Pur insufficienti le reti basate sull’affetto tentano di funzionare. La famiglia, gli amici, i circoli, l’appartenenza o meno a una fede che comporti uno scambio tra persone, sono reti. E queste precedono la società istituzione che di fatto è diventata la rete più labile.
Un tempo le persone uscivano di casa senza chiudere la porta contando sul fatto che i vicini avrebbero scambiato protezione. E funzionava. C’era anche poco da rubare, allora, ma spesso quel poco faceva la differenza tra la miseria e l’autosufficienza. Mia nonna non chiudeva la porta di casa, più volte fu visitata dai ladri ma erano quasi parenti e in fondo non ci badava troppo.
Tornando alla rete di relazioni, essa diviene il discrimine non tanto della sicurezza ma della solitudine. Una buona rete di affetti permette a una persona che affronta un problema importante di non piombare nella disperazione. Soffermiamoci su questa parola: disperazione è il contrario della speranza ovvero del trovare una via d’uscita alla propria condizione esistenziale. Chi conosce questo tipo di solitudine sa che essa attacca gola e cuore, che annaspa e cerca un appiglio prima dell’assenza di forze e della prostrazione. Se c’è una voce, una presenza nella rete che si è costruita, allora è possibile dare un nome alla paura, raccontarla; già questo ne riduce l’impatto perché la voce sembra parlare di un terzo e permette di vedere/sentire dall’esterno. A questo sentire sé raccontare, s’aggiunge la presenza di una persona in cui è riposta fiducia, da cui si riceve condivisione e tutto questo permette di risolvere il primo problema ovvero l’angoscia disperante della solitudine non scelta.
Quanto funzionano oggi queste reti, quando tutto spinge all’atomizzazione dei rapporti e la loro riduzione al solo presente?
Sono nettamente in crisi e la virtualizzazione delle reti fornisce un’apparente risposta. Ci si racconta nel buio, si ricevono segnali, però si tende a reiterare i comportamenti, non a vedersi e ad ascoltarsi, per cui ciascuno fa i conti con la dimensione fisica del disagio che di virtuale ha ben poco. La solitudine e la paura sono emozioni/condizioni politiche, cioè nascono da una impostazione sociale che non solo non le risolve, ma le utilizza per propri scopi di mantenimento o conquista del potere. Ad esempio sono enfatizzate da una concezione fortemente competitiva della società che investe ogni campo sino ai rapporti di rete più interni ed elitari ovvero quelli amorosi. Lo status economico sociale interferisce con essi e in una situazione di precarietà competitiva, le reti diventano insicure perché la competizione si trasferisce all’interno della stessa rete. E non si tratta solo di competizione economica ma di solitudine ovvero la fiducia diminuisce se il disagio trova anziché l’ascolto l’esibizione di un altro disagio sentito come più importante. Insomma anche nelle reti più strette si introduce la richiesta esclusiva ed egoista che massimizza la propria condizione e la mette in competizione con quella di chi chiede aiuto, fino a banalizzarne la sofferenza. Questo è il danno assoluto per una relazione, ovvero una aggiunta di solitudine da parte di chi doveva dare fiducia.
Siamo tutti più soli e comunque gridiamo nella notte, perché le nostre reti relazionali degradano per labilità di legame e mancanza di manutenzione.
Ci si dice che gli amici si riconoscono nel momento del bisogno ma quella è una scrematura che dovrebbe essere stata fatta prima perché quando serve, l’amico non è una finzione virtuale ma un punto reale di condivisione. Anche quando allarga le braccia per impossibilità reale è vicino e parte della rete di sostegno mentre chi trova scuse che si sentono fasulle avrebbe dovuto essere lasciato prima. Cosa non facile quando le cose vanno bene.
C’è però un modo per capire chi è vicino da chi non lo è e si basa sulla condivisione e la generosità: una persona che ascolta, che condivide e non sovrasta, che rispetta e chiede rispetto, una persona generosa, è parte sicura della rete che toglie dalla solitudine. Ci si può sbagliare ma accade perché si vogliono ignorare i segnali. Lo sappiamo anche in amore che ciò che non ci va bene sino a non poterne più, l’abbiamo sempre saputo, solo che per onnipotenza si pensava di essere in grado di aggiustare, di modificare l’altro. Però le persone cambiano principalmente per necessità, oppure per apertura e generosità e questo lo sappiamo, a partire da noi stessi, basterebbe tenerne conto e non aver paura della solitudine del dire la verità.
Molto dipende da noi, ma non veniamo aiutati nel mantenere coesione sociale, solidarietà, che è il primo e più importante vincolo di difesa di una comunità non immaginaria. Per motivi di dominio e controllo troppo ci viene inculcato, imposto sotto vesti fasulle e non rispettose delle persone e ciò che ci viene socialmente offerto è un boccone fintamente appetitoso e avvelenato.
Resistere a tutto questo, creare reti di affetti reali è una risorsa impagabile e se in una vita restano punti di riferimento forti possiamo dire di aver avuto l’unico successo che conta: quello con noi stessi.
Grazie Will per questa tua riflessione molto vera e profonda sulle relazioni, sulle reti (di tutti i tipi), sulla solidarietà, sulla presenza e su molto altro.
Sono proprio d’accordo con te!
In fin dei conti e in fondo (letteralmente, proprio) ciò che conta sono solo le relazioni.
Buon pomeriggio domenicale.
Qui un cielo nero nero minaccia pioggia: speriamo si decida e ce la regali.
Un sorriso
ciao Ondina 🙂
Grazie Ondina per l’accordo e per l’augurio. La pioggia scioglie il pomeriggio della festa, ma è gentile, sui tetti, sui fiori e sulle piante che hanno sete.
Buon pomeriggio 😃
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