commessure e Pollock

Il posatore ha avuto momenti di sbandamento nelle commessure del rivestimento. All’inizio avrei detto: peccato! In onore della precisione, dell’ordine che rasserena e crea certezze, poi mi sono ricreduto osservando una crepa che risorge dalla ridipintura fresca e la ragnatela che s’è appesa e attende. Steso in una poltroncina di studio dentistico, attendo. Rumori ovattati e musica di sottofondo. Cose pop, radio locali, hits. Se con gli occhi seguo il profilo di una linea immaginaria di cemento bianco ne posso calcolare la lunghezza percepita, sono mattonelle 30×15, pensare che la ceramica invetriata di Babilonia aveva almeno altrettanta sapienza. Ma non era diritta. Basta andare al Pergamon e ci si rende conto che non è la precisione netta che crea la bellezza, ma la sequenza. E il colore, sopratutto nelle sfumature di un forno. Sequenze infinite di sfingi blu, di dignitari in corteo che accompagnano e convergono verso il re e la porta di Ishtar. Come nell’esercito di terracotta. Sequenze. Conta il numero. Il numero genera l’astrazione.

Studio le commessure, scopro ulteriori imprecisioni, scheggiature. Una retta procede pervicace verso l’infinito, una commessura fa al più il giro della stanza. Chissà cosa girava per la testa di Euclide quando deduceva i suoi teoremi: osservazione, ragionamento, astrazione, genio. E artigianato. Genio e artigianato del pensiero, divulgazione e ripetizione: la decorazione in architettura ha vissuto per qualche millennio sulle sequenze, gli incastri, i colori, gli islamici anche adesso.

Dopo è venuto Pollock. Hanno restaurato alchimia. Quando lo guardo penso che potrebbe averlo dipinto Nietzsche: l’orlo dell’abisso con relativo tuffo.  Adesso lo si può rivedere al Guggenheim, a Cà Venier dei Leoni. Un palazzo mai finito, un solo piano e poi il marmo che si getta in acqua. Forse già pensavano ai cottage, i veneziani, e invece mica è vero, sono mancati i soldi, xe mancà i schei, ma è bello pensarlo, perché un altro palazzone sul Canal mica cambiava lo skyline, e cussì no par miga da stranio (così non sta poi male). E poi col cavaliere di Marini, l’angelo della città in erezione, ad aspettare che arrivi qualcosa dall’acqua, è uno spasso: sguardi obliqui, risatine, quei che fa finta de gninte, distrazioni verso il canale, che sarà pur Grande, ma sempre canale è. E lui che angelo sarebbe se non vegliasse su ciò che può accadere… A Venezia, dall’acqua veniva il buono e il benessere, non era così ovunque. Il mare come sottofondo servirebbe, al posto di queste musichette, magari glielo dico, anche se dal dentista si parla poco.

In alchimia, mi sono perso ogni volta che l’ho visto, e se questo studio avesse le pareti con la sua riproduzione io sarei spaesato e totalmente distratto dal contesto. Non sentirei il rumore del trapano nell’altra stanza. Sarebbe l’inveramento di ciò che mi pare dicesse Fontana: che attraverso i buchi delle sue tele si risucchiava l’universo. Non un buco da guardoni, ma energia che andava verso l’infinito. Come le rette, penso. L’arte oggi è solo filosofia, diceva anche, ovvero un’opinione autorevole sulla realtà che al più suggerisce. O almeno mi pareva dicesse così.

Ci sono rumori ovattati di ferri dalla stanza a fianco. Dal dentista ormai nessuno urla più, neppure i bambini. Mettono piastrelle avorio, una via di mezzo che consente il pulito e non fa ospedale. Una volta ero steso al pronto soccorso e mentre aspettavo guardavo il soffitto, c’erano degli schizzi di sangue, potevano pulirlo, no? Così mi ricordo solo quelli: schizzi di distrazione di massa, così ho perso la nozione del taglio, era sulla mano, sul ginocchio, boh? Qui invece tutto sa di menta. Un’attesa alla menta piperita. Sembra quasi una ragazza messicana, un nomignolo per una chica: piperita del mi corazon. Vorrei dormire, le commessure fanno effetto, chissà perché i dentisti adesso si chiamano odontoiatri e hanno tre o quattro ambulatori in cui operano contemporaneamente. Ubiquità donata dal santo dei dentisti, che poi è una donna: santa Apollonia.

Ma le donne sono naturalmente ubique, fanno sempre più cose assieme. E comunque tenetene conto.

Aspetto, ma poi finisce.

l’odore della bachelite

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Ho preso un vecchio Luxman analogico, l’ho collegato con un sintonizzatore Sanyo, di molti anni fa, con una sintonia a condensatore variabile e l’ago demoltiplicato che corre su una scala grigio verde azzurra illuminata, ho aggiunto un vecchio lettore di cd per musica che mi segue da 25 anni, lamentandosi appena un po’, infine due Kef per sentire e ho spento la luce. Così la magia si è compiuta. Un suono caldo, ricco di armoniche, si è diffuso con le Suites per Cello di Bach, e nel buio, lo strumento sembrava a un passo. Poi il piano di Ricter, la voce di Diana Krall, quella di Jessie Norman. Tutto così datato, ma preciso, brillante. E la memoria è corsa indietro, alla mia prima radio a valvole, una Minerva, all’odore di legno e di polvere scaldata che emanava, all’occhio magico verde della sintonia che mi sembrava quello di un rettile assonnato.

Non volevo ricordare per forza, è venuto. E così è riemerso l’odore della bachelite con cui facevano i condensatori, un odore di liquirizia tostata, acuto e fermo nell’aria, persistente. Forse esistono i sommelier del passato, quelli che, come si fa col vino, possono raccontare come si sono fusi i profumi, passando dalle vite attorno alle cose e dando loro un nome e un posto nella memoria. Chissà se ci sono, magari tra i vecchi antiquari, ci sono quelli che davvero sentono oltre l’oggetto, oppure tocca a noi e solo noi possiamo farlo. Chissà…

E intanto nel suono e nel buio, c’era anche la vecchia casa, un rumore tenue di cose che accadevano dietro porte di legno pieno, fessure di luce, presenze e profumi nel ricordo. Come fosse ora.

un maledetto imbroglio

E se fosse tutto un maledetto imbroglio questo mutare impercettibile d’opinioni? Non una dietrologia, un burattinaio che orchestra la rappresentazione, ma la semplice deriva degli interessi, cioè fare quello che conviene quel poco o tanto da lasciare uno spazio per la coscienza che si conservi una via d’uscita. Capire le ragioni del potere per trovare la convenienza, insomma, si sa che la coerenza non è solo ardua, ma faticosa e con prezzi da pagare. Pensiamo ai quotidiani, ovvero a chi fornisce le notizie e la loro interpretazione. Repubblica naviga in mare renziano, non basta la prolissa domenicale prosa di Scalfari per un giornale che ai tempi di Berlusconi, aveva fatto delle 10 domande al premier il controcanto del potere e ora di domande non se ne fa più nessuna. Che fosse tutta una questione tra imprenditori? Di inimicizie d’affari? Questa è dietrologia deteriore, ma lo smottamento, dapprima piccolo e lento, poi più forte e consolidato, c’è stato e ora la parte politica del giornale è chiaramente orientata, hanno sposato questa visione della società renziana. Capisco che al Pd la sparizione dell’Unità non faccia poi così danno, a poco serviva anche prima, ed Europa non è mai stato davvero importante. Ma cosa leggere allora? Il Fatto? Le acidosi di Travaglio? Può servire la continua denuncia e l’acquisto di dosi massicce di Maalox, per chi si sente impotente di fronte alla continua violazione di principi e regole? Poi se si pensa alle carriere costruite sulle denunce senza effetto qualche dubbio viene. In questa analisi della realtà, pur smaccatamente di parte e verbosa, la vecchia Unità funzionava bene perché aveva voglia di formare un Paese nuovo e c’era un partito che orientava una visione diversa della società e del futuro, ma dalla narrazione dello “sfacelo” quotidiano, che speranza può emergere? Capisco allora che in sostanza mi manca un giornale da prendere ogni giorno, che non posso leggere solo la parte culturale di Repubblica, che il Manifesto non è sufficiente, che se non c’è una informazione alternativa di popolo, non si va da nessuna parte. Che serve un giornalismo che evidenzi le connessioni tra ciò che dovrebbe cambiare e ciò che cambia. Il privilegio non è diminuito in Italia, non c’è nulla di nuovo, se più non si considera la riforma del Senato e l’abolizione finta delle province come la panacea dei mali del Paese. Pagano i soliti, al più si è dislocata l’attenzione altrove, ma il potere è intatto e ringalluzzito. Oggi siamo nell’era del cambiamento renziano, e le connessioni non sono così scontate, non c’è una critica che leghi presente e futuro atteso e ovunque emerge il pensiero: almeno qualcosa sta cambiando. E questo uniforma le coscienze nell’attesa di vedere che effetto che fa. In fondo questo nuovo non è la preparazione di qualcosa di diverso, più giusto, equo, ma il proprio coincidere con il mutare perché questo di per sé è diverso rispetto alla morta gora in cui il berlusconismo e l’insipienza della vecchia guardia Ds aveva collocato il paese. Ma basta l’analisi individuale per leggere la realtà? No, perché manca un progetto che riguardi i singoli e le collettività e questo progetto dovrebbe essere raccontato ogni giorno assieme all’analisi di ciò che va e di ciò che non va. Ecco perché adesso quando passo ogni mattina all’edicola non so più che comprare e mi pare un maledetto imbroglio.

 

il bravo soldatino

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Come un bravo soldatino faccio ciò che devo. Mi attendo una ricompensa, un’attenzione che mi tolga dall’indistinto fare, arriva quando vuole, spesso inattesa e così mi confonde. Quasi fosse immeritata. E mi fa arrossire, anche se riconosco d’essere un ingranaggio: mi muovo perché altri si muovano. Sembra sia questo il significato delle vite: ruotare perché altro ruoti. Ma perché? Mi hanno convinto che fare ciò che si deve è buono, fermarsi o girare in senso contrario, è cattivo. Eppure spesso ho la sensazione che far ciò che si deve bruci il tempo, il mio tempo, e allora mi viene la tentazione di non fare, oppure di fare altro. Qualunque cosa. Basta che sia diverso e nuovo, inatteso. E allora quelli che prima non ti prestavano attenzione, ti si rivolgano, ti chiedano perché, usino blandizie e minacce e tu possa dire di sì oppure no. Una notte ho fatto un sogno. Sogno spesso, ma sognare sembra una continuazione del giorno, solo che nel sogno, faccio fatica, dimentico qualcosa, diventa difficile fare cose semplici, insomma sembra ci sia una resistenza che rende vischioso fare bene ciò che devo fare. Ma questo sogno era diverso: ero in una grande stazione, quelle enormi, altissime e fatte di travi d’acciaio che vanno verso il cielo, e vetro per lasciarlo passare, il cielo, cosicché c’è sempre tanta luce grigia. Anche a mezzogiorno. Chissà perché le stazioni sembrano monumenti a qualcosa che non c’è, sono grandi, molto più grandi di uomini, binari, treni e paiono fatte per qualcosa che non sta lì, che non si ferma che per poco. Mah. Comunque, nel sogno, c’erano persone attorno, voci, musica, annunci e, in questo rumore che avvolgeva, mi sono avvicinato alla biglietteria e ho chiesto un biglietto. Il ferroviere, dietro al vetro, era in divisa, con un cappello dalla visiera nera e lucida, che quando si chinava, rifletteva la luce sui miei occhi, come mi interrogasse anche mentre faceva altro. Metteva a posto i suoi biglietti e pareva avesse tra le mani il mondo, che tutti quei posti fossero suoi e solo lui potesse permetterti di accedervi, di andare davvero lì ed essere accolto. Mi ha chiesto: dove vuole andare?  Ed io lo sapevo cosa dire, lo sapevo da molto: lontano, voglio andare lontano. Mi ha staccato un biglietto di una volta, un rettangolino di cartone spesso e bianco, ho pagato e poi, col biglietto tra le mani, ho preso una valigia. Sì, avevo una valigia, ed era leggera, sembrava vuota, ma ero sicuro che ci fosse il necessario, anche se non ricordavo quando l’avevo fatta. Con la mia valigia sono andato verso la banchina. C’erano molte persone in fila che attendevano e una ragazza vestita di verde, con un cappello a calotta pure verde. Pensavo che era bella. Poi pensavo che la notte sarei sceso in una città che non conoscevo, che avrei cercato su una strada dritta e piena di alberi ai lati, un alberghetto con un banco di legno scuro e un fattorino che attendeva. Poi ho riguardato la ragazza e ho sorriso, e lei, un po’ indecisa, mi ha risposto. Ero felice e imbarazzato e così, per far qualcosa, ho guardato il biglietto, come a mostraglielo. La stazione d’arrivo non si leggeva, ma la data era nitida, era di tanti anni prima, ma ero contento lo stesso, ero sicuro valesse ancora. Così mi sono svegliato. E mi sentivo bene.

Basterebbe esercitare il diritto a un perché e l’immenso castello cadrebbe all’improvviso.

il cuore è una cava

Pietra focaia,

percossa, per gioco,

scintilla breve, 

odore di pietra bruciata,

rumore secco, 

pesante, di braccio.

Fa rumore la fatica?

Il ciottolo rotto, 

alfine,

mostra un impudico segno, 

bianca fessura scabra 

e polita assieme,

annusata, 

tenuta, 

gettata,

perduta, 

troppo tardi ricordata.

Pietra, ciottolo, sasso,

sentire,

forte, duro, poroso, sfacciato: 

caldo.

Di mano che accarezza, 

caldo.

Il cuore è una cava in cui crescono bonsai, 

s’annidano teneri uccelli rapaci, 

e l’erba prende il suo spazio, 

mentre l’acqua scioglie asperità, 

per far spazio alla vita.

l’uomo della pioggia

Ha cominciato a lavare la camicia come facevano le lavandaie di un tempo, solo che non aveva un fiume a disposizione, ma una piccola bacinella di plastica e la rastrelliera delle biciclette davanti alla chiesa dei Cappuccini. E intanto pioveva a raffiche mentre lui lavava immergendo nella bacinella e sbattendo sulla rastrelliera. Era a capo scoperto e cantava in una lingua che sembrava chiusa in gola, fatta di vocali buttate in mezzo a consonanti di saliva. Cantava strascicando le parole, come ad ascoltarne il suono, e lavava sotto la pioggia. Nessuno chiedeva. Il piazzale era vuoto. Tutti giravano al largo sotto i loro ombrelli. Vedevo che molti di questi ombrelli erano variopinti, come a ingraziarsi quel cielo grigio e forte di vento che strattonava le tele e faceva procedere di sghimbescio. I cestini erano pieni di ombrelli rotti, di stecche piegate, di molle ormai senza senso, di manici nuovi su aste spezzate. Poi ha preso da un sacchetto giallo, ch’era dentro a una cassetta da frutta messa a mò di cestino su una bicicletta, una coperta, l’ha stesa sul selciato tirandola bene, in modo che non facesse pieghe. Come un tappeto. La coperta era consunta, di quel colore nocciola che andava di moda un tempo, ed aveva qualche strappo che lui accostava per coprire la pietra sottostante. Poi, sempre sotto la pioggia s’è accoccolato sui talloni continuando a cantare. Allora ho visto due cose distinte e notevoli: il volto, che era abbastanza giovane, con una barba nera più da carenza di cura mattutina che di scelta, e gli occhi che guardavano ostinatamente verso il basso. Il viso forte, poteva essere di chiunque, solo che questo era bagnato fradicio, rigato in continuazione di gocce e chiuso al modo circostante, ma, pareva, non a sé e al suo pensiero. L’altra cosa che ho notato era la direzione della coperta. Era rivolta verso sud sud est, la stessa direzione del vento ch’ era girato. Poi dalla posizione accoccolata ha posato le ginocchia, e allora ho pensato che si sarebbe allungato in avanti con le braccia tese fino a posare la fronte, e invece ha preso il sacchetto giallo e in ginocchio, sempre sotto la pioggia, con cura ha cominciato a piegare le poche cose che aveva. Come a metterle dentro un cassetto che profumasse di lavanda, di legno, di casa. Per ultima ha piegato la camicia lavata e poi col palmo ha preso la pila delle sue povere cose infilandola in quel sacchetto giallo. Solo allora si è alzato e ha ripiegato la coperta, ancora cantando tra sé e sempre con le persone che giravano al largo. Potrei raccontarvi il resto, ma non avrebbe molto significato. Però vi dico un pensiero che, brevissimo, mi ha attraversato allora: quello era un uomo come me, con una sua solitudine grande. Si teneva a galla con qualcosa. Come facciamo tutti. E non lo meritava. Nessuno merita la solitudine. Ho ripensato ad altri luoghi, ad altre solitudini e mi sono sentito più solo.

nota triste

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Una nota triste nella voce, sembra si noti. Eppure è solo malinconia. Quando non si curano i dettagli ci si rivela. L’indecisione, le strade da percorrere, le scelte. Parlar meno e più dentro, per capire. Il rapporto con l’umore è personale e misteriose sono le vie per cui muta. Così la tristezza segue suoi percorsi, non se ne andrà se non scacciata da qualche piccolo entusiasmo. Il pensiero torna su ciò che si perde, si rompe, si guasta, o semplicemente su ciò che fa male. Come togliere l’innominato che avvelena il cuore? 

01.14

La giornata è andata con il passo di corsa e il petto un po’ avanti che si ha verso un traguardo. Chissà qual’era, il traguardo, intendo. E forse per questo a notte ci si ritrova stanchi. Si enumerano le cose rimaste in sospeso, quelle che hanno inciso, o almeno così sembrava, gli entusiasmi fugaci, le piccole malinconie. Tutto rapido. Come passa veloce il tempo, sembra non resti nulla. Gli anni davanti sono indeterminati e questo eterno presente vissuto sempre di fretta sedimenta poco. Forse perché non c’è molto da sedimentare. I pensieri fanno compagnia, sembrano proseguire discorsi propri, un ininterrotto soliloquio che esamina, discetta, scivola, sceglie e ci ripensa. E poi si perde, stanco d’oggetti, in un volo. Meglio.

Fuori c’è silenzio, entra tra le pareti, invade la casa, ingloba i piccoli rumori, avvolge. Il silenzio rallenta tutto, mostra incontrovertibile che siamo in balia di noi stessi, di ciò che vogliamo, delle abitudini e delle inutilità. E’ forse per questo mancato esercizio di libertà che sedimenta poco del giorno? Oppure ora si evidenzia ciò che manca? Sembra banale ma il letto è un buon discrimine per capire se si è davvero soli. Nel letto ci sta quello che si è costruito. Lo si sente tangibile: sono amato, non lo sono? Cosa davvero m’importa?

Tra poche ore è sabato, si ricomincia, sarebbe bello mettere tra le pieghe del tempo qualcosa di me.

 

un campo di battaglia

Eri un campo di battaglia. 

Ed era vero. In un certo senso la battaglia infuria ancora. Non credo cesserà. Probabilmente non si vuole che finisca. Credo che la vera scelta che ci viene proposta al nascere sia tra il lottare o il subire e che si cerchi per tutta la vita una via di soluzione che ci permetta di essere chi siamo. Certo che nessuno te lo spiega, i genitori, gli amici, o gli insegnanti, tanto meno i preti di qualsiasi credo o razza, o gli psicologi da rotocalco. E neppure i filosofi te lo spiegano, che non c’è solo la battaglia ma che anche l’avversario si deve scegliere e che questo possiamo essere noi oppure gli altri. E se scegliamo di combattere con noi è perché vorremmo emergesse qualche verità, essere in assonanza, dalla stessa parte. Vorremmo far la pace con noi. Forse per questo quando si pensa alla pace si associa l’idea della quiete, e la quiete ci riguarda assai.

Tra le diverse sensazioni sulla quiete, una sembra convincermi più di altre e non è la tranquillità, ma qualcosa che assomiglia molto all’equilibrio dinamico della corsa: ogni posizione di per sé porterebbe alla caduta, tutte assieme e coordinate sono un insieme armonico d’equilibrio che porta innanzi con gioia. Quindi la quiete e non il silenzio dopo lo scontro, lo sfinimento che aggredisce e lascia senza pensieri e forze, la capitolazione sino al prossimo confronto. Basta essere leali, usare l’autoironia (l’altro è tremendamente serio) e riconoscere quando l’altro ha ragione, ma non deflettere se si sente dove sta il bene per noi.

Mi sorprende poco che tu l’abbia visto così chiaramente ch’ero un campo di battaglia. Il tempo scorre molto, però si ferma davanti agli occhi di chi ci guarda attento; e quando si vuol bene si indaga sulle sensazioni, mentre i dati di fatto e le definizioni da dizionario sono così incontrovertibili da lasciare freddi perché sono caselle in cui nessuno davvero ci sta tutto: conta la persona e ciò che suscita davvero. Forse sentivi il rumore del ferro, l’odore di fuoco che brucia, l’inquietudine che non tiene fermi. E’ per questo che ora vorrei dirti che ho cambiato strategia e modo di combattere, che m’interessa poco vincere, ma non torno mai indietro e questo mi dà un vantaggio incredibile, ho misericordia per chi combatto, per quello che è stato. Lo capisco anche se cerco di non farlo prevalere. Forse per questo i momenti di quiete sono maggiori e il campo di battaglia continua ad armi pari. Non finirà mai, eppure ogni miglio che conquisto, ogni pollice aggiunto è un passo verso una quiete che ci tenga assieme. Io e l’altro che poi sono sempre io.

Sai qual’è una piccola verità che ho capito? Che quando combatto dentro se vado un po’ avanti anche gli altri attorno ne hanno vantaggio, non è il mio scopo principale, ma è così. E vale anche per i momenti di quiete, capisco di più, sono più morbido pur restando me. Credo sia questo il senso di tutto questo lottare, trovarsi per trovare gli altri, capire un po’ di più insomma. Ed essere inflessibili quando conta davvero. 

l’asciugamano

L’asciugamano è contento,

odora di schiuma, lavanda ed erba.

E annusando per bene avverte un sentore di fumo.

Tolto dai baffi.

Messo a vivere sullo scalda salviette,

sopra pile di giornali, che attendono,

anch’egli aspetta il mattino,

la finestra che s’ apre, la tenda che sale, il cielo che si mostra.

Dopo la tenerezza d’una doccia,

si stende volentieri sul corpo:

è curioso e sensuale per natura.

Forse ricorda l’ultimo asciugare della notte,

quello che non ha tolto stanchezza e sonno, ma solo acqua e schiuma.

Di cosa odoravi? Di nebbia sottile, di strada,

d’ asfalto e di rami carichi di pioggia notturna?  

E anche dell’ultimo discorso che ancora pesava,

vorrebbe sapere,

l’odore d’attese buttate, di sogni disfatti,

cos’era?

L’acqua ha provato a lavarlo dal viso,

però non accade che i pensieri grevi si sciolgano

e muto e discreto ha accolto il vapore dei fiati incontrati,

la traccia dell’ultimo dei baci,

l’odore un po’ amaro del lasciarsi,

la speranza che ha stretto a lungo

per tenere memoria.

Dallo specchio vedo guarda le spalle,

indaga sul viso felicità nuove e scontente 

che scavano solchi e il sonno non spiana.

Meglio ascoltare l’intuito del cuore, gli racconto, mentre caldo avvolge il mio viso.

Una goccia ritma una piccola perdita d’acqua

e nel buio la notte si spegne.