C’è una parola veneta, transete, che probabilmente deriva dal latino transeat, ed esprime il portar pazienza, il farsene una ragione. Credo sia un sentimento comune che, ad onta delle dichiarazioni roboanti, della fiducia distribuita a piene mani, coinvolge il Paese e i suoi abitanti. Però questo attendere che passi non ha la filosofia e gli occhi antichi di chi ne aveva viste tante e sapeva che anche i forti, gli arroganti, i dominatori, passavano davvero, ma è più una sfiducia sulla possibilità di cambiare. La mobilità sociale non esiste più, i dati sul l’occupazione migliorano ma se si guarda a cosa c’è dietro, oltre al modo di rilevarli ( basta che una persona lavori un giorno a settimana per definirla occupata), c’è un mondo di voucher, di lavori presi e lasciati, di nero che paga in parte in regola e un terzo dei giovani senza occupazione. E questo non è un dato transitorio, ma ormai strutturale se non si interviene sulle modalità di lavoro. Il sud cresce più del nord, è un buon segnale ma significa anche che il nord non cresce più, che le banche cedendo i crediti difficili, oltre ai mutui, cedono i prestiti fatti alle aziende in difficoltà e le condannano a morte. C’è un corpo ferito che aspetta succeda qualcosa che lo riguardi davvero, che il profluvio di parole porti via la spazzatura della corruzione, dei furbi che infestano ogni angolo di vita, aspetta, ma non fa, non si muove.
Un politico che stimo, ai suoi tempi democristiano, si chiedeva qualche giorno fa, cosa fa la sinistra di fronte ai grandi problemi dell’immigrazione, della povertà crescente, dell’insicurezza e del terrorismo diffuso. Diceva che una risposta la destra la dava ma mancava quella della sinistra. Solo che parlava del PD e il PD non è la sinistra ma al più un centro riformista che contiene pulsioni minoritarie di sinistra. E allora la domanda è: cosa fa il centro riformista di fronte a questi problemi, come pensa di rispondervi con un liberalismo che è l’antitesi del cambiamento reale dello status quo? Anche la risposta al terrorismo che dice di vivere in una normalità, di non cambiare le proprie vite è una non risposta perché quella normalità di cui si parla è un terreno in cui cresce la pazzia omicida, il rifiuto violento, l’ommissione della gravità dei problemi e la difficoltà della loro soluzione. La normalità in un mondo globalizzato e interconnesso, cos’è?
Far finta di niente e sperare che passi, ma se non passa? Una ricetta sull’affrontare l’ineguaglianza crescente, l’impoverimento delle classi medie, l illegalità e là corruzione come prassi economica e sociale è stata proposta dalla sinistra. Sanders negli Stati Uniti propone soluzioni, Pichetty assieme ad altri economisti ha trovato modo di rappresentare correttivi economici. Molti altri si sforzano a mostrare una realtà che se si vuole mutare esige tempi lunghi e azioni costanti di riequilibrio sociale, economico. Ma questo elettoralmente non paga, chi vuole passi, lo vuole subito e soprattutto non ha intenzione di coinvolgersi nel mutamento. Così il problema non sono le proposte ma quanto queste possano diventare un orizzonte condiviso, un modo per costruire le vite. Ripeto bisogna chiedersi cos’è la normalità e se quella attuale è quella che vogliamo conservare. Questo è un tema di sinistra ma anche di tutti quelli che seppelliscono l’insoddisfazione in una attesa catatonica di qualcosa che comunque verrà ma non sarà quello che si voleva perché fatto da altri e per altri fini.
Archivi tag: considerazioni personali
abitudini e passioni
Uno dice: sono un buon camminatore e si riferisce ad esperienze passate, a quanto volentieri ha camminato, alle imprese piccole o grandi ormai lontane.E magari conosce la fatica del camminare, ma ne ha voglia?
Oppure uno dice: sono un buon amatore e lo dice per ciò che è stato fino al primo cilecca o fino al disinteresse per l’attività sessuale. Parla di un passato magari recente e soddisfatto e di quello che presume di essere ora.
Oppure uno dice: mi piace molto scrivere e lo fa fino al primo vuoto di senso, fino alla percezione del pretesto, fino alla pagina bianca.
Vale anche per l’apprendere e per chissà quante altre passioni che diventano competenze. Ho la sensazione che le passioni quando si spengono diventino abitudini e non di rado presunzioni. E che questo sia ciò che accade a quello che non è mestiere, forse bisognerebbe allora, coltivare il desiderio, impedirgli di esaurirsi nel limite, farne un motore per vivere in simbiosi con la necessità. Ma se in qualche milione di anni di crescita tutto questo non si è sviluppato non è che ci siano molte speranze. Certo non è così per tutti ma a quelli che trovano l’equilibrio tra desiderio e necessità non muta il gene e non lo trasmettono. E così ciascuno procede per suo conto cercando equilibri, presumendo, vantando e facendosi domande sulle passioni che scivolano nell’abitudine.
il buon senso
Il buon senso di stare zitti prima di verificare. Di capire prima di colpire. Il buon senso di occupare lo spazio dei sentimenti, l’odio, l’ira, con buone ragioni. IL buon senso di usare la ragione per comprendere il limite: il proprio anzitutto.
Ma c’è una glorificazione dell’impulso, come se esso avesse una verità più alta. Un essere vicino alla propria natura, stranamente la stessa di chi ci offende, di chi persegue e ferisce.
Come chiedere buon senso all’impulso? In esso si confonde il liberarsi dai vincoli che tutti abbiamo, con l’entrata a gamba tesa: ti spacco una gamba, non giocherai più.
Non cercate significati reconditi in quello che dico, è solo la constatazione che tra educazione ai sentimenti e istinto c’è una differenza profonda. Di civiltà, anzitutto.
E incazzarsi per una ragione vera o una buona causa è infinitamente più efficace per noi, che il regolare la contabilità quotidiana: qui non ho avuto, qui non ho dato, qui poteva essere e non è stato. Mai una domanda sul perché che riporti a noi, un auto esame che faccia dire dove qualcosa è mancato. Non la colpa, ma la falla. Sono le abitudini e il presupporre che ci uccide il futuro, ma tutto costa fatica e cambiare più di tutto. Tant’è vero che si dice con malcelato orgoglio: io non cambio mai.
sw hd
Contando su molte pazienze ho conservato software datato, bello, non più riproducibile sui sistemi attuali e così ho conservato anche l’hardware necessario. In informatica ciò significa sistemi operativi, manuali, vecchi pc, ecc. I programmi sono incredibilmente lenti e schematici, richiedono pazienza per installarsi e poi faticosamente funzionare. Tutto è apparentemente semplice, anche se emergono raffinatezze deliziose fatte per sopperire l’esigua potenza di calcolo a disposizione. Non è diversa la situazione nella riproduzione del suono, anche se più immediata e facile: sono rimasti i giradischi, i lettori di cassette, i riduttori di rumore, registratori a nastro, bobine, cassette. Un sacco di meccanica datata, di elettronica tangibile fatta di circuiti stampati con piste di stagno, resistenze, condensatori e transistor visibili. Ci sarebbe anche qualche valvola ma è meglio non esagerare. Ronzano pianissimo piccoli motori elettrici controllati da elettroniche, cinghie e pulegge, trasformatori toroidali, lucine non ancora led. E i suoni escono gagliardi, a volte imperfetti per età, altre volte così nitidi e sorprendenti da provocare l’emozione del concerto dal vivo. Nulla è mai piatto e scontato nell’uniformità.
In questa memoria fatta d’immagini e suono, i programmi allora raffinati e “pericolosi” per la capacità di elaborare dati in proprio e non d’essere ostaggio dei dati altrui, appaiono anacronistici nell’età dell’identità consegnata all’ammasso. Pur con la meraviglia di allora per la tecnologia, vi si trova disseminata nella costruzione e nell’uso, una resistenza al digitale che è predilezione per l’analogico ovvero per l’approssimare sino a coincidere nell’infinita scelta che sta tra lo zero e l’uno scomposto in frazioni. Tutto questa ferraglia funzionante è ormai storia sociologica prima che cronologia di eventi e rivaluta l’inutilità come strumento per capire il mutamento. Il presunto progresso è stato una cessione infinita di originalità e differenza, prima economica a pochi monopolisti, poi personale, a infinite banche dati che non prevedono più, ma orientano i nostri gusti, le scelte, ciò che è importante da ciò che apparentemente non lo è. Un gigantesco presumere collettivo dell’utilità che stabilisce il primato della tecnologia sul progresso, dell’io presunto sul noi consapevole. Tra non molto la posta scomparirà, la scrittura come la capacità di far calcoli diventeranno curiosità, l’intelligenza per una ricerca su libri come potenzialità propria e non del motore di ricerca diventeranno residui di capacità. Come la mia musica registrata e non ripulita digitalmente, riprodotta da altoparlanti precisi come lenti Leitz, e molto fedeli. Analogicamente fedeli. Il fatto è che per disattenzione si è perduta la capacità inventiva e sognatrice dell’inutile e introdotta l’insaziabilità della perfezione. Il perfetto elimina tutto ciò che non lo è e quindi non è strumento ma demiurgo di presente e di futuro. Orienta l’ingegno all’interno dei suoi parametri, fissa limiti e confini oltre i quali ci sono esseri inutili e bizzarri che si nutrono di particolari, di connessioni singolari, di analogie. Una riserva da tollerare ma inutile, profondamente inutile a cui si deve scegliere di appartenere. Per l’appunto.
non noi
Le mie, le tue, erano spesso virtù ineguali,
lasciate all’estro che pescava dal profondo,
e di tanta oscurità il colore ne soffriva,
il voler essere cangiante era prigione:
parlavamo d’altro eppure eravamo incredibilmente prossimi e vicini,
chi s’intendeva di magie avrebbe conosciuto l’assonanza,
non noi, così aperti e chiusi,
non noi che donavamo senza risparmio e conto,
eppure di quella necessità d’essere riluceva l’assenza,
il grido acuto che non aveva parole,
non ancora,
o forse mai,
nell’occasione ripetevamo l’io, la necessità, il bisogno,
mentre da tutto il vero urgeva il noi,
l’allacciarsi nell’assoluto, e ancora il noi.
dell’urtare la sensibilità
Discutevamo, ieri sera, tra persone che si conoscono. Eravamo, in una stanza accogliente, fresca d’aria condizionata, mentre fuori restava il rumore, e una città bella immersa nell’umidità e nel calore della notte. Discutevamo, si fa ancora, non stupitevi, dei guai della sinistra italiana ed europea. Dei problemi evidenti del mondo e dell’incapacità di dare loro una risposta, una soluzione. Risposta e soluzione sono azioni diverse, la prima appartiene a chiunque governi, ed è il terreno su cui dovrebbe venire giudicato, la seconda è di chi analizza e imposta il cambiamento della società. Ecco, alla sinistra spettano risposte che siano coerenti con le soluzioni. Da questa premessa deriva un’ analisi e una coscienza del mondo che parte dall’uomo e dai suoi problemi e deve indicare soluzioni. Si discuteva con convinzione e finché noi accennavamo ai problemi di comprensione, alle incapacità che pervadono tutti quelli che hanno coscienza della complessità, ma anche dei bisogni della società, un tir intenzionalmente disseminava morte, uccideva donne, uomini, bambini a Nizza. Uccideva cercando le vittime, voleva uccidere persone inermi, quante più possibile, in una parte della città destinata all’incontro, alla piacevolezza dello stare assieme.
Leggendo le notizie a notte fonda, mi era tornata alla mente la pazzia del pilota che ha schiantato l’aereo sulle alpi francesi. Ma questa non era pazzia e ancora una volta avveniva un massacro, in una città francese, europea. I massacri oscuramente si pensano destinati ad altre parti del mondo: Bagdad, Islamabad, Damasco, Istanbul, Kabul oppure Nairobi, Abuja, Mogadiscio o ancora le Filippine, o l’Indonesia o in altri cento luoghi che sono semplicemente più lontani di Nizza. E se essi accadono mentre noi ignari, come ieri sera, parliamo d’altro, si allargano le braccia: è il mondo. Ma adesso si sente l’alito della bestia, che s’avvicina, e con essa il pericolo. Si estende l’insicurezza, subentra il senso di inanità, l’incapacità assoluta ad affrontare la realtà se è vicina. E allora il discutere diventa vuoto, la prospettiva inutile e la dittatura del reale e del presente subentra al ragionare, al cercare soluzioni. Emerge la nostra misura che oscilla tra il voler comunque contare in una soluzione oppure nello sperare fatalistico che tocchi ad altri.
Repubblica on line e altri quotidiani nel riportare le fotografie del massacro mettono come prima immagine un riquadro nero con la scritta: queste immagini possono urtare la vostra sensibilità. E’ una scritta ambivalente che mette in pace la coscienza di chi pubblica, che attiva quelli che cercano sensazioni forti, che accentua il rifiuto della realtà degli altri che guardano ma non vorrebbero vedere. E prima di vedere l’orrore, mi chiedo cosa sia oggi la mia, la nostra sensibilità, e cosa essa possa produrre di concreto, perché la sensibilità orienti e rafforzi effetti gestiti da altri.
A cosa sono sensibile? All’immagine della bambola accanto a un corpo che non ha più calore e vita, avvolto in un lenzuolo riflettente, al bambino annegato e deposto sulla spiaggia , all’altro bimbo che si trascina esausto mentre un avvoltoio lo guarda e aspetta? A cosa sono sensibile e cosa provoca in me questa sensibilità?
Posso accontentarmi dell’orrore, della rabbia, della ritorsione per rispondere (ecco che la risposta come richiesta immediata ad altri, emerge) e rendere più complicato a chi vuole uccidere, il raggiungere lo scopo?
Quei morti che si vedono nelle immagini, hanno bisogno di un senso. Non sono un prodotto della pazzia. Il senso e la pietà li dobbiamo a quei corpi ora senza vita, che avevano sogni, desideri, che volevano vivere e star bene. Devono avere una memoria che non sia un fatto di cronaca che scompare. E quindi non posso derubricarli a un maledetto 14 luglio.
Ed allora accetto che la mia “sensibilità” cresca con due o tre variabili: la distanza, l’appartenenza nazionale delle vittime, la loro età e se accetto questo sentire che mi sembra naturale, tutto il resto, ovvero la soluzione del problema diviene urgente oppure si sposta nella risposta sottocasa, nel muro entro il quale non vorrei recludermi?
Teoricamente dovrei essere sensibile alla sofferenza e all’ingiustizia ovunque essa si manifesti, ma capisco che non è così e allora torno sulla presunta sensibilità, che è qualcosa che si maneggia e si relativizza e produce effetti solo in termini di adesione a una risposta più che a una soluzione. Voglio che la mia sensibilità non venga urtata e quindi aderisco a una risposta che sembra dare più certezze, più sicurezza, sempre con quei tre parametri della distanza, nazionalità, età. Non sto cercando il benaltrismo di sinistra che rinvia le soluzioni a chissà dove e chi, voglio semplicemente essere più sicuro. Ecco che si palesa il limite dell’etica, della mia e credo di quella di tanti altri, bisogna riconoscere il limite per superarlo, lasciarsi urtare e riflettere.
Il mondo è in sofferenza, ribolle, ci sono reazioni in atto che in un tempo recente non avvenivano, ma non perché ci fosse un ordine più giusto e umano, no, anzi era peggio, però scegliendo la pace vicino a casa si è pensato che il resto in termini di giustizia ed equità sarebbe venuto di conseguenza, ma non è così. I problemi sono tutti sul tavolo e non c’è una strategia per togliere tensione, per rendere esecrabile la violenza, ad esempio oggi il presidente francese ha detto che i bombardamenti in Siria e in Iraq verranno intensificati, cioè verranno uccisi molti più civili ignari e innocenti di quelli di Nizza e questo a cosa servirà?
Sono così confuse le mie idee di fronte a questa realtà che hanno bisogno di trovare un senso, un collocarsi ordinato che proponga davvero una soluzione, che dica dove stare e che allarghi la sensibilità. Che faccia di quest’ultima strumento per risolvere. Ne ho bisogno perché le fotografie non devono restare tali e al più possano “urtare” la quiete, ne ho bisogno per capire che questo non è un mondo quieto, non è un mondo in pace.
il senso di Marja per il colore
Il rigoverno della casa, per tacito accordo avviene in mia assenza; si sa gli uomini intralciano, intrigano come si dice da queste parti, e l’intrigo è l’inciampo, l’inutile che si mette in mezzo, il superfluo da togliere di torno. Quindi io non ci sono e al ritorno troverò la casa linda e pulita, le lenzuola cambiate, le stoviglie pulite nuovamente lavate. Non si sa mai, dev’essere il pensiero, perché ogni donna nutre dubbi sulla effettiva capacità di pulirsi e pulire dell’uomo. E credo sia un atavico senso dello sporco connesso al genere maschile che sin da quando rientrava nella caverna appena spazzata con un animale sanguinante senza curarsi della scia sul pavimento, ha continuato nei millenni a portare con sé prede da mostrare e untume, così che anche quando pulisce, l’uomo, mica pulisce bene, ma è con la testa altrove, pensando a chissà quale impresa comunque unta. Nol gà man, non ha mano, non sa gestire il pulito, è il pensiero tenero e liquidatorio che affida al genere opposto il monopolio della pulizia domestica. Marja con il senso europeo-orientale delle donne che conoscono gli uomini che tornano alticci e si buttano vestiti sul letto, non fa differenze e ripulisce ciò che con fatica pulisco. Anche per questo l’intrigo cioè io, è meglio stia distante. Se fossi lì in mezzo, interverrei, direi, mi lamenterei, eppoi perderei la possibilità di giocare a trova quello che era qui e adesso invece chissà dove l’ha messo, gioco che mi fa smoccolare sorridendo e recuperare il senso di superiorità sul governo del disordine che mi appartiene: nessuno sa trovare le cose in mezzo al casino come me. Fin qui la meccanica degli spostamenti e delle azioni che la partita a scacchi perenne mette in campo, ma ciò che ogni volta degusto è la sorpresa che tengo per ultima cioè la combinazione di colori delle lenzuola e dei cuscini del letto. L’antefatto è che mi piacciono sia le lenzuola bianche che colorate, e non le voglio in tinta unita, cioè il sotto dovrebbe essere diverso dal sopra e dalla federa. Qui subentra la teoria dei tre colori, che si complica se esiste il copripiumone, perché l’accostamento dovrebbe avere la mia armonia mentre invece subentra il senso del colore di chi mette assieme le lenzuola. Spesso va bene, ma solo perché i colori hanno quelle tonalità asburgico slavo russofone che di solito si mettevano sulle bandiere, quindi senza saperlo emergono le reminiscenze di un’europa che non era tale ma si riconosceva dai vessilli. Ed essendo la scelta possibile perché non mettere un arancio con un rosso e un blu ovvero il calore del sud con il progressivo mitigarsi verso il gelo dell’est. Oppure invertire i colori e puntare sulla cacofonia del verde con l’ azzurro. Ecco questo senso del colore che trovavo nei miei viaggi ad est, nei maglioni di lane melange fatti in casa, nelle sequenze di gialli, ocra verso verdi pisello degli stucchi dei palazzi, poi i colori squillanti delle cupole, gli ori, i contrasti che inaspettatamente confluiscono nel cupo delle icone, fino ad essere poi interpretati in campagna in colori che andavano dal fango verso il rosso pompeiano, lo intravvedo nella scelta che viene fatta per il mio dormire. E penso a come i sogni saranno, avvolti in quelle sequenze, penso che la sorpresa merita un approfondimento, ma soprattutto che da Goethe la teoria dei colori ha avuto una notevole influenza nel pensiero alto e che Michel Pastoureau, che ne è sommo interprete e punto di arrivo, avrebbe molto da insegnare ai nostri esperti di politica estera. Guardate i colori delle case e intuite l’umore e la sensibilità dei popoli. Guardo la parure del letto e mi rallegra sapere che la pensiamo in maniera diversa, Marja ed io, che abbiamo parole differenti e sensibilità che si incuriosiscono nella differenza. Marja, non assomiglia a Smilla che possedeva oltre trenta sfumature per la neve, e però la sua visione del mondo allarga il mio. Certo che se fosse giapponese e zen, rischierei qualche sogno meno complicato, ma vuoi mettere la sorpresa anziché il colore su colore: anche se incubo fosse sarebbe un incubo allegro.
il profumo delle pesche
Erano mattine calde e luminose, mai troppo presto, dopo colazione, mia madre mi metteva sul sellino della Legnano gialla, e con calma attraversavamo la città. Sentivo l’aria fresca che veniva dall’ombra dei portici e il sole già caldo, mi pareva che nei contrasti ci fosse la felicità, ma questo lo so ora mentre allora mi piaceva e basta. Lei aveva una borsa di pelle blu, a sacco, che conteneva infiniti tesori, un sorriso di ragazza e vestiti leggeri, a fiori come si usava allora.
Si cominciava a fine giugno e poi si proseguiva a luglio, nell’andare in un luogo che aveva il nome latino, ma era fatto di barche agili, di sabbia riportata, di alberi grandissimi e pieni di foglie bianche e verdi. Ed era pieno di grida, di tuffi nell’acqua, di corse, di salvagenti fatti di camere d’aria. Mia madre prendeva il sole, leggeva una rivista, io giocavo coscienzioso con paletta, sabbia, acqua e secchiello. Costruivo cose che avevano un nome, ma non era quello, erano luoghi della fantasia dove il gocciolare della sabbia bagnata sommava forme e statue incredibili, e cuspidi, e creste di mura incantate. Era un lavorare alacre, fatto di secchielli riempiti, di tragitti, di soddisfazioni che esigevano nuove conquiste. Fino alle 11, quando dovevo lavare le mani e da quel sacco blu uscivano le pesche bianche (monse’esane, di Monselice, così si chiedevano al fruttaro’o), fresche di ghiaccio mattutino e con quella leggera peluria che a me sembrava freddo sulla pelle. Le sbucciavo con le piccole dita di allora e poi c’era il primo morso accompagnato dal pane croccante e caldo. Si univano il profumo delle pesche con quello del pane e non sapevo da dove nascesse tutto quel piacere. Non era fame, no, era solo piacere. Mia madre mi guardava e assaporava con me, parlando quella lingua profumata e dolce, che non ho più abbandonato.
Credo siamo fatti di piccoli fatti, di ricordi, di sensazioni che si allacciano e sovrappongono le une nelle altre. Come si scavasse il profumo e poi la dolcezza e il sapore fino a quel duro nocciolo che non si può mangiare, ma che solo può dare vita a un albero, e a innumerevoli frutti destinati a provocare altre infinite sensazioni. È essere parte di un flusso che gioiosamente non finisce, e quando lo capisco sento un profondo senso di ringraziamento.
notte calda notte
Prima al buio, c’erano luci tenue sul soffitto.
Erano impronte di finestre,
qualche lampo colorato, forse una tv,
poi ombre rade che passavano,
una voce che seguiva.
Figure geometriche di vita nella calda notte urbana.
Fuori dalle case il mondo s’assottiglia,
bastano due dimensioni,
le ombre parlano per linee, soprattutto ricordano,
a noi, qualcosa che potremmo
o vorremmo essere, altrove,
in un altro calore, nell’estraneo sussurro di un altro buio.
Le notti sono luogo di ombre che si sciolgono, indifese,
e diventano sogni, sudore,
odori conosciuti e nuovi,
e carne,
e parole calde di oscurità accoglienti.
Ci sono verità che amano la notte
e sono senz’ ombre,
precise di geometrico ragionare,
ma questa è solo una calda notte urbana
dove rumori si spengono come fiamma tra dita coraggiose,
e fanno solo una piccola bruciatura prima del buio.
c’è una mucca in corridoio
La situazione è complicata. Maledettamente complicata. E il rischio di confondere ragionevolezza con real politik è alto. Poi sotto traccia convivono i migliori e peggiori istinti di tutti quelli che un qualche conto in sospeso ce l’hanno, e sanno che se ci si siede sulla sponda del fiume qualcosa passa, non di rado è il cadavere di quel qualcosa, sistema o uomo, che pieno di boria si è infinitamente proposto come il migliore è semplicemente non lo era. Ma si può vivere sempre sulla sponda del fiume? Ad alcuni, non pochi e furbi, questo riesce, ad altri no. Questo riguarda tutti a partire dai partiti. Ma sembra si paesi sempre del PD e Il m5s come sta? Non benissimo se si osservano le pratiche da vecchia Dc che mettono assieme la giunta di Roma, gli scheletri a zonzo per i corridoi, mentre fuori ci sono le attese che non possono attendere. Marino era un mostro di cambiamento visto ora. Non c’è di che essere soddisfatti, però mi fa specie che chi ha perso malamente cominci a compiacersi delle difficoltà del vincitore. Ma anche questo è un modo per non fare i conti con le sconfitte. Non si è mai fatto questo conto ed è un’anomalia dell’Italia, qui si deve sempre vincere oppure non se ne parla. E così negli anni c’è stato uno smottare lento verso il fiume, chi è furbo si salva, gli altri semplicemente si disamorano. Eh si perché stranamente anche nella gestione della casa comune serve amore e autocritica. Non va bene l’autocritica? Almeno un po’ di sana autoironia che attraverso la percezione del proprio limite veda i problemi degli altri, dica che si è sbagliato e che si vuole cambiare assieme. Non questo racconto infinito di successi dentro una realtà fatta di crisi e di bisogni primari negati. Ha ragione Bersani quando con una delle sue metafore parla del non accorgersi della mucca in corridoio. È una casa comune che va a fondo, con allegra rappresentazione dei propri successi (?) si vuole ignorare che l’Italia è in crisi, che l’Europa è in disfacimento, che il mondo non è pacificato anzi comincia a considerare strutturale il terrorismo. Come dire: è un prezzo da pagare alla diseguaglianza, all’incapacità di affrontare i problemi delle persone, allo strapotere dei pochissimi rispetto alla miseria della maggioranza. Risalire dal greto del fiume per riprendere in mano, con umiltà, il proprio destino. Considerare che siamo davvero in una casa comune, che ci sono beni da non buttare e hanno nomi impegnativi, dignità, lavoro, legalità, onestà, tutela dei più deboli, diritti comuni, dovere civico, costituzione, ecc.ecc. Farlo con coscienza del limite, rispetto e attenzione e per favore smettiamola con la narrazione che racconta altro da ciò che si vede e fa perdere la voglia di ridere quando serve davvero. La narrazione è triste se non dice la verità, toglie la capacità di distinguere e disamora. E questo è un guaio, davvero un guaio per il presente e il futuro. A chi piacerebbe vivere in un Paese di indifferenti?