déjà vu

La sensazione m’ha preso finché impastavo il salame di cioccolato: avevo già vissuto quel momento. Era stato in tempo diverso dove qualcosa di piacevole e qualcuno m”attendevano fuori di una cucina. Adesso era questa cucina. Sono cose che non durano a lungo, la razionalità fa strage di sensazioni, ma tanto è bastato perché continuando a lavorare, rimanesse un retrogusto di indecisione. Cos’era accaduto? Allora ero io, come adesso, ma diverso. Di certo più giovane, in altro posto, forse stavo facendo la stessa cosa, ma non mi pareva. E’ stato come un singulto di passato, poi diventato essenza, non era una sostanza con tutte le sue noie e ripetizioni, una sensazione bella e basta, come un pezzo di realtà espunta dai contesti.

Ho letto articoli su queste sensazioni “fasulle” del già stato, del riconoscere luoghi in cui non si è mai stati, del riprendere situazioni che ci sembra di non aver mai vissuto. Gli articoli spiegavano tutto, anche come il già vissuto, per analogia, si traspone e diventa sensazione reale di un altrove. Spiegavano che questo sentire non aveva relazioni, se non combinatorie, con la nostra vita e metteva in relazione connessioni tra un passato e un presente senza portare con sé il resto delle storie già vissute. Tanto che così erano ricordi senza contesto. Insomma, ciò che avevo letto mi diceva che prendevo degli abbagli e che sommando sensazioni mi raccontavo una storia. Dopo aver ricordato gli articoli e ragionato, m’è venuta una piccola malinconia perché quella sensazione l’avevo ancora eppure me la stavo sottraendo, come il rifiuto d’un sogno. Una deprivazione della bellezza di quel moto di cuore che, assieme alla sensazione di aver già vissuto, nella stanza a fianco collocava una persona, un affetto, un moto d’amore che altro raccontava. Ho anche pensato che in effetti molto si spiega, ma molto resta insoddisfacente nella sua razionalità e che se un amore, un affetto che nasce sono impalpabili, pur essendo moto d’ormoni, stimoli elettrici e piccole chimiche trasformazioni, la sensazione di un piacere annunciato e di un déjà vu che si ripeteva era un irrazionale moto del cuore da tenere ben stretto. E qui la storia finisce, ma la sensazione è rimasta, e così stasera le ho scritto.

Già che ci sono allego la ricetta del salame di cioccolato che stavo facendo:

250 gr, di biscotti secchi sbriciolati,

70 gr. di mandorle a pezzetti,

30 gr di burro a pezzi,

40 gr di cacao amaro in polvere,

un etto di cioccolato amaro sciolto a bagno maria con un po’ di latte,

poco zucchero, a me piace amaro.

Si impasta bene con le mani e poi si compone un cilindro su un foglio di alluminio. Si avvolge il tutto e gli si dà la forma di salame. Poi si mette in frigo. Non è garantito che nel farlo vengano dei piacevoli deja vu, ma se accade potrebbe essere allucinogeno.

 

pedemontana

canon 100 (71)

Potrebbe essere un film di Germi, la partenza è da un centro commerciale. Quelli che si mettono fuori dei caselli autostradali e che hanno tanti negozi dentro oltre al supermercato. Negozi che aprono e chiudono, perché, prima che merce, contengono speranze e illusioni. Chi apre s’indebita, tenta e poi se sbaglia prodotto o c’è la crisi, si mangia tutto e chiude. Così nel centro commerciale le serrande sembrano chiuse per ferie, ma in realtà sono chiuse e basta. Una bocca cariata, ecco cos’è diventato il ventre opimo del nord est. Seduto su una panca, aspetto. E guardo. Entrano uomini con i calzoni corti e i sandali, le donne hanno vestiti leggeri e trasparenti, caricano i carrelli di offerte. Si avvicinano alla cassa, tolgono qualcosa, poi dell’altro, tacitano i bambini che protestano. Promettono. Poi escono. Dietro alla mia panca c’è un bar pizza e coca cola, ma nessuno mangia e le ragazze puliscono i tavolini per ingannare il tempo. Fuori fa finalmente caldo. L’autostrada era meno affollata del solito, il parcheggio è quasi mezzo pieno. Fa speranza dirlo, ma con gli occhi bisogna pur vedere che c’è ripresa. Di cosa? Cosa riprenderà? Conosco bene le zone industriali che non si fermavano mai, qui ci sono ancora molte imprese, tra qualche capannone vuoto, ma adesso sono ferme. E’ agosto. Speriamo su settembre, così m’hanno detto. Quando cala il lavoro, spariscono i sogni. Era un sogno, abbiamo sognato tutti, ma poi ci siamo svegliati. Qui c’era benessere e piena occupazione, adesso no e allora comprano il necessario al supermercato e scelgono le marche e i costi più bassi.

Attraverso il piazzale, entro in un altro edificio commerciale, qui c’è anche una palestra per fare free climbing, ci sono ragazzi che arrivano con la loro borsa, si mettono la tuta, e cominciano ad arrampicare. Ci sono anche ragazze che arrampicano, snelle nelle loro tutine, si parlano finché sono in parete, scherzano, ridono. Sotto c’è un bar, ma siamo solo noi a consumare. I ragazzi vengono, arrampicano, si rivestono e ripartono. A fianco del bar c’è un negozio specializzato in attrezzature e alimenti dietetici da palestra. Qualcuno entra, guarda i bottiglioni, poi saluta ed esce. E’ importante essere educati sempre. Noi intanto parliamo, diciamo, prevediamo. Troviamo un accordo, ci salutiamo. Ognuno va verso un punto cardinale diverso. Punto ad ovest. Fa caldo e me lo godo, apro il finestrino. E’ mezzo pomeriggio, il piazzale è ancora mezzo pieno. Comincio una sequenza di strade statali e provinciali. Sullo fondo c’è l’azzurro delle prealpi. Azzurri tenui, nostalgia. Quando cammino a lungo in montagna, mi sorprende sempre la distanza che si riesce a fare a piedi:. Si vede una montagna lontana e si comincia a camminare. Poi pian piano si sale e si arriva in cima, si guarda e si vede lontana la pianura, il posto da cui siamo partiti, neppure si scorge. Poi si ridiscende e si torna dov’era rimasta l’auto o la casa, e in mezzo alla stanchezza ogni volta capisco la percezione fasulla che ci portiamo dietro. Distanze, luoghi, oggetti, tutto alterato. Non credo sia solo un mio problema, è proprio che non sappiamo dove saremo, come fa un corpo che porta se stesso a spostarsi così tanto e restare se stesso. A me meraviglia sempre, magari per gli altri è normale.

La pianura è un susseguirsi di alberi ai lati delle strade, case, capannoni, e più dietro campi. La pioggia insistente ha reso tutto verde. Inopinatamente così verde d’agosto quando il giallo e il marrone erano ben presenti. Alla radio, Molesini parla del suo ultimo libro. E’ ambientato al Lido, allo scoppio della prima guerra mondiale, al grand Hotel Excelsior. Mi torna a mente il gran ballo con lo stesso nome, il positivismo, la nascita di tutto quello che oggi conosciamo. Einstein con quattro articoli cambiava la fisica e la percezione del tempo e dello spazio e così ci consegnava in luoghi che ancor oggi non capiamo bene per le loro conseguenze. Freud cercava di dare ordine logico alla mente e alle sue manifestazioni, la pittura, l’arte faceva esplodere la percezione e tutto prendeva il volo o velocità. Su terra, mare, aria. Facile dire adesso, piroscafo, transatlantico, ma allora c’erano ancora navi di legno e vele. Tutto ribolliva e il mondo sembrava un’ immensa femminilità feconda che forniva piacere e nuovi figli. Poi i padri avrebbero sacrificato i figli in un immenso massacro. Ben presenti da queste parti le tracce di allora. Ogni uomo contiene una meraviglia: i suoi anni, bisognerebbe dargli modo di viverli, sia quelli passati che quelli futuri, ma pare sia difficile viverli davvero bene. Anche da giovani. Forse di più da giovani adesso.

Strade, rotatorie, pubblicità, altri centri commerciali, città piccole che per chi ci abita sembrano grandi e minuscole allo stesso tempo. L’attività umana non è solo cose, oggetti costruiti, simboli, denaro, successo con tutti i loro opposti. Attività umana sono anche questi campi di grano ceroso che alimentano la più grande pianura per animali da carne d’Europa, sono questi fossati mal tenuti, i canali, la gora di un mulino che gira una ruota di un ristorante, gli infiniti filari di prosecco che rigano le colline. Attività è il dubbio, l’indecisione tra un amore per il proprio lavoro, la terra, il guadagno, la contraddizione di tutte queste case, villette, giardini e aree industriali che sono ingresso e arrivederci dei paesi.

La strada è quasi una schioppettata e sino a Bassano non ha dubbi. Lì poi dovrà scegliere, o puntare su Trento inerpicandosi per la Valsugana, oppure continuare a lambire i monti per andare a Vicenza e poi a Verona. Altrimenti si sale sull’altopiano, ma questa è un’altra storia. Quelle montagne che erano azzurre ora sono verdi e grigie di rocce, schermano la luce, la ricevono dalle nubi che riflettono. Tutto si corruga, si semplifica e si addensa. I prati, le case, i capitelli, le strade che perdono le intersezioni. Nella mappa dell’andare in quest’arco sotto le prealpi, emana pensiero, cura dell’esistente, stravolgimento, ferita, violenza, riordino, ipotesi mal riuscite e slanci d’ingegno. Poi qualcuno si ricorderà il nome di un ristorante famoso, ma non saprà nulla della gipsoteca del Canova a Possagno, né della bellezza di Feltre, però calzerà scarponi iper tecnologici, senza dolersi di non sapere che da queste parti è nata la stampa a caratteri mobili. Ci saranno evidenze che lo colpiscono, ci passo in mezzo, qui si vende la cultura di un fare antico, sia esso un formaggio o una ceramica, un vino, un assale, un liquore, che qui è nato, anche se poi non sempre viene fatto qui. Però spesso lo è, ci provano. Andrea Molesini parla di un tempo sospeso: è il 28 luglio 1914 e in un grande albergo, la notizia che il mondo entra in guerra dev’essere filtrata, ricondotta alla normalità. Anche qui il tempo è sospeso, pare anche normale lo sia, ma per fortuna non c’è nessuna guerra, solo che non si sa più dove andare. Cosa accadrà. Per questo rallento e guardo attorno, come per apprendere risposte da ciò che mi circonda. E che non dev’essere muto. Sono io che non capisco. Deve pur significare qualcosa tutto questo dimostrare d’essere, costruire, fare, mutare. Ascolto e cerco di recuperare un senso, ricucire uno strappo, trovare un nuovo futuro, ché quello vecchio ormai non ha più risposte. Così penso mentre vado e viene sera.

romanticismo di ritorno

Dopo la grande ubriacatura delle immagini, il progressivo analfabetismo che rendeva la parola scritta residuale rispetto al linguaggio verbale, personale e asintattico, da qualche anno la scrittura ha ripreso il sopravvento. Milioni di sms, di post, di twitt, ogni ora, in un ciarlare continuo, che percorre il mondo e chi ci sta a fianco. E all’interno di questo immenso dire mi sembra che la scrittura stia diventando una grande autoanalisi di massa. Niente di nuovo, il romanticismo aveva esaltato la parola come elemento che spiegava e rendeva rinnovatore il gesto. E così faceva emergere l’uomo e lo rendeva protagonista della storia. La letteratura in fondo è sempre stata una grande terapia che quasi mai guariva, ma che induceva guarigioni nei simili. Ora, grazie alla rete, la rappresentazione di sé è uno specchio continuo raccontato, un farsi che attende verifiche. Il mi piace è la ricerca di approvazione e anche il commento (seppure già indice di una comunicazione virtuale) lo è. Forse questo è il limite terapeutico della scrittura pubblicata sui blog, cioè il fatto che si fermi ad una impressione. Come un guardarsi allo specchio e non vedersi oltre il primo sguardo.

La scrittura come terapia e bisogno dovrebbe anzitutto essere rivolta a sé, andare verso un chiarirsi. Se scrivo per qualcuno ho l’obbligo della chiarezza, se lo faccio per me aspiro a una chiarezza diversa, ovvero non fermarmi alla superficie. Per questo restano i diari, le forme private di autoanalisi, quello che è chiaro è che se scrivo su un blog, dovrò trovare una forma intermedia che mi consenta di essere esplicito quanto basta e al tempo stesso consentirmi di riflettere, di scavare in me. Per farlo si usano tutti i mezzi che consentono una condivisione, la parola scritta in forma di prosa o di poesia, la fotografia, la musica, l’elaborazione grafica, il video, il collage. Quello che si sott’intende è un mostrarsi che viene regolato, chi in maniera evidente, chi in forma più criptica, ciò che in fondo differenzia è il mezzo non il fine. E il mostrarsi è molto romantico nell’affermazione di sé come paradigma. Perché questa possibilità abbia preso così tanto e in così poco tempo, dimostra che essa risponde ad un bisogno, ovvero quello di essere e trovare propri simili. E’ in fondo strano che nell’era dell’anomia, dell’incomunicabilità, quando si è usciti dal riserbo che l’educazione imponeva ai sani, ché il mostrarsi senza ritegno era peculiare per chi non aveva freni, ovvero i folli, emerga una sorta di antidoto che consente una comunicazione mediata. Come ci fosse una zona protetta, molto simile al reale, ma senza le stesse regole. E in fondo quello che si è creato con la rete è una doppia realtà, quella comunicativa tra sensibili e l’altra, fattuale, più mascherata, ordinaria e piena di banalità. Il reale è banale e il virtuale è interessante e l’entrare e l’uscire dall’uno e dall’altro è una nuova abilità mentale. Non una schizofrenia, ma il coesistere di più piani poco interagenti. Non siamo più espliciti su di noi al bar, non facciamo discorsi troppo personali se non in cerchie ristrette eppure sui blog si raccontano disperazioni, difficoltà, analisi spietate, fatti che non sono così evidenti a chi ci è vicino se non vengono esplicitati. E’ emerso un gigantesco bisogno di comunicazione e di condivisione che era tenuto a freno ed ora si fa strada nel reale. La ricerca dell’affinità, il bisogno di non essere soli sono sintomi della solitudine del mondo, e non sono terapia, ma consolazione. Poi sono i fatti che si incaricano di verificare la nostra adeguatezza e l’attitudine alla felicità. La dittatura dei fatti, però, forse viene in parte modificata dalle piccole sicurezze dell’autocoscienza, di sicuro si sta creando del nuovo che riscrive delle regole. E al solito la norma prende atto di ciò che avviene, non lo precede. Questo fa sperare che si sia messo in moto qualcosa che farà bene, che metterà più in luce i sentimenti e il sentire. Forse è per questo che sento la rete come un prodotto del romanticismo che riprende quota nella società. E il romanticismo avrà pur fatto disastri, ma ha dato un senso al vivere che nessuna tecnologia è stata in grado di surrogare.

2 agosto

2 agosto. Bombe a Gaza. Nessuna tregua, interessi inconciliabili. Servirrebbe una azione di forza dell’occidente, della democrazia per imporre la paca. Ma la democrazia non contraddice se stessa, soprattutto se gli interessi economici e di potere non sono evidenti. E’ assurdo pensare che la democrazia violi se stessa in nome della pace, dell’equità, del diritto a vivere dei popoli, dei più deboli tra essi, eppure è così. Da tempo si parla di democrazia mitigata, da tempo essa è operante, senza che nessuno lo affermi apertamente. Quindi lacrime virtuali, ciascuno sta dove è sicuro, il pilastro del valore della vita è una finzione che vale al più vicino a casa. Non inquietiamoci troppo questo è un mondo riservato a chi può goderlo e lasciamo che le paure restino virtuali. Ieri ricordavo il racconto di Brecht su chi veniva cercato e chi si disinteressava, credo che l’abitudine alla pace in casa ci abbia reso più sordi sulla sventura di chi la pace non ce l’ha. Così semplicemente, non c’è ricordo.

2 agosto. Ero a Rovigo, quando sentii per radio la notizia della strage a Bologna. Che fare? Mi chiesi allora. Speravo nella verità e nella sua funzione risanatrice. Così, assieme a molti altri, chiedemmo la verità, ripetutamente, senza stancarci. Chi non ha vissuto quegli anni, non ricorda che c’erano le stragi in Italia. Ripetute. Bologna fu ancora più grave, fu una pugnalata, e generò ancora più paura. Quando andavo a Roma in treno, la notte, nelle gallerie, dovevo forzarmi di dormire, di non pensare, di sperare. Cosa sperare? Che non sarebbe accaduto a me. E non cadere nella voragine della paura. Fare quello che era giusto fare, andare in piazza, fare il proprio lavoro. Poi senza sapere la verità, le stragi scomparvero dalle paure. Non c’è ancora un mandante per quanto successe, ma chi non ha vissuto in quegli anni non sa e non può ricordare e forse non gli interessa più di tanto. Interessa a me e molti altri e questo rende le commemorazioni un fatto di allora, ma dimenticare non fa mai bene, non aiuta lo Stato, né la democrazia.

2 agosto. Il primo grande esodo dell’estate. Bollino rosso. Code chilometriche. Così dicono le notizie, e sono le solite di ogni anno, anche se osservano che non è come gli altri anni. C’è crisi. Qui i villeggianti sono arrivati. Riempiono i bar, i mercatini, le piazzette.  Parlano tutti assieme, di cibo, di politica, di sport, di gite, del tempo. Stanotte l’acqua scrosciava dolce sul tetto, sembrava una piccola cascata, ma questa mattina il sole filtrava tra le persiane. Fuori le nubi erano gonfie e bianchissime, su un’altopiano il cielo mutevole fa parte dell’arredo atmosferico. 21 gradi. Quest’anno verrà ricordato a lungo, lo dicono tutti, sto zitto perché so che non sarà così, se ne parlerà il giusto poi basterà un po’ di sole e una nuova estate in cui sperare, per archiviare tutto. Si lamenteranno più a lungo gli albergatori, ma un po’ ci siamo abituati e negli anni in cui la crisi non c’era i prezzi non calavano. Passerà.

2agosto. Una quiete da stagione estiva senza estate e da vacanza. Lettura, passeggiate, scrittura e pensieri. Va in vacanza la testa? Difficile. In altri anni sarei stato altrove, ma rompere le abitudini fa bene. Chi si rassegna alla dittatura del tempo resta prigioniero. E il tempo non fa prigionieri.

chi ha ucciso l’Unità ?

Ieri così titolava il giornale l’Unità, e dopo due pagine di cronaca, le altre erano bianche. Questa mattina, con un vago senso di necrofilia, ho cercato il giornale,ma alle 10 non si trovava più, era esaurito. Molti si saranno affrettati a prendere l’ultimo numero di un giornale che è stato parte della storia del Paese. Comunque la si pensi, dopo i 17 anni di clandestinità durante il fascismo, l’Unità è stato amico o avversario, ma mai indifferente. Su l’Unità si è formata parte non piccola del grande giornalismo politico italiano, e anche nella tradizione del giornalismo d’inchiesta ha avuto grandi meriti. Basti ricordare il Vajont e le mille inchieste scomode e controcorrente degli anni in cui si consumava il sacco urbanistico delle grandi città, nascevano dai problemi i diritti, si lottava per la salute sul lavoro. Era un giornale popolare ai tempi di Togliatti, che pretendeva ci fossero i numeri del lotto e lo sport bene in evidenza, ma è stato anche il veicolo di formazione politica di chi a malapena sapeva leggere. Per questo la chiarezza e la radicalità delle posizioni era necessaria. Poi sono cambiati gli anni, è morto l’approccio ideologico alla politica, le lotte sindacali e i diritti hanno trovato altri interpreti. Negli ultimi anni, il giornale, ha tentato di trovare una mediazione tra le diverse anime del Pd, credo che alla fine non sia stata la strada giusta. Magari sarebbe servita una discussione più radicale, un cercare di capire dov’era finita davvero l’anima radical popolare che aveva animato gli anni delle grandi conquiste sul lavoro e i diritti. Forse lì c’erano davvero le ragioni comuni della sinistra, ma chi può dirlo, altri giornali radicali c’erano e sono sempre stati in difficoltà.

Le difficoltà de l’Unità non sono recenti. Ci sono stati passaggi di mano della proprietà, difficoltà editoriali, eppure la qualità del giornale è sempre stata culturalmente elevata. Ma anche la cultura non ha grande avvenire in un Paese che guarda o alle difficoltà o al profitto. La mirabile sintesi del pensiero “liberale” proposta dall’allora ministro Tremonti, ovvero che con la cultura non si mangia, definisce un’epoca. Anche di cultura politica. Può vivere oggi un giornale di sinistra, di analisi sociale e culturale in Italia? Un giornale che accolga il dissenso come parte di un processo creativo, che veda nell’intelligenza la matrice del futuro, che discuta di politica senza padroni o padrini, che parli un linguaggio semplice e al tempo stesso ponga dei dubbi, che crei la necessità di capire di più? Un giornale siffatto può avere un mercato? Non lo so. Se questo giornale ci fosse mi abbonerei, ma non lo vedo attorno e neppure lo prevedo, perché non c’è un vero interesse per le cose che riguardano politica, cultura, inchieste, approfondimenti, paga molto di più il gossip. Quelle cose di cui parlo costano fatica per chi legge e coraggio per chi scrive, condizioni entrambe difficili per un prodotto commerciale. Così per chi, come me, ha diffuso l’Unità, ha fatto le feste per sostenerlo, l’ha sempre pensato come una parte della propria storia, è un giorno triste. Sono certo che il giornale riprenderà a vivere. Magari dopo il fallimento. Adesso si fallisce più facilmente d’un tempo, per non pagare i conti. Anche la mia generazione nei momenti di tristezza, quando si guarda attorno, pensa di aver fallito e non fa nulla. Cose di reduci, che non hanno più un giornale da esibire. E del resto anch’io lo compravo saltuariamente, più semplice internet oppure Repubblica o il Manifesto. Oggi è andato a ruba con i coccodrilli dei giornali che parlano di perdita, di giorno in cui le idee perdono una voce. Anche gli avversari di sempre lo dicono. E’ curioso che nel momento in cui Renzi ripristina le feste de l’Unità mancherà il soggetto. Forse anche questa è una metafora della politica e nessun fantasma si aggira più per l’Europa. Da domani della testata e del giornale non si sa cosa sarà. Ma io so chi ha ucciso l’Unità: l’indifferenza.

è banale mettere questa canzone, per chi l’ha cantata molto è scontata, per chi non l’ha vissuta è niente. Ma il reducismo è banale, tutto ciò che non ha eredi è banale. E non è una considerazione negativa, ma un tema di riflessione sull’incapacità di trasmettere e quindi di cambiare davvero.

unità di tempo

Ciò che mi sorprende sempre, è come tutto cambi e tutto viva.

Mi piace contenere le mie età. Sapere che c’è il bambino, l’adolescente, il giovane, l’adulto, e che stanno tutti assieme. E’ bello che escano quando gli serve, perché serve a me. Perché dovrei rinunciare a pezzi di me stesso? Le età, il tempo cronologico sono state al servizio di quello che sono ora. Come i miei errori, le piccole conquiste, la costruzione del pensiero di ciò che sono: un pensiero in divenire, che non si arresta, per difetto di limite. Mi comprendo strada facendo, questo è il mio tempo. Riconoscersi, man mano gli anni passano, e questo è davvero importante. Sapere che i ruoli che ci vengono chiesti sono sempre una violenza da addomesticare e averlo capito.

Sembra che la responsabilità si debba per forza insegnare. Credo che ciascuno di noi sia responsabile ad ogni età. Come può, perché gli viene chiesto, ma soprattutto perché c’è una tendenza al bene e il bene non è forse la capacità di vedere ciò che ci sta attorno? Le età convivono, i ricordi sono altra cosa: sono il segno del cambiamento, le mappe del percorso fatto. Ricchi di lacune e modificati a piacimento, ma pur sempre un modo per leggere ciò che è stato. Sono un portolano che, senza la testa del nocchiero, è solo un insieme di linee e di direzioni. Così nel mio tempo circolare, l’età si sente quando si fanno le cose vecchie, non quelle nuove. E’ per questo che il tempo ha bisogno d’essere riconosciuto, per cambiare e lasciar vivere il bambino che è in noi. Ché poi non significa altro che conservare la meraviglia di allora, l’inutile utile a sé, l’anarchia che supera i divieti e si costruisce. Ed è così l’adolescenza che trasforma la meraviglia in sentire che dura, che scopre i sentimenti, li rende creazione, non è forse questa una capacità di leggere i rapporti lasciando che questi ci prendano, diventino forza che ci muta? E ancora perché dovrei rinunciare ai furori della giovinezza, al vedere il mondo in termini di giusto e ingiusto, alla speranza che esso cambi perché io cambio? E della mia età adulta, del potere che mette assieme la mente con le mani, dell’essere assieme ad altri e del capire in loro i miei limiti, della capacità di costruire, perché dovrei privarmi? C’è una continuità nelle vite che si traduce nel trasmettere vita, anche quando i figli non ci sono. Una famiglia genera una famiglia. La prima famiglia siamo noi, con la nostra indipendenza e la capacità di contenere tutto il nostro mondo. Anche se non lo capiamo tutto assieme. Contenerlo e lasciarlo agire. Per questo tengo al bambino come all’adulto e penso con tenerezza che lui ha fatto per me più cose di quante io, adulto, sia riuscito a restituirgli. Lo tengo da conto, lo proteggo, come le altre mie età. Sono me, se rinunciassi a loro, taglierei dei pezzi di me.

Ed io mi piaccio intero.

“Cambia lo superficial
cambia también lo profundo
cambia el modo de pensar
cambia todo en este mundo
Cambia el clima con los años
cambia el pastor su rebaño
y así como todo cambia
que yo cambie no es extraño
Cambia el mas fino brillante
de mano en mano su brillo
cambia el nido el pajarillo
cambia el sentir un amante
Cambia el rumbo el caminante
aunque esto le cause daño
y así como todo cambia
que yo cambie no extraño
Cambia todo cambia
cambia todo cambia
cambia todo cambia
cambia todo cambia
Cambia el sol en su carrera
cuando la noche subsiste
cambia la planta y se viste
de verde en la primavera
Cambia el pelaje la fiera
cambia el cabello el anciano
y así como todo cambia
que yo cambie no es extraño
Pero no cambia mi amor
por mas lejos que me encuentre
ni el recuerdo ni el dolor
de mi pueblo y de mi gente
Lo que cambió ayer
tendrá que cambiar mañana
así como cambio yo
en esta tierra lejana
Cambia todo cambia
cambia todo cambia
cambia todo cambia
cambia todo cambia”.
——————————————-
Traduzione.
“Cambia ciò che è superficiale
e anche ciò che è profondo
cambia il modo di pensare
cambia tutto in questo mondo.
Cambia il clima con gli anni
cambia il pastore il suo pascolo
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Cambia il più prezioso brillante
di mano in mano il suo splendore
cambia nido l’uccellino
cambia il sentimento degli amanti.
Cambia direzione il viandante
sebbene questo lo danneggi
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Cambia, tutto cambia
cambia, tutto cambia
cambia, tutto cambia
cambia, tutto cambia.
Cambia il sole nella sua corsa
quando la notte persiste
cambia la pianta e si veste
di verde in primavera.
Cambia il manto della fiera
cambiano i capelli dell’anziano
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Ma non cambia il mio amore
per quanto lontano mi trovi
né il ricordo né il dolore
della mia terra e della mia gente.
E ciò che è cambiato ieri
di nuovo cambierà domani
così come cambio io
in questa terra lontana.
Cambia, tutto cambia…”.
——————————————-
Mercedes Sosa, Todo cambia – 4:55
(Julio Numhauser)

Chi giustifica e chi no

Una morte resta una morte, un evento tragico illimitato, ma c’è una differenza tra la morte di un bambino, di un civile, di una persona ignara con quella di un soldato? Anche il soldato è un insieme di possibilità positive, di cose che non accadranno più con la sua morte. E allora, tutto eguale? No, c’è un ciclo della vita, la morte fa parte di questo, se non ci si mette di mezzo il caso, la fatalità, la morte è continuità verso se stessi, verso i propri affetti. La morte tranquilla perché il proprio ciclo si è esaurito. Ma questo cosa c’entra con tutto il morire inutile che è solamente dimostrazione di violenza, di discontinuità con la vita? E cosa devo pensare di me, se avverto una differenza del sentire sulle morti, se i numeri mi colpiscono assieme alla loro appartenenza, se distinguo tra l’una e l’altra parte? Stare dalla parte del più debole non ha ragioni critiche oltre ad una conclamata estraneità, alla disparità di mezzi e forze in campo, il debole è oggetto di ingiustizia evidente, non può difendersi e allora come faccio a capire le ragioni dell’altra parte e ciò che sarebbe giusto?
Devo procedere a rovescio, partire dall’ingiusto. È ingiusto che muoiano i bambini, la donne, i civili. È ingiusto che chi non può difendersi venga annientato. Per i governanti, i capi militari le morti civili contano solo se dimostrano altro. Si usa una espressione bruttissima: il tributo di sangue, come ci fosse un moloch esterno a cui rispondere e la morte innocente ( perché qui non c’è colpa ) diventa così un passaggio asettico, necessario, privo di volti, pensieri che non ci saranno più. La politica e i militari usano i morti, li negano o li enfatizzano secondo convenienza e così che diventano numero. Il numero è fungibile, gli uomini no. Ogni militare ucciso, 50 civili, è atroce quanto sta accadendo a Gaza, e lo è ancor più se le ragioni di questa carneficina hanno le loro radici nell’odio. L’odio nasce da qualcosa? Quel qualcosa può essere rimosso? Viene fatto ciò che serve per rimuoverlo? I governatori del mondo non si curano di queste ragioni, per questi demiurghi la contabilità dell’ingiustizia, delle morti serve per altri fini, per mantenere lo status quo, per perseguire logiche di crescita d’influenza. Quanti civili devono essere uccisi perché venga fermata una guerra ? Dipende dalla convenienza. Questo è atroce. L’orrore deve diventare tanto evidente da imporre una fine, ma in certi luoghi questo orrore non ha un numero, un limite: la Siria, il Sudan, l’Afghanistan, ecc. ecc. Altrove si interviene prima, in Ucraina e in Egitto, in Iraq ad esempio. Perché? Si capisce che non c’è correlazione tra giusto e ingiusto, che l’ordine mondiale c’entra poco con le morti innocenti, con la democrazia e con la vita. Ma quanto vale la vita di un bambino? Nulla se diventa numero, la contabilità dell’odio si alimenta nell’antica abitudine al massacro. Pensavamo che dopo l’orrore del nazismo, dei fascismi, dello stalinismo si fosse eradicata dalle menti, invece si è sempre trovata una giustificazione all’odio e alla strage. Ebbene questa giustificazione non c’è se non pensando a un mondo di oggetti, dove gli uomini sono cose, un mondo cieco e inanimato. E il discrimine tra gli uomini diventa questo: tra chi giustifica e chi no. Io no.

caldo fresco

La camicia leggera, la sensazione del vento sulla pelle, i calzoni corti. Percorrevo la città in bici, (lo faccio ancora), assaporando l’estate. Non so quando sia iniziato il piacere fisico dello svestirsi, del voler caldo e fresco, assieme. Di certo presto, nelle abbronzature di bambino, nella pelle che faceva fatica a scottarsi e amava il sole. Dalla città al mare e viceversa, in un ciclo che durava fino a settembre. E lì devo aver imparato il gusto dell’ombra sul corpo dopo il sole perché ne ho precoce -e tenero- ricordo. I portici freschi dei pomeriggi giocati a carte, la sabbia fina e l’odore d’acqua di canale, l’imparare a nuotare per poter fare i tuffi,  il capanno vicino alle docce dove il sapore del chinotto e l’odore dei saponi si mescolavano. Così per tutto luglio e poi arrivava l’ombrellone o le tende improvvisate in spiaggia, i piedi scottati dalla sabbia a mezzogiorno, le dune alte come case da cui gettarsi in corse a perdifiato, il cercare le ragazze che prendevano il sole nascoste, i rossori senza ancora saperne il perché, il mare fresco la mattina. Su tutto imperava il sole e in questo tornare fiducioso alla luce, c’era un richiamo a qualcosa che stava prima, qualcosa di inscritto nel profondo dove il calore era simbolo di benessere e il sole di benevolenza. In questo piacere innominato c’era già la ragione di quel godere del calore della luce, del farlo proprio sulla pelle, nel sentirlo riemergere la notte quando l’aria, dalle finestre aperte, percorreva il corpo steso, nei risvegli difficili e nel primo caffè, nelle risate di mattina, nella sensazione dell’acqua fresca, nel buttarsi sull’asciugamano e chiudere gli occhi e vedere grigio e tante piccole luci, nel lasciarsi andare al calore e poi, asciutto, ricominciare in acqua e di nuovo al sole, in una teoria infinita di ore che era l’estate. Un ciclo di giorni eguali e diversi che continuavano ed era fatta di pelle, caldo, sole, ombra, suoni, odori, profumi forti, pensieri radi, carte, ombrelloni, panini con il salame, pescatori che portavano il pesce a riva, luci al neon, musiche forti di notte, lenzuola fresche di lino, corpo nudo, colore, sete, acqua e tamarindo, bibite fresche, ghiaccioli, letture facili, desideri fondamentali, improvvisi, pulsioni pigre.

Anche ora, il richiamo del sole e dell’ombra sono due poli che contengo con eguale piacere, come fosse questa la misura dell’estate, assieme ai sapori forti degli aromi notturni, assieme ai contrasti di una stagione in cui c’è il caldo e la ricerca del suo antidoto, il sentire che tutto rallenta ma non si riposa. E lasciarsi, finalmente, andare, percorrere, abbracciare dalla luce e dal calore. Estate.

mattinale

Il bambinetto pedala sul suo triciclo. E’ a torso nudo, ha un paio di calzoncini scozzesi un po’ troppo grandi. E’ cicciotto e allegro. Si gira spesso per controllare il rimorchio di plastica su cui ha messo palette e secchiello. Ha giocattoli vecchiotti, ma è felice. Gira attorno a una casa di periferia, fatta negli anni ’50. Case di malagrazia e di molta fatica, senza progetto e di nessuna bellezza, ma è servita per dare un luogo e una prospettiva ad almeno due famiglie. Ghiaia e una corsia di cemento tutt’attorno, sulla rete di recinzione, roseti, potati innumerevoli volte, fioriscono, nell’angolo una baracca di lamiera. Il bambinetto ha una casetta di plastica da giardino, era molto colorata, ora è stinta e forse riciclata, come i calzoncini, da un fratello più grande. E’ un po’ sbilenca, lui si ferma, mette a posto il tetto, raddrizza una parete, poi parcheggia il triciclo e con gli attrezzi comincia a scavare. Si vede che è intento e felice. Del sole, della giornata calda, della stradina silenziosa, del richiamo della mamma che gli annuncerà qualcosa che lo riguarda. C’è amore attorno, una giornata felice, un futuro. Lui non lo sa ma vive in una parte del mondo che è in pace e se questa parte resterà così, dipenderà anche da lui quando sarà adulto.

A Gaza ho visto case simili, tantissimi bambini che giocavano, strade che finivano contro una casa, proprio come in questo vicolo di periferia. C’era caldo, il cielo era di un azzurro preoccupante, da giorni non si vedeva una nuvola. Cominciava la seconda intifada e ci dicevano di stare attenti, lì ho ritrovato la follia della normalità nella guerra dove la vita continua mentre si spara a poca distanza. Non ci è accaduto nulla, la sera tornavamo a Ramallah, si parlava di futuro, di progetti. Cenavamo tardi e la notte si sentiva il crepitare delle armi automatiche distanti.

In un altro vicolo vicino, una ragazzina torna a casa dalla piscina. Ha uno zainetto, il vestito leggero, l’abbronzatura di città e cammina con un passo aggraziato. E’ magra, molto carina, fa il primo anno di liceo, ha bei voti e una famiglia disastrata in cui vive. E’ nella bellissima età in cui ci si innamora perdutamente senza alcun filtro sociale e tutto sembra possibile. La sua dolcezza riscatta gli urli della casa da cui proviene. L’ho vista giocare poco, ma di sicuro l’avrà fatto, adesso la sento come una possibilità bella di vita, un contenitore di sogni che in parte si realizzeranno. Studierà e se ne andrà, potrà vivere ed essere felice. Lei forse ancora non se rende conto appieno, ma vive in una parte del mondo che è in pace e se questa parte del mondo resterà così, dipenderà anche da lei e dal suo impegno di adulta.

Penso ai tre ragazzi ebrei, uccisi da un odio senza umanità. Penso ai 4 bambini palestinesi morti ieri in spiaggia a Gaza mentre giocavano spensierati. Penso agli oltre 200 morti palestinesi di una guerra incipiente. Sento l’indifferenza dell’estate attorno, le emozioni leggere che fanno saltare le pagine di giornale e puntano al gossip, al positivo e confinano tutto in un brusio lontano.

Come si ama, si vive, si cresce, si provano sentimenti nell’età in cui tutto accade lontano? Perché se parlo di crisi, di difficoltà, di politica, anche qui sento il silenzio? E’ l’indifferenza, il tener fuori dalla propria porta il mondo che ci salverà? Non mi indigno più troppo facilmente, e non è cinismo, il fatto è che mi commuovo e la commozione è la spia dell’impotenza, del sentirsi inermi di fronte a un mondo che non è quello che sembra logico. Non quello che vorrei, ma quello in cui sarebbe bello vivere. Parlare di ciò che si sente, della bellezza, dei sentimenti è in fondo facile. Posso ascoltare musica, leggere libri che mi appassionano, godere dello spettacolo della natura, posso camminare, provare sentimenti profondi, pensare che tutto questo abbia un futuro e parlarne a persone che sentono le stesse cose. Posso decidere cosa fare e ho tempo per posticipare. Quando c’è la precarietà e la guerra, anche mezz’ora viene vissuta come un pezzo di vita, mentre io posso permettermi di vivere a tratti, di dire farò domani, di godere di un’attesa. Chi ha una guerra attorno non può farlo, deve vivere adesso, avere sogni immediati.

Non posso farci niente, però mi chiedo se essere insensibili, non parlarne, non sentirsi parte del mondo poi ci aiuti a stare davvero meglio. Avviene tutto fuori dalle nostre vite e ci chiudiamo in un particulare che alla fine diventerà la nostra dimensione. Toglierà le speranze comuni, non ci farà sentire in grado di cambiare assieme ad altri il mondo. Mi pare che tutto si restringa, che diventino angusti i vicoli in cui vivo, la pace che mi consente di pensare, provare, riflettere è un privilegio. Ho tristezza per quelli come me che sentono la propria impotenza, fiducia che il bambino del triciclo, la ragazzina, i tanti ragazzi che vedo per la città faranno qualcosa di sé. Tenteranno una felicità che li riguarda. Non so se diventerà una felicità comune, non so neppure se ho insegnato a mio figlio che la felicità comune è più grande di quella singola.

E’ mattina, c’è il sole ed è estate. Io sono parte di un mondo, mi tengo i dubbi, le piccole felicità e la sensazione che qualcosa mi sia, ci sia, sfuggito. Ma forse c’è tempo. Forse.

komorebi

 

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il chiaro tra i fiori sospendeva polvere e insetti,

anche il vento si fermò a guardare,

e prima di riprendere ad agitare spighe e piccole corolle,

si chiese o pensò,

perché una linea di luce curvasse

per abbracciare tanta bellezza.

Non c’erano risposte

che tenessero quieto il cuore,

così i fiori e gli steli continuarono a muoversi,

e sembrava una danza immersa nella luce,

un amore felice e indifferente.