il miracolo si ripeta

allegro.

 

da est verso ovest

Stasera, tornando, avevo le Alpi Carniche alle spalle. Erano avvolte da temporali e i picchi emergevano tra nubi nere. Sono belle queste dolomiti, un po’ neglette, poco frequentate e i paesi non hanno quel kitsch che tutta la parte bolzanina e trentino veneta si sono trascinati dall’Austria. Ti sarebbe piaciuto vederle. Un pomeriggio mi fermai apposta a Ponte Rosso per guardare. Seduto a un bar di zona industriale, guardavo verso le cime che apparivano improvvise e nette tra le nubi che correvano. Credo di aver suscitato qualche commento tra gli avventori frettolosi che si chiedevano cosa quel tizio guardasse, tanto che mi chiesero, oltre all’ordinazione, se avevo bisogno di qualcosa, ma era di quiete che avevo bisogno e questa non si può ordinare al bar. Stasera invece ero solo, guidavo e guardavo. In autostrada ci sono questi ponti, che l’attraversano, semplici, tesi e dritti, con una ringhiera un po’ alta e qualcuno che guarda. Sono cinque, sei travi che poggiano su due rampe. Lì sotto, oggi, c’erano macchie di sole e sopra vedevi un grigio asfalto a pennellate larghe, che a volte sfumava in azzurro. Solo che quel grigio era il cielo, mentre l’asfalto, quello vero, marezzava di giallo. Ho avuto modo di guardare con attenzione quei ponti: rompono la vista, l’orizzonte, forse servono anche a non distrarsi e sono poco frequentati perché attorno c’è la campagna. Mi parevano dei boccascena. Solo che oltre si vedevano case, fabbriche, alberi senza confini, qualche macchia di pioppi da cartiera.

Sono arrivato al Piave e il ponte, lunghissimo, oscurava la vista laterale con transenne molto alte. Però qualcosa si vedeva comunque. E’ strano che sul ponte del fiume sacro alla Patria non ci sia un posto dove fermarsi. Non si può pensare, meditare su quello che è accaduto su quelle sponde: nel secolo scorso la guerra e il Vajont e non solo. Quest’anno, da giugno è stato quasi sempre una serie di pozze che comunicavano, immagino, carsicamente, e faceva pena quel mare di ghiaia, arido, senza una idea di fiume. Potevano chiamarlo: fiume secco alla Patria non sacro. Ma è spesso così, ormai più che un corso d’acqua è una nozione: lunghezza del ponte, nome, cartello. Però oggi, stranamente c’erano larghe vene d’acqua che attraversavano la ghiaia. Poca cosa, ma almeno aveva la parvenza d’un fiumicello.

Pensa che gli hanno cambiato nome perché la virtù mascolina del fare la guerra non sopportava che il fiume avesse un nome femminile: la Piave. Bisognava provvedere, ci pensò D’Annunzio. Anche la fronte non andava bene e la mutarono in il fronte. Le donne mica potevano assaltare, resistere al nemico, dovevano allevare i figli, dargli da mangiare non si sa come, e piangere compostamente i morti. Senza disturbare. Quei femminili nei fiumi e nelle cose di guerra davano fastidio  e così senza saperlo hanno genderizzato le cose, gli hanno cambiato sesso mantenendone la funzione.

Oggi comunque la Piave ti sarebbe piaciuta. Ho rallentato, cambiato corsia e ho visto quell’acqua limpida in mezzo ai sassi bianchi. Sarebbe stato bello sedersi con i piedi nell’acqua e guardare il grigio sui monti che contrastava con il biancore dei sassi. È tutta questione di luce, le cose diventano nette e anche i pensieri lo fanno. È durato poco ma quell’acqua mi ha fatto bene, c’era la continuità delle cose, la corrispondenza con le parole. Ho pensato che se anche era un fiumetto, uno di quelli che abbiamo a iosa tra i nostri campi e a cui nessuno penserebbe di cambiare nome, però questo era il fiume della Patria e che forse anche tutto quel bianco che rifletteva il cielo e faceva risaltare il verde dei campi era fiume e Patria. Così com’è adesso. Sulla Piave non ci sono argini, forse perché non ha mai troppa acqua. Ho pensato che quando accade che ce ne sia molta, di acqua, allora la Piave porta sfiga, quindi è meglio così: si vede che le centrali idroelettriche pensano alla nostra salute oltre che ai loro profitti.

Il cielo davanti era indeciso tra scrosci d’acqua e sole a manate, come se la stagione fosse in bilico e non sapesse più bene dove andare. Ho pensato che le facciamo correre troppo le stagioni, neppure ci accorgiamo di quello che ci dicono. Bisognerebbe fermarsi, ma un grill non è una cosa ferma, è parte della corsa. E noi dobbiamo sempre arrivare da qualche parte. Rallentare fa parte del vedere e del raccontare ciò che si vede, e oggi ti sarebbe piaciuto fermarsi assieme, scambiare il silenzio e qualcosa di quello che vedevamo.

ascoltavo:

del Kronos quartet parleremo:

il volo notturno

Ci sono un sacco di animali e di cose che volano. Non pochi sono fastidiosi, alcuni allegri,  lo  sono senza saperlo. Volano perché sanno farlo, ce l’hanno nell’essenza e nel dna. Che poi è la stessa cosa. Questo mi farebbe pensare che anche ciò che chiamiamo anima sia in relazione profonda con ciò di cui siamo fatti e dialoghi col dna. Io non volo, ma se volassi non credo sarei fastidioso. Questa notte ho sognato che volavo. Non era un volo d’uccello e neppure un volo planato, era un muoversi armonico di gambe e di braccia che mi manteneva in aria. Come l’aver trovato, finalmente, ciò che permette di appoggiarsi sulle molecole e stare sospesi. Stavo bene nel mio muovermi lento e fluido, sentivo che non pesavo e l’aria interagiva con me. Eravamo amici e senza peso entrambi. Un uccello, un insetto, un aereo anche se volano hanno peso, io non pesavo ed ero contento. E forse stanotte, a loro modo, la fantasia, l’anima, i sogni, parlavano col mio dna.

l’apparenza chi inganna?

Nell’apparire, cioè nel conformarsi ad altri, c’è lo straccio passato sul mobile, la spugna sul secchiaio,  i libri spostati da dove erano utili, l’asciugamano pulito e cambiato perché stropicciato.

Dentro e fuori ci si predispone a un giudizio e questo non sarà sulla verita, ma su regole che chissà chi avrà stabilito. L’ordine esteriore contrasta con quello interiore, e per fortuna è così perché io sono il mio disordine, la mia non conformita, le mie cose eccessive,  i miei odori discreti,  la mia sciatteria oziosa, le mie frette improvvise. Le mie passioni non devono essere spiegate, gli angoli pieni di oggetti, apparentemente senza senso, sono le mie curiosità. Insomma, il mio disordine è vivo, unico e solo riferibile a me, il resto non mi appartiene e se mi adeguo, è per il minimo tempo indispensabile a non farsi porre domande. Ecco a cosa serve l’ordine: a non rispondere perché non si ha voglia di dire, di raccontare cosa ci sta dietro, ma da giustificare non c’è nulla, proprio nulla.

semplicità

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Semplice non è buono, ma fa bene. E quindi aiuta. Sulla terrazzetta il verde aumenta, chiede acqua e una piccola attenzione. Le aromatiche ringraziano. L’elicriso, la menta, il basilico si sporgono arditi e curiosi verso la piazza d’aria tra le case. Lavanda e timo, più contenuti, osservano. Il ribes nero cresce lentamente, le sue foglie verdi e forti, partecipano alla confusione di profumi. Eppure sono distinti, quando la notte, nell’innaffiare, passo la mano e me ne viene una nuvola intensa, che penso amica. Non come la seppia che schizza il suo nero, ma la risposta a una carezza col buono che si ha.

Il pomodoro cresce nei frutti, lascia sulle mani un odore forte, di verde sapore selvatico; l’ultimo cespo d’insalata si nasconde tra due piante di peperoncini piccanti, ciliegini, ora provocanti nel frutto rosso che avvampa. Oltre, i due girasoli crescono, il rosmarino per suo conto, il rafano potente, i piccoli garofani e qualche pianta grassa. I bulbi sonnecchiano assieme a due cespuglietti un po’ stenti di lantana.

La vita semplice è verde, l’avete mai notato? Ed è pure generosa perché restituisce molto più di quanto riceve. 

stanchezza

Sposto di poco un quadro; si vede la linea grigia del tempo. Segni in una stanza dove le pareti sono impregnate di me eppure indecise sul da farsi. Tentano e si guardano chiedendo se va bene. L’indecisione fa parte delle cose che non sanno mai che fare, dove stare, con chi stare. Quasi tutte sarebbero superflue, ma è quel superfluo necessario. Almeno un poco perché le nostre vite semplici non sono monacali, vogliono la semplicità ma anche l’essere libere da regole troppo severe. C’è già il super io con cui fare i conti, il resto dovrebbe essere un continuo spogliarsi degli abiti ricevuti.

Pulisco il muro, allineo le cornici. Ovunque guardi questi muri mi parlano; sono conseguenza di un immaginare coniugato all’essere, alla realtà. Quindi approssimano. Accade a tutti, o almeno a quelli che rifiutano un ordine esteriore imposto. Per questo sposto quadri e oggetti, tolgo e aggiungo. La casa è uno spazio quieto. Quasi sempre lo è. Però è uno spazio mobile. Le corse e il nuovo vi arrivano filtrati; sarà perché nella casa a propria immagine si può depositare l’inermità della stanchezza? La stanchezza viene da fuori, la distendo sulla chaise longue, la faccio sciogliere in un libro scelto a caso, la svuoto in una musica che conosce la battuta che segue. Insomma la tratto bene e col giusto tempo.

Tra le tante stanchezze, quella del dover fare, del ruolo, del dover essere è tra le peggiori. Puzza di libertà decomposta, di ragioni trovate per farsene, appunto, una ragione. Non ha la limpidezza del sudore, ma l’unto di ciò che non era nostro. E non basta una dormita e via, bisogna toglierla dall’anima. A questo servono i luoghi propri, a togliersi quegli abiti imposti e sentire la pelle.

tempo 2.

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Frammento sulla fine della giovinezza … 

Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.

Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.

E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.

svolte

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L’edificio è al buio, ha avuto luce a lungo e ora si appresta per la notte, ma sopra la luce lo investe e sembra a lui inutile. Non a me che lo vedo e che colgo l’edificio e il cielo, assieme, congiunti.

Noi siamo struttura. Stanze comunicanti con corridoi. Pertugi e passaggi. Cantine e soffitte. Belli o brutti secondo il gusto del tempo. Solidi e fragili. Contenitori di pensieri, insomma. Ma dietro di noi, o in alto, cosa c’è. A malapena ci giriamo, guardarsi attorno sembra sia insicurezza, eppure qualcosa ci aspetta e pensa per suo  conto a ricombinare le nostre scelte.

Nella mia vita ci sono state svolte. Parecchie. Non ho avuto percorsi lineari. Alcune svolte, importanti e inattese, mi hanno fermato per un momento sulla soglia, poi la sconsideratezza mi ha spinto oltre. Saggiare, imparare, usare l’umiltà di non sapere. Non so cosa sia rimasto poi, a me molto. 

Altro mutare era collegato al sentimento. All’attrazione, che si trasforma, interpella, vuole una risposta precisa, ma è già amore. Queste sono svolte che mutano dentro. Forse il per sempre di cui parlano, è questo: l’essere definitivamente mutati.

Il lavoro spesso mi ha chiesto di osare. Mettere lo sguardo appena oltre quello che pensavo un limite, una condizione acquisita. Per un po’ nasceva silenzio e solitudine. Ma cosa tempera il silenzio se non la voglia di creare, di fare qualcosa che a partire da condizioni date muti il luogo in cui siamo finiti? Il silenzio così trovava le sue parole.

E’ un caso? Non credo, come per ogni possibilità c’è stato qualcosa che dentro di noi l’ha generata. Allora è vero che siamo struttura, ma anche divenire, sogni, luce che investe dall’alto. Come il cielo oltre l’edificio, nella sera che osa la notte, nel giorno che resiste, nella mattina che attende.

Noi, me. Non solo connessioni e stanze, abitudini e attese.

Ieri era così buio.

Non solo.