cara .marta

 

Cara .marta,

…quanto piace il nido di malinconia… Dicevi proprio così e hai toccato una corda che conosco bene: il piacere della malinconia. Quella lieve che mette assieme la mancanza e il piacere, nella piccola sofferenza che essa procura. Credo che la malinconia contenga una forma di eroticità, basta considerare quanto essa porti a sé, allo scendere dentro. Dovessi dare qualità alla malinconia direi che è calda, ma appena oltre il tiepido, che è sensibile al tatto, setosa, e ha il colore degli acquerelli che sfumano verso l’orizzonte. Ti parlo di una malinconia che non pesa, che è sera e nostalgia di calore che protegge, non estenua,  e il lasciarsi andare è vigile, col pensiero che vaga, riallaccia cose apparentemente dimenticate. È mancanza senza dolore, qualcosa si è perduto ma si può ritrovare. Non è lo spleen, la fatica del vivere, il peso che accascia, la ricerca dei succedanei del dimenticare. Non è lo spasmo del piacere che subito dimentica e cerca di nuovo l’annullamento del soffrire. Non è questo di cui parlo. È ancora un dialogo che parla di possibilità ma è cosciente che il nuovo non sarà ciò che si è perduto. Penso alle banchine delle stazioni che vedono in continuazione treni e destini transitare. Le cose hanno la memoria che noi depositiamo in esse, un bosco è un bosco, i miei libri sono un colore e un contenuto, quella foto che guardo con insistenza per cogliere un pensiero, è avvenuta ed era indifferente al soggetto. Così se le banchine dei posti da cui si parte hanno il significato del lasciare, contengono anche la possibilità del ritorno. Solo che tutti sappiamo che non sarà la stessa cosa ed è giusto sia così, non ci ripetiamo, i treni perduti si potranno sostituire con altri che porteranno ad altro, ma non sarà lo stesso e se sarà meglio o peggio, nessuno lo potrà dire. In realtà ci provano i mondi paralleli e la meccanica quantistica, ma devo dirti che la cosa, così come mi viene proposta, è una possibilità che provoca una leggera allegria priva di alternative concrete.

Parlo di malinconie e non di una in particolare. Di quelle leggere che si associano al piacere d’essere. Una tra esse, mi colpisce e tengo a bada, è quella del non conoscere a sufficienza. Quando si ha la sensazione di non sapere si perde la nozione del controllo della complessità e questo genera l’insicurezza che si associa alla consapevolezza. È la malinconia che diventa melancolia se non la si confina nei propri limiti. Nel calore della mia casa ci sono molti libri che attendono di essere letti, molta musica che attende di essere ascoltata, molte parole che attendono di essere scritte. Ho fatto un patto con loro, ad essi spetta la possibilità di esistere appieno, a me il leggero senso di assenza malinconica del tempo che scorre e del fare limitato.

La malinconia leggera è anche terapeutica, misericordiosa verso sé, se riconcilia il ricordo col presente. Adesso direbbero che è resiliente, brutta parola per dire che aiuta a rimettere in sesto ciò che è stato percosso. In noi il passato sembra un sinonimo di ricordo, sappiamo tutti che non è così, il passato è stabile, fissato, il ricordo è vivo, si modifica, si conforma e agisce su di noi. La malinconia l’associo al ricordo e al presente, e sapessi quante cose utili escono dal guardare il soffitto, nel sospendere il pensiero dagli impicci che sembrano importanti e non lo sono. Non a caso il buon Freud ascoltava qualcuno che, steso, guardava il soffitto. Come dire che da stesi non si ride con facilità e che la quiete, e il pensiero che nuota all’interno dei ricordi e li collega al presente, ha qualcosa a che fare con la malinconia di cui parlo e con il ritornare a sé. In fondo quando si torna a casa si torna a sé, ai propri bisogni essenziali, al conosciuto che rassicura. E anche alla leggera colpa del non fatto. Mi sono chiesto se quel senso incompiuto del dovere si colleghi con la malinconia, probabilmente sì, anche se non ne è l’unico motivo. Forse è l’incompiutezza del desiderio d’essere amati quando si è amati, il non basta mai che ci si dice tra amanti. Forse è l’insicurezza che ci portiamo dietro perché l’andare e il fare non sono collegati al pensiero ma alla necessità imposta. Forse è perché semplicemente la vita si compie quando finisce e tutto quello che ci sta prima è ricerca di un equilibrio, di una gioia che metta assieme tranquillità e velocità del sentire, del pensare, dell’agire. Forse è la coscienza di quanto ci trascuriamo perché non ci esploriamo abbastanza. Forse, ma a che serve sapere la proporzione del cocktail, se esso è piacevole?

Ti parlo delle malinconie piacevoli, quelle che non escludono la gioia discreta, il sorridere e il riso e non delle malinconie violente. Delle prime abbiamo nozione e compagnia a vario titolo, tutti. Sono quelle che fanno desiderare la casa, il calore, i rumori noti, ma anche l’andar via, l’essere altrove. La saudade assomiglia molto a queste malinconie, ed è uno star bene moderato che desidera anche altro. La malinconia leggera non s’accontenta, ma apprezza ciò che ha, ciò che è stato ed ha uno sguardo ironico su ciò che sarà. Avendo viaggiato parecchio anche solo, questa sensazione l’ho sperimentata spesso, cioè il pensiero che ciò che conoscevo e avevo a casa non era dissimile da quello che sperimentavo, ma solo in fondo, forse per questo si desidera esplorare e poi tornare. È una sensazione che fa desiderare la casa, il calore, i rumori noti.

Per concludere questo girovagare di parole che parlano di qualcosa che credo tutti conosciamo, ti regalo un ricordo che si associa a un luogo che forse conosci. C’è una provinciale che scende da Teti verso Ollolai, quella che costeggia il lago di Cucchinadorza e poi si inoltra tra rocce e boschi, una strada dove le auto sono rade e le poche spesso ferme al bordo della strada, vuote. I proprietari o sono a caccia oppure sono  persi nelle proprietà impervie del Madrolisai. In quei luoghi, per uno straniero, è stato facile sperimentare la sensazione che l’equilibrio esterno e la precarietà che ci portiamo dentro, fanno fatica a dialogare. Quando percorrevo da solo, a sera, quei luoghi, pensavo che c’è qualcosa che ci spinge ad osservare e sentire, col rispetto, a volte col timore, che viene dalla solitudine e dalla estraneità/vicinanza della natura all’imbrunire. Ed era una sensazione che faceva desiderare la casa e il calore. Mi piaceva molto essere dov’ero e al tempo stesso avevo bisogno di raccogliere questa sensazione in un luogo protetto. Credo che questa sia l’altra faccia della meraviglia e dell’avventura, ossia il bisogno di portarla dentro, di trasformarla in vissuto elaborato. Si torna per partire. Si ricorda per viaggiare nel presente, per capire cos’è la realtà. E siccome essa ci sfugge, ed è quanto mai discutibile e al tempo stesso efficace nel condizionarci, ci si raccoglie in quel piccolo spazio sicuro d’insufficienza, ma anche di piacere d’esserci perché siamo stati.

Con affetto

willy

la macchina di babele

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Per quelle strane coincidenze, che non sono tali, George Gamow, matematico americano famoso negli anni’50 e Jorge Luis Borges, scrittore molto famoso in quegli anni e pure dopo, ipotizzavano in libri totalmente diversi, della generazione automatica di testi. Gamow immaginava una stampante automatica in grado di combinare le lettere e gli spazi, che operava senza limiti di tempo. Questa macchina avrebbe prodotto tutti i testi già scritti, anche quelli perduti o solo pensati e quelli ancora da scrivere. Bastava discernere il buono da ciò che era semplicemente una sequenza informe di spazi e di lettere. Fatica a suo modo infinita come la produzione dei testi.

Borges, nella Biblioteca di Babele, mostrava tutti i libri già raccolti in una biblioteca circolare, ed era un universo ben più inquietante nella sua indifferenza, ma il contenuto era lo stesso: si poteva generare qualsiasi libro scritto o da scrivere, metterlo in uno scaffale e forse qualcuno l’avrebbe letto e scoperto, ma anche no. Sarebbe comunque esistito lo stesso.

Il pensiero che si disperde, non solo nelle nostre menti, ma anche quando viene fissato, è la raffigurazione della babele dei contenuti che ci sono nel mondo ed ora nella rete. Universi che parzialmente si fondono, verità e menzogna che si sovrappongono, impossibilità nel discernere, nell’apprendere anche solo in piccola misura il desiderato. Dispersione di pensiero e infinite biblioteche di Alessandria che hanno avuto e avranno il loro carnefice. E diverse e parzialmente rinasceranno.

Ci si stringe in gruppi, in crocchi che parlottano tra loro, per evitare la dispersione. Questo può essere emblematico di una disperazione sottesa, di una solitudine che condanna il rapporto tra pensiero e sua manifestazione, oppure può parlarci dell’unico e della sua parziale riproducibilità. Come per gli infiniti testi, gli infiniti pensieri non saranno mai gli stessi, si perderanno già dentro in noi. Ma pezzi di pensiero riemergeranno in altri, in contesti e fattispecie differenti. Li riconosciamo e generano affinità. Molto sarà perduto, ma cos’è il molto rispetto all’infinito e al relativo che esso genera. Non possiamo averlo il tutto, ma chi cerca, o anche è solo curioso, trova. Ed è stupefacente cogliere qualcosa che ci assomiglia nelle parole di un altro. Non è noi, ma ci dà la sensazione bellissima di non essere soli.

ignoranza consapevole

Esprimere un’ opinione, sostenerla con convinzione e ascolto. Far la critica a un film, a un libro, a una fotografia, a un’opera d’arte, con gli strumenti della propria conoscenza. Sempre poca e parziale. Dare una visione parziale, ma sincera avendo il coraggio di mostrarsi.

Non l’espansione di un mi piace, che non sopporto a pelle, ma le ragioni.

Quelle ragioni espresse sono un’ immagine di ciò che vogliamo e di ciò che ci infastidisce. Persino una misura della meraviglia, del cinismo, della capacità di vedere la semplicità, della volontà di cambiare. Emergono inamovibili pregiudizi come forza primordiale, assieme a sciatterie e ignoranza. Verranno ricacciati o ci sarà il coraggio di mostrarsi? Ci si nasconderà dietro l’altrui giudizio per non prendersi la responsabilità del proprio limite?

Non c’è orrore dell’ignoranza ma della brutta figura, del perdere l’immagine, la considerazione ottenuta. Paura del giudizio e della perdita d’amore connessa.

Se qualcuno ci prendesse per mano potremmo capire e l’importante non sarebbe davvero il capire, ma quell’esser presi presi per mano: un gesto d’amore e di fiducia che supera ogni successiva comprensione.

i libri contengono idee e restano

Prendete in mano un libro Adelphi, guardatene la copertina elegante, il colore pastello, la fotografia o il disegno che ne occupa una parte con discrezione. Leggete sul primo risguardo la trama accennata e sull’ultimo alcune notizie sull’autore, entrambe sobrie e senza enfasi particolare. Guardate il carattere, forse meno elegante di quello che per molto tempo ha caratterizzato Einaudi, ma bello e nitido. Infine guardate la quarta di copertina e troverete una pagina senza parole: non ci sono recensioni entusiaste per invogliare ad acquistare il libro.

Quando Einaudi passò sotto Mondadori a chi aveva amato gli autori, l’offerta di catalogo, le scelte tipografiche di quell’editore, sembrò che finisse un mondo che aveva dato sostanza al piacere di leggere. Per questo non pochi esplorarono altri editori che sembravano avere analogie. Due in particolare attiravano l’attenzione: Adelphi e Bruno Mondadori. E’ rimasta l’Adelphi e leggere che Roberto Calasso ne ha acquistato la maggioranza impedendo che finisse nella concentrazione Mondadori-Rizzoli, mi ha dato un piacere importante. I libri di Calasso, quelli che scrive e quelli che edita, sono densi, pieni di un mondo che oggi fatica a manifestare la sua originalità e importanza, ma non sono mai pretesti. Dice l’editore-autore, che su 2500 libri editati ne sono disponibili 2300, già questo parla positivamente delle scelte, della loro importanza, ma sopratutto non confonde qualità con quantità.

Sono belli e importanti i volumi di Adelphi, e se ci si misura con loro, col piacere della lettura e del ragionare, lasciano il segno. Credo che per me nessun e book potrà avere la stessa somma di reazioni visive, tattili, di contenuto che ottengo da un buon libro, perché il testo, e il suo parlarci, è parte di un piacere che è intriso di forma, inchiostro e carta. Per questo mi sento di ringraziare un editore che confida sul proprio ingegno, sulla capacità di essere grande senza eccedere nel numero, che conta sul contenuto, sulla scelta, sul fatto che esistono molti dinosauri come me, che rifiutano le massificazioni, le critiche entusiaste della quarta di copertina, e l’ultima novità dell’elettronica digitale. E per fortuna non è l’unico.

canzone

Poggia le tue mani sulle mie
ho nozioni imprecise,
e non so cosa tu sentì. 
Se annuso la tua pelle
la sento rabbrividire,
ma non son sicuro di nulla:
credo sia il grigio che dilaga attorno.
Posso solo ascoltare
e fraintendere te, non me.
Ho nozioni imprecise
e ciò che non ho imparato
non l’imparerò mai più da me.
Insegnami di te,
mentre molto accade intorno,
mi basta saperti dalla pelle,
dal tuo sussurro se ti lasci andare:
sarà il calore che mi parlerà di te.

una pace intersecata di lampi

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Sta arrivando il temporale. Dal bianco lontano il cielo si sovrappone in dense nubi che infittiscono nel grigio.

Per radio leggono Oblomov. C’è un’ indecisione malinconica nelle parole intrise di mute possibilità perdute. Emerge l’ansia di Stolz per la felicità di Olga: sente che sarà felice se la felicità è di entrambi. Oblomov è distante, le vite si sono svolte e accontentate. Così in quella preoccupazione di Andrej per quel passeggiare muto, per le verità inespresse e temute, una frase di lei, si fa carico di entrambi e rimette ordine nei cuori ansiosi: Infelice? Sì, io sono infelice perché sono troppo felice.

Convincersi del bene possibile come esso fosse assoluto. E farsene una ragione come accade quando la ragione e il cuore non trovano accordo con un’altra ragione e un’altro cuore.

Nel cielo grigio ora ci sono canti d’uccelli e quiete. Brontolii di tuoni e un piccolo vento fluisce morbido come carezza tra i capelli e muove il folto oleandro della casa a fronte. La campana chiama alla sera, ma suona poco, prima di diventare anch’essa vibrazione di silenzio.

Tutto fa un passo indietro,

Quanta pace attorno intersecata di lampi.

la dote

Alla fine bevi sempre con gli stessi bicchieri, mangi negli stessi piatti, cucini con le stesse pentole. Cambia il cibo e cambiamo noi, ma poco o nulla i mezzi. Impariamo a degustare, mettere i vini nei bicchieri giusti, ma accade ogni tanto e così la fraterna tirannia delle cose d’abitudine c’accompagna. Sembra che queste siano fatte per accompagnarci, per avere un rapporto particolare con noi, e non ci stupiamo che corrispondano nei risultati. Conosciamo una pentola e ciò che è in grado di fare e lei ci ricambia. 

Da piccoli magari avevamo una tazza, o un cucchiaio, o una forchetta che erano solo nostri. Era un elemento di proprietà che ci dava una differenza, un posto particolare a tavola, un inizio di identità. E abbiamo continuato ad avere cose solo nostre, anche se le credenze e i cassetti intanto si riempivano di stoviglie che sono invecchiate con noi. Servizi che passeranno ai nostri figli e che spesso non vorranno. Il modernariato è una grande assemblea di desideri realizzati da altri, di occhiate alle vetrine, di regali tenuti con cura prima e con indifferenza poi.

Guardando i ripiani ricolmi si capisce la ridondanza, la sua gentilezza che contiene una mancanza, un ordine interiore naufragato sugli scogli dell’utile. I dono e il desiderio hanno accumulato un bello destinato a non raccontarsi quasi mai. E questa è la mancanza, ovvero quello che si è mostrato come sicurezza e possesso non ci ha allietato. Così tra gli scaffali che rivelano piccoli ricordi dimenticati emerge il bisogno di semplicità, un tributo all’innocenza possibile, un’altra possibilità di vita.

Avevo una forchetta d’argento. Era la mia, forse residuo di qualche dote sciupata. Con tre rebbi, da frutta, andava benissimo per le dita bambine. Decoro San Marco. Molto evocativo e veneto. Chissà dove è finita. Mia madre diceva: no la ghe xe? la sarà ‘ndà a san Lazaro. A san Lazzaro c’era la discarica. Dava la giusta importanza alle cose, mia Madre. 

ci sta la festa di San Gennaro

Ad un certo punto è finito tutto, la batteria della reflex, lo spazio sul telefonino, la voglia di fotografare. E la processione intanto si snodava tra le strade, suonavano le bande, i gonfaloni oscillavano e c’erano mille visi da guardare, da sentire. E io avrei voluto fermarli tutti nella memoria.

Se voglio vedere la dimensione della folla, la devo cogliere come tante singole persone. Vederla come insieme sembra acefala, indistinta, priva di spessore e d’intelligenza, al più fa paura, ma se la vedo nei singoli, allora sento gli odori, la ressa, la fatica, il sudore. Se ho una macchina fotografica la dirigo sugli sguardi che non vedono, sulle facce immerse in se, sulle parole che concitano, sulla distrazione e l’attrazione che s’inseguono, ma mi accorgo che l’obbiettivo non riesce a seguire la testa, che ciò che fisso è sempre parziale. Non è un racconto in se, non abbastanza almeno, come su un notes, i particolari rimandano alla storia, all’emozione provata.

Intanto la folla attende sul sagrato, è affluita dai vicoli e dalle strade adiacenti, si è ingrossata e ora aspetta. Sono usciti tutti i santi coprotettori, ne hanno letto brevemente meriti e vita, sono stati applauditi. Nella folla prima ciascuno ha applaudito i suoi e poi anche gli altri. E adesso tutti attendono, anche i Santi in fila dopo i gonfaloni delle confraternite, attendono. E tutti sono rivolti alla porta della cattedrale. Finché  esce il cardinale con la teca e annuncia che si può gioire perché il sangue di San Gennaro si sta sciogliendo. La folla ondeggia, si sente che è contenta e applaude tutta, anche gli stranieri. che sembravano non capire, applaudono, e la cosa è evidente che riguarda tutti e ciascuno ed è condivisa. Questo sentire comune emoziona, mi sento commosso per l’afflato, che esprime gioia e speranza e che sta attorno. Il Santo sente la sua città ed è ricambiato. Non importa che si creda o meno, è tutta questa emozione comune che circonda e che prende.

Lentamente il Santo raggiunge il suo posto e la processione inizia il  percorso verso Santa Chiara, la folla si divide tra chi ingrossa il corteo e chi  si assiepa ai lati.  A un incrocio un bambino sta sulle spalle del padre in quarta fila e quando il padre gli chiede: che santo sta passando? Il bambino risponde: è San Filippo Neri. E adesso? È Santa Patrizia. E ora?  È Santa Lucia. E a ogni nome di santo batte le mani, finché commenta: non so chi sia, ci sono le rose. È Santa Rita, dice il padre.

E io fotografo solo con gli occhi, perché Napoli è questo oggi: persone e spontaneità, bellezza insomma.

per questo si dovrebbero scegliere con attenzione gli amici

A volte non si sa che dire. E non bisognerebbe dire nulla. Ma non è che non si sa che dire, solo che non è quello che l’altra persona vorrebbe sentire. Se qualcuno ci racconta una condizione che assomiglia alla nostra, e la felicità si racconta poco, quasi sempre ci verrà detto un disagio, una difficoltà, un malcontento, e se è qualcosa che conosciamo verrebbe da dire: anch’io. E sarebbe un condividere alla pari, un consolarsi scambiando assonanze e cercando, magari, una via d’uscita che serva ad entrambi. Ma non è quello che l’altra persona s’aspetta, spesso vorrebbe commiserazione o una soluzione. E non avendo né l’una né l’altra, l’impotenza sopraggiunta indurrebbe al silenzio. Anche questo verrebbe male interpretato: distacco, incapacità di capire o condividere, cinismo. E così si prova a dire qualcosa, si tenta di consolare, di trasmettere una fiducia che vorremmo fosse trasmessa anche a noi. Poi il discorso muore. Ci si saluta. Se quello che siamo riusciti a trasmettere andava bene, l’altra persona sarà più leggera, magari penserà alla fortuna di conoscere qualcuno che propone un’altro modo di vedere le cose. Se siamo stati poco convincenti, comunque l’altro si sentirà meno solo perché avrà la sensazione che le nostre qualità non siano proprio così eccellenti come pensava: pensavo fosse diverso, capisse, mi dice le solite cose. Comunque sia, se ci osservassimo allo specchio, vedremmo le nostre spalle un po’ più curve, con un peso maggiore e con un dubbio in più. Per questo si dovrebbero scegliere con attenzione gli amici, perché la difficoltà e la gioia hanno sempre un’assonanza, una condivisione, un corrispettivo che rende entrambi più leggeri. E si sente, anche senza dire troppo, se gli amici sono tali.

bar sport mediterraneo

Per onestà e chiarezza bisognerebbe porsi le domande vere che stanno sotto i problemi: cosa vuol fare l’occidente di questi uomini che fuggono da guerre e fame, non di rado indotte dallo stesso occidente? E se non vuole fare nulla, come pensa di respingerli? E’ meglio porsele queste domande, perché ora sono un milione in attesa, ma se il mondo continua a generare profughi e affamati, i milioni cresceranno. Le soluzioni evocate in questi giorni vanno dall’affondare i barconi con i profughi a bordo all’affondare i barconi nei porti. Lascio perdere la prima soluzione perché solo un nazista può pensare una cosa del genere, ma anche la seconda non risponde in realtà a nulla di concreto perché basta ricordare, e ce lo dice la cronaca datata di oggi, che i droni o i cannoni non distinguono tra amici e nemici, tra prigionieri e aguzzini. Inoltre il milione di profughi che ha attraversato il deserto o è fuggito dalla guerra in Siria o in Iraq, che fine farà? Possiamo dichiararci irresponsabili di queste persone? Diciamo che il problema lo deve risolvere la Libia, un paese nel caos in cui non manca la responsabilità dell’occidente?

Per questo le soluzioni evocate sono da bar sport, in realtà si sta scatenando una guerra per il cibo, l’acqua e la vita. E l’occidente non potrà chiudersi pensando di salvarsi. Non ci riuscirà perché il costo sarà talmente alto da non poterlo sopportare. né democraticamente, né economicamente e solo se rinuncia a depredare i territori, come ha fatto per secoli, ma al contrario, investendo e creando condizioni di pace e di lavoro potrà uscire dall’assedio.

Salvare se stessi significa, affrontare un’emergenza umanitaria, e contemporaneamente disinnescarne le cause: guerra e fame. Per questo emergenza e progetto vanno assieme: se i soldi che vengono spesi per arginare l’inarginabile verranno portati e spesi nei Paesi d’origine si invertirà il percorso dei profughi. Nessuno ha voglia di morire per strada se non fugge da una morte certa o quasi, ma questo sembra che i governi occidentali non siano in grado di capirlo. Serve un piano di aiuti per l’Africa e il medio oriente che consenta l’autosufficienza alimentare ed economica, con il contemporaneo embargo delle armi e l’imposizione della pace. Ma questo ha dei costi, forse per questo si preferisce l’emergenza e il dibattito sterile che genera: perché svia dalla soluzione reale del problema. Ma non perderemo il benessere raggiunto se si forniscono le condizioni di autosufficienza ai popoli, semplicemente evitiamo una guerra che già è in atto, anche se non dichiarata, e che, fosse solo per il numero, ci vedrà comunque perdenti. Quindi un calcolo di perequazione di risorse, di riduzione dei conflitti, la stessa diminuzione della diseguaglianza è oggi un calcolo logico, basato sul male minore: l’occidente cambia il mondo rendendolo più vivibile ovunque e conserva il suo benessere. Anzi lo può addirittura accrescere perché crea  capacità economica, nuovi mercati non più basati solo sull’assistenza. E tutto questo non ha nulla di buono o santo è semplicemente l’alternativa all’uccidiamoli tutti.