A quell’ora, prima del buio, cenavano i viandanti, gli artigiani, i contadini, i pescatori, chi lavorava con la luce e voleva affrontare l’oscurità senza l’assillo della fame. La fame era una cattiva compagnia nella notte, toglieva speranza al giorno e agitava i sogni. I benestanti mangiavano più tardi, col fresco che veniva dalle colline, dai giardini, dal pelo dell’acqua o dal deserto. Restavano a lungo a tavola, lasciavano che il sonno li cogliesse tra il vino e gli ultimi pensieri sulla fortuna degli uomini e sul suo alimentarsi d’intrigo e d’occasioni. Per i primi, legati a una religiosità della luce, la cena era il momento degli affetti, dello stringersi in vincoli di parole, era il promettersi il futuro e il giorno che sarebbe venuto, faticoso ma possibile di mutamento. Per gli altri era il rassicurarsi del proprio continuare nel piacere di esistere, com’erano e come sarebbero stati. Per tutti poi c’era il buio, così assoluto da contenere le paure del cuore, la luce delle stelle e la solitudine che gli uomini cercano di colmare in molti modi. Ma la solitudine è un contenitore bucato e per quanto si faccia alla fine il vuoto del fondo riappare. Così in quella sera, che è raffigurazione di tutte le sere, la solitudine ondeggiava, si colmava di parole e di compagnia, fino al momento in cui la scelta giusta sarebbe stata il sonno. E se questo non veniva e si ricacciava nei suoi ambiti oscuri? Se subentrava la coscienza che la comunicazione era fraintesa, che la parola non bastava, anzi tornava indietro frantumata di disattenzione, allora cosa restava se non il parlare con se stessi. Bere la solitudine per vedere se essa si disperdeva in noi. Altrove si provvedeva in modo diverso per non sentire il morso dello specchio. Da sempre si usa la comunicazione della vacuità e quella del corpo, si tacitano le domande con ciò che le discioglie in qualche ebbrezza. La solitudine però parla e vede tutto, coglie il presente e il futuro, diviene dentro di noi il respiro del mondo. È la notte dell’anima dove il buio entra nel cuore e divora la luce. Chi conosce l’uomo sa che solo accettando il proprio destino lo si compie e si compie la ragione per cui si vive. Quel destino che scriviamo noi quando vogliamo vedere la solitudine che ci portiamo appresso e quando la camuffiamo. Accettare e discernere, significa sapere chi siamo nel fondo e ogni atto d’amore poi non sarà lo stesso, ogni comunicazione terrà conto di chi ci sta davanti.
Una soluzione, forse tra le poche davvero buone, è avere una persona di cui ci si fida fino in fondo e ascolta. Che non giudica e cerca di capire. Che accoglie e fa propria la fatica del vivere, senza chiedere altra ragione che quella che le viene raccontata. Ma questa persona non è detto ci sia o sia disponibile nel momento in cui è necessaria e allora si torna a noi, alla crepa che ci chiede ragione di noi e del resto che capiamo.
La spiritualità innata dell’uomo ruota su questa scissione interiore che cerca ricomposizione. Non occorre credere in nulla che non sia il vedere e il vedersi e cercare uno scopo che tenga assieme il tutto. Qualcuno ci ha promesso qualcosa e ci ha tradito. Senza volere ci ha messo di fronte a noi stessi e da lì si parte e si arriva per superare la notte.
“Chi conosce l’uomo sa che solo accettando il proprio destino lo si compie e si compie la ragione per cui si vive.”
Che meraviglia questa frase, che meraviglia questo post.
Auguri di buona Pasqua, Roberto e non smettere mai di scrivere cose così. 😘
Auguri a te Josè 😘 E a Matteo che sa dirti molte cose che ti riguardano.
Se penso alla Pasqua per me l’augurio che ricevo e ti rimando è quello del mutare che da una condizione porta ad una più vicina a noi tramite un passaggio. E tu questo già lo fai con dolcezza caparbia.