chissà cos’è passato

In questi giorni, camminando, i pensieri rincorrevano le nubi e mi pareva di aver molte cose da scrivere. Ma le ho perse nel cielo e tra il verde, seppellite sotto molta musica, letture appassionate e soliloqui notturni. Poco male. M’hanno detto, molto tempo fa: quando scrivi sei incommentabile; non si sa con chi parli, alludi, insegui cose tue che dai per scontate.
Già, anche questo nella sua verità è dimostrazione di una ricerca di pochi simili, o forse, più banalmente, è il limite comunicativo che mi porto dietro. Borbotto, curvo parole per far loro seguire l’arco delle idee, mi sospendo a pensare davanti a un bivio. Percorro un po’ di strada in un senso, torno indietro, verifico, scelgo. A volte capisco e spesso no e se un discorso resta sospeso, forse lo finirò, oppure resterà appeso in attesa di qualcosa che trovi un pezzetto di memoria, un’esperienza, anche solo una conseguenza logica che lo porti avanti, ma non di una scusa che motivi un punto fermo.
Se mi annoio dell’ascoltarmi come biasimare gli altri. Potrebbe essere un epitaffio per il tentativo di colmare sempre quei contenitori che chiamiamo parole. E che poi restano quello che sono: mezzi e solo parole.
Vedo che rarefano i passaggi, capisco e non cambierò. Resteranno i curiosi, i passanti. Ci sarà chi chiede al vicino: ma cos’è stato, chi è passato? E a uno scuotere perplesso del capo, se ne andrà pensando ad altro.
Ed è bene così.

a proposito di auguri

Gli auguri han iniziato ad arrivare mercoledì. Prima quelli automatici di chi non ti conosce, la scelta è urbi et orbi, ovvero messaggi standard e ognuno ne fa quello che vuole. Funzionano lo stesso gli auguri così? Non so, non credo. Giovedì c’era già una discreta raccolta di messaggi. Però iniziavano i consapevoli, ovvero quelli per cui sei un viso e un nome associato. Però restavano standardizzati.
Se restiamo all’ambito religioso glovedì, per chi crede, c’è la cena Domini e deve ancora avvenire la passione. Il corpo del Cristo è integro, non c’è ancora flagellazione, dileggio, tortura, solo incomprensione con i discepoli e una solitudine estrema con la consapevolezza del destino proprio e l’angoscia. Lo ricordo ad uso dei cristiani o dei presunti tali. Insomma di giovedì si dovrebbe meditare su altro, ovvero sulla condizione dell’uomo piuttosto che togliersi il pensiero degli auguri. Ma se le cose diventano rituali è meglio prendersi avanti, arrivare primi dà soddisfazione e toglie un peso. Cosi in questi giorni il flusso di auguri è aumentato e credo raggiungerà il massimo domani ma a chi e perché vanno questi auguri, chi li fa dovrebbe chiedersi cosa significano per chi li riceve, se è un ateo, un agnostico, un appartenente ad altro credo religioso. Dovrebbe chiedersi se un fatto importante può essere condiviso in funzione del simbolo e dell’umanità sottesa. Dovrebbe ma non avviene, e così gli auguri non hanno alcun significato e si va da un estremo all’altro, dal proliferare di auguri di buona Pasqua ai non credenti come il sottoscritto, sino alle iconografie buone per la scampagnata di lunedì con raffigurazioni di agnelli, uova e gatti. Qualcuno la butta sull’umorismo che ripesca qualche vecchio luogo comune sui comunisti, questo magari mi conosce e mi mostra Stalin che consiglia di salvare gli agnelli mangiando bambini.
Quindi una congerie di messaggi con la parola auguri destinati a tutti dove ognuno prenda ciò che più gli aggrada e soprattutto eviti di riflettere e trarre conclusioni da ciò che viene evocato.
Strano perché mai come ora l’umanità è in una fase di passaggio, va verso qualcosa e quindi la festività ebraica dovrebbe evocare qualcosa. Forse se si parla di umanità sembra che parliamo di qualcuno che è distante e non comprende le nostre vite, e invece ci siamo dentro tutti fino al collo: dove stiamo andando? La morte e resurrezione dei cristiani non era una novità nel mondo antico, più o meno tutti cercavano una scappatoia per evitare la fine del proprio tempo, anche i paradisi non erano infrequenti, magari con diverse gioie ma una restava comune ovvero il reincontro di chi era stato caro. Ci si era dati da fare con la testa per cercare una soluzione all’irreparabile. Ho un grande rispetto e sento il fascino di questa religiosità che cerca di mettere assieme il trascendente con la vita, la sofferenza e il tempo. Il cristianesimo propone la morte del Cristo per espiazione del male compiuto da altri e la resurrezione, mica cosa da poco in una visione basata sull’oggi, sul transeunte che vuole diventare materialmente eterno. È questo che viene augurato? Non lo so proprio, forse dove c’è consapevolezza delle parole si augura un inizio, un nuovo che si apre come conseguenza del passaggio.
E allora se questo è l’augurio che non chiede di credere, vediamo un po’ dove siamo visto che siamo in cammino.
Il mondo è sull’orlo di una nuova guerra, ci sono prove di forza e apprendisti stregoni all’opera. Vengono sperimentate armi inaudite, la tentazione di usare l’arma di cui dispone è sempre troppo grande per un militare e per un innamorato del proprio potere. Vale in ogni parte del mondo e genera effetto domino. Troppo complicato parlarne? Parliamo d’altro. L’umanità è arrivata al più alto numero di componenti mai registrato sulla terra, 7.2 miliardi di individui. Siccome le risorse disponibili, pur sufficienti per tutti sono mal distribuite nasce un problema di logistica, non arriva il necessario dove serve e chi si trova ad abitare in quei luoghi si sposta verso il necessario. O così o muore. In questa fase di passaggio loro sanno dove andare ma gli altri che non hanno lo stesso problema dove vanno? Troppo complicato anche questo per collegarlo agli auguri? Passiamo ad altro. La tecnologia confusa dai più con il progresso ovvero l’avanzamento comune dei popoli, continua a sfornare prodezze, una è quella da cui sto scrivendo. Non ha limiti di applicazione la tecnologia e genera ricchezza e quindi entra in medicina e risana, nelle comunicazioni e fa del mondo un villaggio globale, entra nel lavoro e innova le modalità del produrre oltre che i prodotti. Le fabbriche automatiche cominciano a diventare realtà e quindi il costo del lavoro non sarà più il motivo per delocalizzare, la tecnologia riporta a casa i prodotti ma non crea lavoro, anzi ne distrugge. Verso quale lavoro stiamo andando? Questo è un altro dei temi del passaggio in corso. Potrei continuare con l’evoluzione dei sistemi politici, le biotecnologie molecolari, l’insicurezza crescente nei grandi agglomerati urbani, l’inquinamento e il cambiamento climatico, ecc.ecc. ma a che servirebbe se non a dire che stiamo andando verso qualcosa di nuovo e non necessariamente buono. Il Papa dei cattolici da tempo enuncia questi temi, lo cito perché mi pare l’unica voce alta che si pone un problema molto laico ovvero la vita e l’equità. E mi pare che dica che i problemi dell’uomo devono essere risolti dall’uomo secondo buona volontà e giustizia. Gli uomini di buona volontà non mancano solo che sono disgregati, non si riconoscono come comunità, fanno e non chiedono mentre dovrebbero anche chiedere a chi sta sopra di loro di essere più giusti, di vedere che non si sta bene, che l’insicurezza cresce e diventa fonte di ingiustizia, di separazione tra gli uomini. Se l’augurio che ricevo riguarda queste persone, quelli che sono in passaggio ma si pongono il problema di dove andare e di star bene allora li accetto e lì ricambio sennò risparmiate tempo e caratteri, lasciatemi perdere.

 “Pasqua è voce del verbo ebraico ‘pèsah’, passare. Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste”. 

Faccio mie le parole di Erri De Luca e a chi è in cammino dentro e fuori di sé, auguro giorni nuovi, coscienti, sereni, oggi e sempre.

feria quinta

A quell’ora, prima del buio, cenavano i viandanti, gli artigiani, i contadini, i pescatori, chi lavorava con la luce e voleva affrontare l’oscurità senza l’assillo della fame. La fame era una cattiva compagnia nella notte, toglieva speranza al giorno e agitava i sogni. I benestanti mangiavano più tardi, col fresco che veniva dalle colline, dai giardini, dal pelo dell’acqua o dal deserto. Restavano a lungo a tavola, lasciavano che il sonno li cogliesse tra il vino e gli ultimi pensieri sulla fortuna degli uomini e sul suo alimentarsi d’intrigo e d’occasioni. Per i primi, legati a una religiosità della luce, la cena era il momento degli affetti, dello stringersi in vincoli di parole, era il promettersi il futuro e il giorno che sarebbe venuto, faticoso ma possibile di mutamento. Per gli altri era il rassicurarsi del proprio continuare nel piacere di esistere, com’erano e come sarebbero stati. Per tutti poi c’era il buio, così assoluto da contenere le paure del cuore, la luce delle stelle e la solitudine che gli uomini cercano di colmare in molti modi. Ma la solitudine è un contenitore bucato e per quanto si faccia alla fine il vuoto del fondo riappare. Così in quella sera, che è raffigurazione di tutte le sere, la solitudine ondeggiava, si colmava di parole e di compagnia, fino al momento in cui la scelta giusta sarebbe stata il sonno. E se questo non veniva e si ricacciava nei suoi ambiti oscuri? Se subentrava la coscienza che la comunicazione era fraintesa, che la parola non bastava, anzi tornava indietro frantumata di disattenzione, allora cosa restava se non il parlare con se stessi. Bere la solitudine per vedere se essa si disperdeva in noi. Altrove si provvedeva in modo diverso per non sentire il morso dello specchio. Da sempre si usa la comunicazione della vacuità e quella del corpo, si tacitano le domande con ciò che le discioglie in qualche ebbrezza. La solitudine però parla e vede tutto, coglie il presente e il futuro, diviene dentro di noi il respiro del mondo. È la notte dell’anima dove il buio entra nel cuore e divora la luce. Chi conosce l’uomo sa che solo accettando il proprio destino lo si compie e si compie la ragione per cui si vive. Quel destino che scriviamo noi quando vogliamo vedere la solitudine che ci portiamo appresso e quando la camuffiamo. Accettare e discernere, significa sapere chi siamo nel fondo e ogni atto d’amore poi non sarà lo stesso, ogni comunicazione terrà conto di chi ci sta davanti.

Una soluzione, forse tra le poche davvero buone, è avere una persona di cui ci si fida fino in fondo e ascolta. Che non giudica e cerca di capire. Che accoglie e fa propria la fatica del vivere, senza chiedere altra ragione che quella che le viene raccontata. Ma questa persona non è detto ci sia o sia disponibile nel momento in cui è necessaria e allora si torna a noi, alla crepa che ci chiede ragione di noi e del resto che capiamo.
La spiritualità innata dell’uomo ruota su questa scissione interiore che cerca ricomposizione. Non occorre credere in nulla che non sia il vedere e il vedersi e cercare uno scopo che tenga assieme il tutto. Qualcuno ci ha promesso qualcosa e ci ha tradito. Senza volere ci ha messo di fronte a noi stessi e da lì si parte e si arriva per superare la notte.

a proposito di tenerezza

Il bisogno di tenerezza si esprime, chiede, cambia la voce e il gesto. E’ disponibile a dare subito e condividere.

Dove si è generato? Quale mano ha cominciato a scavare e creare una voragine che non si colma se non per momenti, tempi brevi, e poi ricomincia?

Comunque è qualcosa che si è avuto e ha creato un’abitudine di piacere oppure qualcosa che è mancato e sin da allora si è cercato?

E questo bisogno è apparentemente collegato e scollegato da ciò che accadde, sembra che la sua natura sia qui e ora. Forse per questo i fortunati(?) ne conservano un equilibrio, una ragione, mentre gli altri sono senza un limite che dica basta. Confondendo con altro il bisogno di tenerezza, surrogando e surrogandolo, oppure facendone scorpacciate infinite è un bisogno che non si placa. Che si legge in ogni gesto, parola, abitudine che viene porta.

Il contatto tenero e fisico inizia con l’abbraccio, in un accogliere che già nella sua gamma di intensità, rivela molto d’altro. Sì perché la tenerezza non si chiede e dà solo nella gioia, ma allo stesso modo nel conforto.  Anche una spalla e un silenzio, e il lasciarsi bagnare di lacrime tiene molto assieme.

amo l’inutile e il suo riempire la passione

Amo l’inutile che riempie di fretta le passioni:

inutile come le cose che ci cambiano davvero
inutile come le parole che sono solo nostre e di chi le ascolta,
inutile come parlare nel buio,
Inutile come una lingua morta che rivive dentro,
inutile come tutti i libri che contano davvero e parlano di noi,
inutile come essere la minoranza della propria ragione,
inutile come il presente che non osa,
inutile come una recensione,
inutile come l’amore che non può crescere,
inutile come il tempo non usato.

Inutile, amo l’inutile, il privo di senso che si cerca, il limite che si supera, la paura che lo precede, il tempo che verrà e quello che ho usato senza senso. Apparentemente.

In questa immensa catasta di inutilità incombuste arde il senso che solo nel gesto gratuito ci sia grandezza e che quando si è troppo ragionato, l’intuito si sia rintanato offeso. L’errore ha dovuto essere giustificato e un senso di sconfitta rimproverata ci ha preso. Eravamo sotto giudizio, la cosa più utile per dire che non eravamo. Ecco, l’utile ci dice ciò che non siamo per davvero.

sera

Prima s’addensa nel bosco, sotto i faggi, tra gli abeti e in quel gorgo di pietre, anfratti e muschio che le radici conoscono a menadito, ma non noi che guardiamo il passo che affonda nell’ombra. Poi esce e serpeggia tra l’erba, i crochi, le miriadi di fiori che piano chiudono le corolle e s’apprestano al buio. È la sera, con le vette illuminate che illudono del permanere della luce mentre le ombre s’allungano.  È la sera che s’annusa nel fumo dei paioli e delle cene nelle case di pietra. È l’ora che gli animali che sentono per rientrare mentre i cani cominciano la guardia al territorio. È la sera che lascia sempre aperti cancelli di lievi malinconie, misura la distanza da un tepore, da volti cari, da oggetti conosciuti. L’ombra che si stende fa calcoli di fatica e di cammino, rovescia clessidre e traccia confini oltre i quali non andare. Sarà contraddetta ma non importa perché è testarda e paziente. Come una sirena invita a restare, a godere del silenzio che si gonfia di piccoli rumori, suadente chiede di lasciare che la luce scemi in noi assieme ai pensieri che portano distante. Riassetta il libro delle decisioni e lo chiude, invita al momento, sommessa ne racconta l’unicità. Cosa c’è di meglio, sussurra, che appoggiare la schiena ad una parete di legno ancora calda del sole e guardare la luce che disegna profili, lascia ch’essa entri a sorsate e racconti di una pace alternativa al correre, all’andare.
Qui subentra la volontà del tornare che punta a un futuro prossimo oppure il consegnarsi alla pienezza precaria d’un presente infinito. Ogni attesa può essere posposta, una soluzione per la notte trovata e intanto si può godere di questo avvilupparsi malinconico che è clemente col passato: ne fa un insieme di occasioni lasciate mentre non dice nulla del futuro. Qui e ora è la vita. Libera, nel rideterminarsi. Dice la sera.
Quante volte l’orlo del buio ha avvinto e poi la decisione ha accelerato il passo e trovato un cerchio di pensieri per misurare il ritorno. Quante volte si è sospesa una decisione che scegliesse la notte della solitudine. In quel confine si gioca la sera del viandante che si ferma e contempla l’ultimo fulgore sulle cime mentre un brivido l’attraversa, e sente che è freddo e consapevolezza.

https://www.youtube.com/watch?v=V2etXORS5S0

similitudine

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Come d’improvviso, nella foresta, il sole sceglie un albero mentre gli altri sono al buio e poi un altro e un altro ancora, così sembra operare la fortuna. O il caso, ad essa sodale. E invece non è così perché ad uno ad uno il sole percorrerà i tronchi secondo angoli celesti che pur diversi si ripetono. E gli alberi ne profitteranno per trarne energia e richiamo ad animali, per viverne assieme la luce e proseguire tempo e specie, anche distante perché è così che l’apparente immobile si muove: tramite altri che da esso traggono vantaggio.
Così per noi, nell’essere illuminati dall’occasione, è il coincidere che conta, ovvero quell’assestarsi dei tempi che porta il desiderio nell’accadere. Ed è un tempo circolare che pur non s’assomiglia ma si ripropone. In esso troviamo ciò che può accadere purché lo si colga, e anche ciò che non è accaduto, e a questo serve la memoria: a permettere che, diverso eppur simile e attuale, il desiderio accada. Purché davvero lo si voglia.

appigli

Pur insufficienti le reti basate sull’affetto tentano di funzionare. La famiglia, gli amici, i circoli, l’appartenenza o meno a una fede che comporti uno scambio tra persone, sono reti. E queste precedono la società istituzione che di fatto è diventata la rete più labile.

Un tempo le persone uscivano di casa senza chiudere la porta contando sul fatto che i vicini avrebbero scambiato protezione. E funzionava. C’era anche poco da rubare, allora, ma spesso quel poco faceva la differenza tra la miseria e l’autosufficienza. Mia nonna non chiudeva la porta di casa, più volte fu visitata dai ladri ma erano quasi parenti e in fondo non ci badava troppo.

Tornando alla rete di relazioni, essa diviene il discrimine non tanto della sicurezza ma della solitudine. Una buona rete di affetti permette a una persona che affronta un problema importante di non piombare nella disperazione. Soffermiamoci su questa parola: disperazione è il contrario della speranza ovvero del trovare una via d’uscita alla propria condizione esistenziale. Chi conosce questo tipo di solitudine sa che essa attacca gola e cuore, che annaspa e cerca un appiglio prima dell’assenza di forze e della prostrazione. Se c’è una voce, una presenza nella rete che si è costruita, allora è possibile dare un nome alla paura, raccontarla; già questo ne riduce l’impatto perché la voce sembra parlare di un terzo e permette di vedere/sentire dall’esterno. A questo sentire sé raccontare, s’aggiunge la presenza di una persona in cui è riposta fiducia, da cui si riceve condivisione e tutto questo permette di risolvere il primo problema ovvero l’angoscia disperante della solitudine non scelta.

Quanto funzionano oggi queste reti, quando tutto spinge all’atomizzazione dei rapporti e la loro riduzione al solo presente?

Sono nettamente in crisi e la virtualizzazione delle reti fornisce un’apparente risposta. Ci si racconta nel buio, si ricevono segnali, però si tende a reiterare i comportamenti, non a vedersi e ad ascoltarsi, per cui ciascuno fa i conti con la dimensione fisica del disagio che di virtuale ha ben poco. La solitudine e la paura sono emozioni/condizioni politiche, cioè nascono da una impostazione sociale che non solo non le risolve, ma le utilizza per propri scopi di mantenimento o conquista del potere. Ad esempio sono enfatizzate da una concezione fortemente competitiva della società che investe ogni campo sino ai rapporti di rete più interni ed elitari ovvero quelli amorosi. Lo status economico sociale interferisce con essi e in una situazione di precarietà competitiva, le reti diventano insicure perché la competizione si trasferisce all’interno della stessa rete. E non si tratta solo di competizione economica ma di solitudine ovvero la fiducia diminuisce se il disagio trova anziché l’ascolto l’esibizione di un altro disagio sentito come più importante. Insomma anche nelle reti più strette si introduce la richiesta esclusiva ed egoista che massimizza la propria condizione e la mette in competizione con quella di chi chiede aiuto, fino a banalizzarne la sofferenza. Questo è il danno assoluto per una relazione, ovvero una aggiunta di solitudine da parte di chi doveva dare fiducia. 

Siamo tutti più soli e comunque gridiamo nella notte, perché le nostre reti relazionali degradano per labilità di legame e mancanza di manutenzione.

Ci si dice che gli amici si riconoscono nel momento del bisogno ma quella è una scrematura che dovrebbe essere stata fatta prima perché quando serve, l’amico non è una finzione virtuale ma un punto reale di condivisione. Anche quando allarga le braccia per impossibilità reale è vicino e parte della rete di sostegno mentre chi trova scuse che si sentono fasulle avrebbe dovuto essere lasciato prima. Cosa non facile quando le cose vanno bene.

C’è però un modo per capire chi è vicino da chi non lo è e si basa sulla condivisione e la generosità: una persona che ascolta, che condivide e non sovrasta, che rispetta e chiede rispetto, una persona generosa, è parte sicura della rete che toglie dalla solitudine. Ci si può sbagliare ma accade perché si vogliono ignorare i segnali. Lo sappiamo anche in amore che ciò che non ci va bene sino a non poterne più, l’abbiamo sempre saputo, solo che per onnipotenza si pensava di essere in grado di aggiustare, di modificare l’altro. Però le persone cambiano principalmente per necessità, oppure per apertura e generosità e questo lo sappiamo, a partire da noi stessi, basterebbe tenerne conto e non aver paura della solitudine del dire la verità.

Molto dipende da noi, ma non veniamo aiutati nel mantenere coesione sociale, solidarietà, che è il primo e più importante vincolo di difesa di una comunità non immaginaria.  Per motivi di dominio e controllo troppo ci viene inculcato, imposto sotto vesti fasulle e non rispettose delle persone e ciò che ci viene socialmente offerto è un boccone fintamente appetitoso e avvelenato.

Resistere a tutto questo, creare reti di affetti reali è una risorsa impagabile e se in una vita restano punti di riferimento forti possiamo dire di aver avuto l’unico successo che conta: quello con noi stessi.

http://https://www.youtube.com/watch?v=v2yRJaNEPDE

primavera

Le libertà sono allegre,
Impastate di bianco
come petali che il vento distacca
e sparge per gli occhi nell’aria:
un gesto piccolo di lontananza
per generare le vite.

numeri e persone

Per alcuni siamo numeri, per altri problemi, per non pochi opportunità e tra noi, persone. Che significano queste liasons di certo volute, labili e forti per ossimori di passione, di sicuro scelte e soggette a tutte le intemperie, ma tenute con quella refe rossa delle affinità che supera tempo e spazio. Certo, c’è affinità, curiosità che sollevano piano i veli, passioni e sentire comuni, ma se non fossimo persone mancherebbe quell’inizio di cura che sottintende ogni rapporto. Anche quelli virtuali. L’occasione di pensarci mi è stata fornita da Marta, e così mentre andavo a ripescare i nomi della piccola brigata che si è incontrata e ha parlato attraverso l’immaterialità di questo blog, ho visto il numero. Un numero così tondo da stupire, perché in fondo questa è una caratteristica dei numeri. Sono sempre altro dal segno che li rappresenta, dall’assoluto che sembrano delimitare e contenere. 300.000 volte qualcuno è passato, ha guardato e poi se n’è andato. Alcuni pochi, hanno seguito e seguono, altri non scrivono più e magari ci sentiamo nelle mail, tanti si sono perduti portati via dalle strade baluginanti che contiene il virtuale. In fondo restiamo quattro amici al bar, come nella vita, con storie da raccontare e molto da ascoltare.

Mi sono chiesto a chi mi rivolgo di voi. Spesso a tutti, qualche volta a qualcuno, abbastanza a me stesso, perché la vita è così: impersonale quando ci si vede e bisognosa d’ascolto quando la si indossa. Posso dirlo serenamente che mi sono stupito spesso dell’assenza di commenti nelle cose che mi piacevano di più e dell’attenzione su altro che mi sembrava contenere meno di me. Però se io stesso cerco la chiave del labirinto, non posso lamentarmi se in questo profluvio di fatti, pensieri, riflessioni, pezzi di vite vissute e ascoltate, ciò che a me sembra importante possa non esserlo per altri. Scelte ed io da molto tempo ho scelto di assomigliarmi. Per approssimazione, asintoticamente, ma con determinazione. Poteva essere differente lo scrivere? 

Condividiamo, come si può, più o meno 10 anni di strada, con vite sghembe che hanno una realtà così distillata da gocciolare parole. Ho sentito spesso il profumo delle vostre, contenevano così tanto di voi che mi pareva di conoscervi. Ho sentito l’accaduto e l’annuncio dell’accadere, non era bravura, è che mi piace ascoltare. Mi sono stupito e commosso, ho ammirato la bravura, sentito il rodere della pena che non voleva uscire ma forniva parole forti per essere ammansita. Mi sono rallegrato, ho scosso al testa sorridendo, ho riconosciuto l’affinità e la differenza. Mi avete dato moltissimo. Quello che ho restituito è una storia che continua, qualche passioncella, furori e non poca commozione che si ritrae. Ho seminato indizi, cercato di mostrarmi il necessario che non si discostasse dalla verità, ma fornisse anche la condizione del fluire. Eraclito, l’oscuro è ben presente nei miei pensieri, e oserei dire, anche nella mia vita reale. 

Vorrei che a tutti giungesse un pensiero di gratitudine, e di affetto per chi è rimasto. Spesso non mi sopporto e quindi capisco bene chi va altrove, anche se mi spiace. In fondo a quasi tutti piacerebbe essere capiti, amati, per ciò che si è e per ciò che si potrebbe essere.

Vorrei cavarmi con un augurio da questa spirale di parole, che questa volta non rileggerò: vi auguro che chi incontrate sia simile al vostro cuore, che abbia cura perché riceve cura, che sia sincero. E a voi resti la scelta sulla strada da percorrere, ma che sia sempre la vostra.

Grazie per la vostra presenza.

p.s. un particolare ringraziamento a Marta che mi ha fatto pensare a Voi.

https://tramedipensieri.wordpress.com/2017/02/10/laudario-di-cortona/