bisognerebbe dire la verità

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Bisognerebbe usare la verità come terapia. Per togliere molti aggettivi, anzitutto. Per sfrondare il campo dal relativo che contiene troppa ipocrisia, troppo lassez faire. Ogni giorno un po’ di verità in più per guardarci attorno, per cogliere un particolare che mentre ci ferisce (le nostre ferite sono quasi sempre leggere e transitorie) ci spinge un po’ innanzi nella comprensione di dove siamo davvero. In quel davvero (da vero è pieno di verità) c’è il nostro punto astronomico. 

Che non è qui, sulla terra, in quell’angolo che ci siamo ritagliati. Ben protetto, magari sporco per la polvere accumulata, per i segni sui muri costruiti con pazienza. È nell’universo. Il nostro è un punto astronomico con ciò che sappiamo di noi e con lo sconosciuto che ci sta attorno e ci rivela. Qui sta la percezione del luogo, dell’identità e del cambiamento. 

Bisognerebbe dire la verità e abituarsi a usare sempre meno parole-congiunzione, modi di dire, schermi sintattici. Sapere che la realtà si semplifica e si falsifica per comunicarla. ma agli altri, non a noi.

A noi bastano poche parole, parecchia abitudine ad essere stupiti, senso del limite.

Le parole sono quelle che pronunciamo interiormente, così essenziali e pregne da svilirsi nell’aria.

L’abitudine ad essere stupiti è il rovescio del dover dimostrare qualcosa, è il rigore dell’identità che non ha timore di aprire le finestre per essere contraddetta e crescere.

Il senso del limite è sapere ciò che si è non ciò che si può essere, e non limita nulla ma guarda oltre e vede il possibile.

Nel possibile e nello stupore c’è molta verità.

E siccome nel comunicare si semplifica troppo, ci si mette nello stesso piano di chi ascolta, bisogna mostrare, additare, far emergere il particolare, il bello e il suo contrario che gli permette di essere aggettivato.

Badate bene che queste sono opinioni, che quanto è scritto sopra è rivolto a un me che si arricchisce se guarda, se rompe un’abitudine, se coglie un nuovo ordine nelle cose, se sente la gioia di superare un limite che lo fa più simile a se stesso. Per questo c’è quel bisognerebbe. Non bisogna niente, nessuno è obbligato. Si può, semplicemente, oppure si può farne a meno. Non c’è un giudizio di valore per una abilità, è solo una possibilità che diviene terapia. (e qui finisce il bisognerebbe perché ci sono tanti, infiniti mezzi per togliere la percezione dell’assenza di verità che di sicuro ci sono già caduto)

chi abita il corpo?

Una macula infinitesima. Un’imperfezione della retina dovuta al troppo uso. Così è nata una piccola moschetta inesistente, che raramente vola nell’angolo del campo visivo.

Come un fantasma, si prende l’attenzione inquieta, del vedere e poi perdere nozione. Accade anche quando ci si guarda dentro e per un attimo, un solo attimo, tutto diventa chiaro, salvo poi perdersi e sparire nei piccoli gorghi di cui è costellato il mare al limite del cosciente. Tornerà, sia la moschetta che la percezione assoluta. E il pensiero assieme agli occhi torna sulla pagina. 

Quando ci sarà la tecnologia necessaria, quel puntino che vola sarà un pixel bruciato: anche adesso con 7 si può cambiare il sensore, se è in garanzia…

Importante è la misura che il nostro corpo ci propone.

La sera ci si propone di perdere cinque chili. Perché?

Abbiamo parlato con chi abita il corpo?

Già, chi abita il corpo sembra sia solo il cervello, anzi neppure quello ma quel pizzico di coscienza che va spesso per i fatti suoi. Di sicuro lo fa quando si dorme, ma spesso anche da svegli. E invece, di tutto quello che sta sotto la cute ci si occupa come di un inquilino moroso, quando dà segni d’insofferenza per lo stato della casa.

Facciamo un conto: ho un sacco di organi collegati, una macchina piena di display e di segnali, un sistema simpatico (ma molto indipendente) che governa gran parte delle cose e il tutto abita dentro di me in silenzio. Forse perché non parlo mai con nessuno. Mi occupo della coscienza, raramente del sauro che alberga al buio nel profondo, ma a tutto questo sommesso sferragliare non concedo il bene della mia comunicazione. Non alle 206 ossa che esigerebbero un dialogo singolo e neppure alle 68 articolazioni. Eppure c’è stato un momento in cui ho scoperto che esistevano, è stato con una caduta importante e la riabilitazione. Per due mesi si svolgeva un rito molto fiducioso, nudo, steso, pancia sotto, avvertivo che le mani che stavano estraendo risposte da muscoli e articolazioni riaggiustate stavano parlando con qualcosa che avevo sempre trascurato. Non era un massaggio piacevole, era un dialogo tra parti che riemergevano. Alcune mi sembravano risentite di essere state chiamate dopo tanta trascuratezza, altre più docili, si prestavano a funzioni nuove. In quei mesi, mi promisi di riprendere il discorso, poi le cose andarono diversamente. Subentrò nuovamente la violenza con cui si chiede a noi stessi e a chi ci abita, di fare le cose.

Però mi ero convinto che, come per la coscienza, per la fantasia, l’acume e la memoria, ci fossero altri con cui stare in compagnia. Chieder loro come stanno, ma soprattutto cosa vogliono. Nei miei dialoghi con i coabitanti capivo che il linguaggio era essenziale, che c’era bisogno di calma reciproca e che soprattutto era un dialogo a due. Per questo – pensavo- ci si stende, si chiudono gli occhi e si ascolta. E anche se all’inizio non sembra arrivare nulla, ma in realtà poi ci sono segnali, piccole richieste. Capivo che i miei compagni erano modesti e alacri, che facevano tutto quello che potevano e anche più, ma se dovevo perdere cinque chili dovevo parlare con loro. Cioè non bastava togliere, bisognava aggiungere, dare, fornire un significato: cosa vuoi che interessi al fegato la mia bellezza, eppure senza la sua collaborazione la superficie soffre, dentro nasce un putiferio, i suoi amici si rivoltano, quindi dovrei discutere con lui non della bellezza ma di un nuovo equilibrio. Quello che è strano è che si parla con soggetti enormemente tolleranti, flessibili, che si adattano e si conformano purché gli venga fornita una ragione valida.

Serve una ragione valida e un discorso che ascolti. Poi anche i desideri saranno esauditi, le passioni introjettate ed esaltate, e non sarà un discorso tra macchine ma tra soggetti.

Chi abita il corpo? È una domanda rara, ma se si pone è una continua scoperta.  Basta qualche minuto al giorno, non per placare un urlo, ma per ascoltare chi c’è. Anche se tutto funziona lo stesso, si fa movimento, si mangia con attenzione o si eccede in allegria. Senza un obbiettivo che oltrepassi la curiosità di capire, di collegare, solo per  accogliere il corpo come i pensieri. E partendo dall’ignoranza, che è la migliore condizione, ascoltare e dialogare. Pensando che solo noi possiamo fare questa esperienza ed è un peccato vivere senza farla.

l’amore al tempo dell’incertezza

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Ne erano nati degli altri. Sott’acqua. Prima timidi accenni, come a tastare attorno la possibilità di crescere. E di essere individui completi pur facendo parte di un ceppo: uno e tanti assieme. Poi i nuovi getti, rinfrancati, puntavano verso l’alto con una gioia trasfusa in quel verde limpido che solo l’acqua riesce a estrarre.

Lei mi aveva detto che in un articolo, pubblicato in qualcuna delle riviste scientifiche americane che seguiva, c’era la conferma della presenza di neuroni vegetali. Quindi un sistema parallelo che percepiva, elaborava, reagiva agli stimoli, forse parlava con le altre piante quando le propaggini dell’ una evitavano di intralciare l’altra. Un ordine segreto contro la confusione che impediva di crescere, che dava e toglieva energia, esponeva alla luce oppure occultava. Un lavorio di stimoli che consideravano naturale la condizione dell’immobilità relativa e quindi dovevano sviluppare alternative per l’incontro o la difesa.

Questa era l’incertezza, ovvero percepire, elaborare, vedere l’occasione e il pericolo, eppure essere immobili. Sentire l’amore che nasceva e non sapere se fidarsi di farlo crescere o meno, in una condizione di società vischiosa, senza orizzonte lungo e quindi scevra di speranze. Non era questa la scelta nel relativo, ovvero far nascere e considerare da subito l’idea che finisse sentendo già il peso dell’ uccisione dell’amore. E non era questo finire dell’ amore uno strappare la possibilità con le sue radici, impedendole di essere realtà?

Altrove accadeva qualcosa, questo era certo, ma cosa? Comunque c’era chi si lasciava andare a facili entusiasmi, chi sviluppava superficiali alternative, chi, ancora, semplicemente si fidava perché non poteva fare altrimenti. Era tutto così complicato e semplice. Come per una pianta l’essere in balia di uno stupido animale brucante questo generava un’accettazione del presente. Solo il presente.

Il tempo dell’incertezza.

E del passato solo la confrontabilità, utile all’occasione, per rafforzare gli assoluti così relativi da essere circoscritti tra virgolette. Un “per sempre”, un “mai come adesso”, il “mio amore definitivo”. Ed erano così difficili quelle parole che si gettavano in avanti, quasi a rassicurare sé prima dell’altro, da essere pronunciate troppo spesso, cosicché le trajettorie si riducevano, come non avessero peso e si svuotassero nel volo. Poi il passato tornava con grosse bolle di ricordo, ma restava il rammarico e l’automaticità, non la sua capacità di generare futuro. 

Il presente, il piacere, il dis-piacere, ciò che passa e ciò che resta. Come se il tempo fisico si fosse cristallizzato in un perenne adesso, così fragile che qualsiasi evento esterno, fato (?) o casualità, l’avrebbe mandato in frantumi. E il noi con esso. Perché nel tempo dell’incertezza comunque il noi veniva coniugato, l’io era solitudine ed essa era ancora più acuta quando i punti attorno erano indecisi sul da farsi. Franavano e seppellivano oppure smottavano lontano. Per caso.

Leggevo cronache più che racconti. Diari e quotidiano. Oggi mi è accaduto questo, quest’altro, domani ci sarà quello… Non riuscivo a cogliere da questo raccontare, la prospettiva, le speranze, cosa si sarebbe voluto accadesse, come se i desideri si fossero spenti nell’indeterminato desiderio che tutto vada bene. Ma cosa e come lottare perché ciò avvenisse, questo no, non c’era.

La dimensione dell’uomo è il racconto, più o meno analitico, a volte superficiale, ma mai banale per davvero. Mancava questa dimensione. Quando si parla del racconto del presente si dice qualcosa che ha un substrato da cui si alimenta, una cultura, un insieme di convinzioni che generano desideri. E una prospettiva. L’incertezza uccideva la prospettiva. E con essa, l’amore ne soffriva, non diventava passione. Capacità rovente di piegare il tempo verso di sé, di noi.

Avevo ascoltato in una conferenza molto affollata, uno psicanalista junghiano dire, che questa era l’epoca in cui le passioni s’erano spente assieme alle ideologie. Le persone si erano guardate smarrite e poi avevano applaudito. Anche quando aveva detto che i simboli e i miti resistevano, e restavano una riserva per costruire mappe e riferimenti, avevano applaudito. Ad altre conferenze con un altro psicanalista, molto in voga, lacaniano, si erano dette parole diverse. Sembravano ricche di speranza, basate sulla volontà, quasi fosse possibile uscire da soli dall’imbroglio in cui si era finiti. Ad un certo punto, parlando dell’amore e del tradimento, aveva fatto una serie di considerazioni che mi parevano molto legate alla morale cattolica più che alle persone e alla natura dell’amore. Ma in fondo diceva cose di buon senso, sull’attendere, sul posticipare il definitivo. Mi perdevo a pensare che con tre concetti, forse meno, imbastiva una conferenza di un’ora e mezza e c’erano applausi scroscianti. Le persone si alzavano sorridendo. E io capivo che aveva descritto una rotta per l’età dell’incertezza: puntare sul consolidato, su quello che è stabile, riempire i vuoti di buona volontà.  Ma l’incertezza era dappertutto e noi eravamo immobili: lo sentivo questo, lo vedevo, ma al tempo stesso speravo di sbagliarmi.

Serviva una mappa, anche un portolano andava bene, perché solo navigando si sarebbe usciti dall’immobilità. Oppure bisognava rivoluzionare il modo di vedere le cose, non considerare più il movimento come risorsa della speranza, ma partire da ciò che si era e sviluppare nuove capacità di relazione. Nuove sensibilità che percepissero l’ambiente, le sue positività e i suoi pericoli. Questo era rivoluzionario per una cosa apparentemente immutabile come l’amore, aveva bisogno di nuove parole, di nuove certezze e di altrettanto nuove promesse. Diceva che era necessario stringersi quando c’era il vento e la paura, e allargare le braccia per lasciare entrare aria e luce. Diceva che non bisognava sempre sovrapporsi, togliersi spazio, ma che sapere dov’era l’altro era sufficiente perché l’amore fosse vicino. Rivoluzionava abitudini, rendeva semplici cose difficili e viceversa, ma conservava una dimensione del tempo perché l’amore è fatto per durare non per scadere nel presente.

E mi chiedevo come tutto questo potesse entrare in un nuovo raccontare. Perché raccontare è rendersi conto, guardarsi attorno, sentire in maniera così profonda che subentra il traboccare e il trasmettere a chi può ascoltare. 

Me lo chiedevo e guardavo le piante che sembravano aver trovato un nuovo equilibrio, e ne ero contento per loro. E me: si può trarre non poca gioia, e lettura della realtà, dalla cura una pianta.

 

 

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=5l6jF8v_Wus

appunti 2

Qui tutto si rinnova i cicli si completano:

L’immagine delle sedie desolatamente vuote alla presentazione del rapporto dell’agenzia ONU sul clima, WMO, testimonia il distacco tra l’eguaglianza da assicurare agli uomini e gli interessi del capitalismo e delle economie degli Stati. Eppure ciò che si dice nel rapporto è terribile, parla di danni ambientali che potranno essere risanati in molte generazioni di comportamenti virtuosi, di oceani che si innalzeranno, dell’ imprevedibilità di tempeste tropicali o locali, di milioni di persone condannate a spostarsi o morire.

Voi credete che questo scenario riunisca i grandi della terra, i gestori dell’economia per immaginare un futuro alternativo? Ebbene sì, si riuniranno per dilazionare le urgenze, per non vedere la globalità dei problemi e quindi la necessità di soluzioni globali, verrà detto che chi produce anidride carbonica lentamente uscirà da queste produzioni, che l’energia è necessaria anche ai nuovi popoli emergenti.

La terra è indifferente a ciò che decide una piccola razza animale, al più, adattandosi a ciò che accade ne può favorire la scomparsa, ma lo farà senza malanimo. Non si adonta se bruciamo foreste, se eliminiamo specie, non ha un giudizio etico su di noi, semplicemente si accoccola meglio nelle nuove condizioni. Agita di più i venti, sommerge coste, aumenta il mare e scioglie i ghiacci. Tanto poi i ghiacci li rifarà con una nuova glaciazione, le coste riemergeranno e le foreste si espanderanno nuovamente appena diminuirà la pressione di quella specie che accumula denaro inutile a salvarsi e non risolve i problemi.

Stranamente c’è molto di nuovo, di vitale, in tutto questo. Si alza la temperatura, si sciolgono i ghiacci. Si tagliano le foreste, avanzano i deserti dove c’erano pianure fertili e per lo stesso motivo dove c’erano ghiacci si coltiverà il grano. Qui tutto si rinnova e i cicli si completano. La terra è indifferente se chi prima aveva di che mangiare, non l’avrà più, perché altrove si potrà aprire un nuovo ciclo. Capire che le cose non restano a mezzo è fondamentale per trovare soluzioni vere, il resto sono contentini, tirare avanti e passare il problema ai figli.

Un tempo ci si divideva tra apocalittici e integrati, tra quelli che vedevano conseguenze gravi e quelli che si bevevano il bicchiere mezzo pieno. Siamo circondati da indifferenti e da parecchi che bevono, gli altri sono quelli che si preoccupano e gli passa la sete. C’è qualcosa di apocalittico in tutto questo? Non credo, vedrete che riemergeranno le centrali atomiche che non producono CO2, vedrete che qualcuno progetterà barriere mobili per fermare i mari dove c’è denaro che cresce, vedrete che in Africa si continuerà a desertificare piantando jatropha e togliendo foresta. Vedrete che crescerà l’industria automobilistica basata sull’ibrido e con essa i produttori di accumulatori elettrici. Vedrete che continuerà la produzione di plastiche e la ricerca per smaltirle senza che nessuno si ponga domande sul consumo energetico connesso e da quale fonte provenga. Vedrete che l’allevamento di carne da hamburger o da consumo di massa, crescerà e che al più cambieranno le salse da mettere nel burger. Addirittura ci sarà una crescita di fonti rinnovabili e di sistemi di produzione, molto meno si investirà nella conservazione dell’energia e quindi nella bonifica energetica degli edifici. Catastrofista? Non credo, vedo chi sta bevendo il bicchiere mezzo pieno e che si dice fiducioso nella capacità dell’uomo di trovare sempre una mirabolante invenzione che cambi ciò che è prevedibile.

E gli altri? Volete che me la prenda con chi ho conosciuto ai margini del Burkina Fasu e che taglia il sottobosco per cucinare il cibo, che non ha correte elettrica, è sempre al limite della fame e della malattia? Oppure me la dovrei prendere con gli eritrei che tagliano un po’di piante per scaldarsi sull’altopiano perché d’inverno non fa mica tanto caldo e per cucinare serve la fiamma. Me la dovrei prendere con il pescatore che prende un po’ di pesce per sfamarsi e per venderlo al mercato in un fiume pieno di melma? Lui sa bene che il pesce sta cambiando razza, che il cuneo salino risale per oltre cento km il fiume perché non piove più a monte e non c’è portata d’acqua. Mangia un pesce un po’ più salato, guarda le mangrovie e la vegetazione di palme che muore, gli spiace, ma cosa ci può fare. Me la devo prendere con lui? Come vedete, non sono catastrofista, anche se penso che le persone che vivono in condizioni di quasi espulsione dalle loro terre e città potrebbero fare qualcosa, ribellarsi ad esempio, ma hanno così poco che anche la ribellione è un lusso. E visto che non sono catastrofista io penso che la ribellione debba partire da qui, da dove si capisce dove si sta andando, che qui si deve aiutare un processo di re indirizzamento delle risorse economiche del mondo. Ci sarà sempre chi farà soldi con questo ma almeno non sarà per sterminio indifferente.

Vedete, circola da tempo l’idea che comunque siamo troppi. Quando eravamo meno, molti meno, la cosa si esprimeva con l’idea che la guerra fosse l’igiene del mondo perché eliminava i deboli e credo che quest’idea non sia scomparsa dalla testa di molti benpensanti, l’hanno solo spostata altrove, perché non solo ci sono le guerre con carichi inauditi di morti civili, di spese senza limiti fatte per distruggere, di inquinamento irreversibile, ma si pensa pure che se il pianeta si comporterà in modo più aggressivo, se verranno sommerse coste e città, comunque chi più avrà per proteggersi, non soccomberà.

Questa è l’ingiustizia assoluta e non la si può imputare alla fatalità, alla terra che si ribella, ma si deve riportare alla causa, e a questa è giusto ribellarsi con i consumi, con la condanna dei governi che non limitano i modelli sbagliati di vita basati sul consumo di energia e di cose, boicottando chi devasta e inquina. Insomma solo l’uomo può mettere argine all’uomo e questo non è da cultori dell’apocalisse, ma semplicemente la possibilità di chi pensa che vivere sia un diritto che riguarda tutti e non solo una parte del mondo.

http://https://www.youtube.com/watch?v=2Dnkc_-7tHo

 

30 settembre 2016

Amica mia cara,

ho messo l’inchiostro mocha nella stilografica, dismettendo il nero che da troppo tempo tempo rendeva i pensieri più netti sulla carta. Li pensavo dubbiosi e aperti, i pensieri, e loro con quel nero diventavano senza alternative, tanto che alla fine mi sentivo chiuso dalla mia stessa logica. Privato del dubbio. Così ho tolto il nero e sostituito anche le tende estive con queste più chiare che ora si gonfiano di luce. Sul mio tavolo, sempre troppo ingombro di sollecitazioni, di malie, di carte e ritagli, di penne, matite, c’è ora una luce calda che fa risaltare le possibilità del disordine. Interiore ed esteriore, come ai bei tempi. Però attorno vedo le cose in fila, consequenziali, e per quanto capisco, vorrei scriverti del loro stato. Mettere dei punti fermi in questo fluire dove tutto è relativo e il seguente annulla ciò che l’ha appena preceduto. Non è il panta rei eracliteo, quello che ci attornia, è un percorso di singulti, un film tagliato a pezzettini e rimontato, dove la ricerca del senso, alla fine, ci lascia disorientati e un po’ più soli. Non l’avevamo previsto, vero? Non io almeno e neppure tu, anzi ci pareva che tutto dovesse aprirsi, includere, essere più libero e crescere nel nuovo, invece nessuna di queste attese si è avverata, e ci troviamo stanchi e pieni di dubbi. Su di noi, anzitutto, mentre ci sono avversari agguerriti che sfondano il fronte delle certezze, che conformano nuove abitudini, che irridono e rendono ridicoli gli sforzi per tenere assieme, discutere, riflettere. Ricordi? A noi sembrava che questa fosse un’educazione permanente, un modo per andare avanti tutti assieme. Ora non importa chi è avanti e chi indietro e così emerge un disagio sterile, senza analisi né cura, un confronto di infelicità che trovano consolazione in chi sta peggio.

Mi chiedo quante categorie, quanti punti fermi siano rimasti di ciò che abbiamo vissuto. I tuoi anni ti sono molto più amici dei miei, ma non ci si badava poi tanto allora e la tua vita è stata un affermare la diversità, la necessità di essere te stessa. È una parte grande della tua bellezza, del fascino che porti con te, ma credo che anche tu avverta che ora è più difficile essere se stessi. Adesso è più complicato appartenere a uno di quei gruppi tumultuosi che piacevano ad entrambi, dove la discussione durava fino a tarda ora, irta di logica e avvolta di passione.

Dove farla questa discussione, adesso ?

Dopo le riunioni, inzuppati di fumo, uscivamo e sotto qualche luce e balcone si continuava finché non c’era la protesta o il catino d’acqua di chi andava a lavorare presto e ridendo si tornava a casa. Anche noi andavamo presto al lavoro, ma quel tempo ci sembrava irripetibile e prezioso. Ci pareva di essere nel mondo, di contribuire a cambiarlo.

La distinzione era quella di Eco, tra apocalittici e integrati, adesso è tra digitali e analogici. Credo di essere irrimediabilmente analogico, di ragionare sempre per alternative con una pluralità di possibilità. Hai mai pensato a come cambiano i ricordi tra l’analogico e il digitale? Il nostro ricordo interagisce sempre con il presente, ne è modificato. Anche la scelta dei ricordi emerge da un sentire o da domande apparentemente scollegate. Il digitale, invece, è un processo logico, si sa cosa si cerca. E lo si trova nella sua incontrovertibilità, nella precisione delle parole e delle immagini che riportano date e minutaggi, persino il luogo diviene certo, e tutto ci mette soggezione con la sua definitività. Forse per questo lo accumuliamo, perché sembra un punto fermo e ci parebbe di cancellare ciò che siamo stati, ma alla fine di tutto quel documentare non si sa che farsene e lo si sente un giudice severo e sterile più che un amico che cresce con noi e ci modifica. Insomma è inutile come una cattiveria. E così accade in molto d’altro che un tempo faceva parte dell’universo del pressapoco ed ora è così preciso. A noi pareva ed era già molto, le cose si precisavano strada facendo, spesso mai del tutto, ma una direzione c’era.

Cosa ci sta accadendo amica cara, perché siamo così soli, contrapposti, insicuri e senza l’idea di dove vogliamo andare? Mi ripugna e respinge, sia il pessimismo che livella tutto in un male già vissuto e l’ottimismo forzato che non guarda la realtà, il disagio, la sofferenza. Credo che i cinici siano un po’ vigliacchi, per non soffrire si ritagliano uno spazio da cui osservare la sofferenza altrui e si congratulano con se stessi di esserne fuori. Anestetizzati, non aiutano nessuno, perché la sofferenza deve fare il suo corso. È la vita, dicono. Ma anche gli ottimisti forzati hanno una caratteristica che non me li fa sopportare, sono infingardi e perseguono la cecità selettiva. Confondono la loro attesa con la possibilità reale e sono divoratori di presente. Lo mangiano senza ritegno sottraendo agli altri il futuro. Propongono il proprio modello come assoluto e dissipano le possibilità di essere assieme perché chiunque non la pensi come loro viene escluso dal migliore dei mondi possibili. Il loro. E non hanno dubbi.

Noi forse di dubbi ne avevamo troppi, tu sai di che parlo: troppe domande, troppo preoccuparsi per gli altri, per i compagni e per quelli che non lo erano. Eravamo davvero un’entità collettiva con pensieri, destini, desideri e bisogni singolari, ma assieme. Adesso il dubbio è stato spazzato via e ci pensa la realtà a fare giustizia. Come la fa lei, senza guardare in faccia nessuno.

Tempo fa avevo aperto un blog, essilio, in cui pensavo di raccontare le mie crescenti difficoltà all’interno del mio partito che sentivo mi sfuggiva e non rappresentare più l’area di pensiero, di attesa di futuro in cui, assieme a molti altri, mi ero formato. Vedevo questa emorragia silenziosa di passioni che si spegnevano, di ideali che diventavano un peso e un errore se confrontati ai risultati. Sentivo che il futuro per cui mi avevo lottato era caduto sotto l’orizzonte e la vita mia, spesa tra lotte sindacali, politiche, l’impegno amministrativo, il lavoro e le sue scelte sembrava se non sbagliata, inutile. Mi sono fermato dopo pochi post, perché mi sono accorto che facevo parlare l’amarezza e non l’analisi, che quello che scrivevo diventava il diario di una sconfitta personale e collettiva e che questa percezione era meglio lasciarla scrivere ai fatti, ai gesti, sennò ci sarebbe stato il livore e questo non me lo potevo, e volevo, permettere.

Però le cose mutano, amica mia, è passato un anno e tutto sembra così distante anche se in fondo i mutamenti li abbiamo davanti, non a consuntivo. Riprenderò a scrivere di politica, di posizioni mie, perché la politica è sentimento se riguarda il rapporto tra noi e gli altri; che non sono altri ma persone. Riprenderò a scrivere di sentimenti, di realtà come la vedo e quindi di dubbi. Mi manca molto la vicinanza, l’amore che sgorga dalle cose, gli occhi che si illuminano, la voglia di abbracciare e il silenzio che l’accompagna per condividere a fondo l’esserci. Mi manca questa dimensione che è parte di un condividere e che non possiamo riservare all’eccezione troppo spesso fatta di negatività, di disastri. Mi manca proprio il condividere, la parola, gli occhi che sorridono, l’ironia e la voce che tace in un silenzio che ancora dice. Mi manca, dico, ma intanto ci sei, e c’è la vita, ci sono le idee e noi, assieme a tanta stanchezza, indomiti. Ci sarà modo per dircele queste parole, e per me, di fare esercizio d’ironia per stemperare ciò che sembra troppo grande, ma so che ti piace ricevere lettere, meglio se scritte a mano, così ti scrivo. 

È il romanticismo che ci ha fregato, amica mia, o forse è stata la nostra grande risorsa. Comunque sia, è bello aver vissuto e vivere così.

Con un abbraccio che duri quanto serve e un attimo di più.

willy

http://https://www.youtube.com/watch?v=_1A980UCdc4

fine della storia ?

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Dovevano trovare un motivo per lasciarsi, e doveva essere dignitoso.

Dignitoso significava adeguato, appellante alla necessità, all’impossibilità di continuare. Doveva essere qualcosa che concedesse all’amore, o a quello che ne restava, di rimanere con il tratto positivo che segna le vite e le spinge, non le fa fuggire da qualcuno o qualcosa. Quel motivo era già stato declinato in modi differenti, giocato sul limite eccitante e pauroso del precipizio. C’era una sorta di assioma in quel non morirà mai che sembrava giocare con il tempo, le contingenze, gli obblighi. E le scelte. Nelle affermazioni incaute del mai e del sempre era pur rimasto l’a prescindere. E su quello si era giocato quel rapporto finché era stato sostenibile. Era necessario finisse negli obblighi non nel suo attrarre e dare senso alla vita.

Il tavolo ad un certo punto aveva alzato la posta chiedendo la radicalità che include l’amore, la necessità di svolte e scelte che alterano tutto il passato e ridimensionando il buono che era stato, perché la dittatura del prima, del possesso, confluisce nel non dipendere dal futuro e sembra libertà dolorosa di scelta, ma impedisce che si accetti davvero la giocata. In quel lasciarsi c’era la conseguenza di un ragionamento binario che includeva una strada e una necessità escludendo l’altra.

Allora si può dire che due necessità si siano confrontate, accade spesso nelle scelte vere, e che la scelta dell’una avesse molte ragioni importanti. Anche l’altra ne aveva, ma era una partita a due e quando si è in due, qualcosa o qualcuno soccombe. Per questo, e per molto d’altro, serviva una soluzione dignitosa. Che non lasciasse fuori tutto il buono che era cresciuto. Cosa quasi impossibile, e allora uno si prendeva la responsabilità e se l’altro avesse amato oltre il limite della contemporaneità avrebbe accettato pur restando ferito. Qualcuno era vittima e qualcuno carnefice, ma era difficile, come sempre stabilire il limite perché il bene dell’altro rovescia i ruoli e allora restava il fatto di interrompere una possibilità prendendosene la colpa. Ecco. Serviva una colpa e una necessità che la scatenava, e attenuava, perché la colpa si può espiare, può essere perdonata. 

Accettare il proprio limite era più difficile perché significava vedersi come si è nel profondo, senza attenuanti, capire che gli aggettivi non contengono le paure, che al più tentano di esorcizzarle. Il limite è l’orlo dell’infinito e tutti lo portiamo dentro: questo è l’abisso.

http://https://www.youtube.com/watch?v=7rE2tBheNII

l’infanzia del limite

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Tutto si poteva riassumere nella sensazione di una definitività accessibile. Un assoluto che non aveva bisogno di nome, ma era lì, a disposizione, per essere capito, investigato, fatto proprio. Definitivamente.

E attorno c’erano piccole cose che tiravano via, urgenze false e fastidiose che volevano rimandare l’accesso a quella soglia di comprensione profonda. Ma a ben guardare, erano loro che acuivano la sensibilità e l’urgenza e rendevano netta la sensazione di scelta: si sarebbe perduto qualcosa di importante eppure sconosciuto oppure lo si sarebbe avuto poi, chissà quando, nonostante quelle forze che volevano posporre, strappar via e portavano il pensiero nella banalità del necessario. E non era forse più necessario il conquistare l’inutile piuttosto che perseguire la facilità beota dell’utile? Tra questi pensieri, intanto, il tempo scorreva e si restringeva, anch’esso preso da una scelta era attento ad un proprio tornaconto, e di fatto s’alleava con l’utile.

Nulla meglio della clessidra rappresenta la lotta e l’estraneità della necessità nel tempo. L’assottigliarsi della sabbia o dell’acqua nell’ampolla superiore, toglie l’idea malsana degli orologi che sembrano avere una riserva inesauribile di circonferenze da percorrere. Tutte uguali, tutte con le stesse distanze d’arco circolare, in fondo tutte prevedibili nel dire quanto manca alla prossima. La clessidra invece, mostra un tempo che, pur costante, diviene più rarefatto e veloce nello scorrer via. Il nostro sguardo e il pensiero lo mette in relazione al volume disponibile di sabbia o acqua che si svuota e così esso dà misura del nostro perenne ritardo rispetto all’assoluto.

Il filo di sabbia o le gocce d’acqua che scendono mostrano che c’è un’indifferenza rispetto al ritardo del nostro fluire, guardiamo a quel volume disponibile di libero arbitrio e il tempo sembra dire: fa ciò che vuoi, ma attento… E se ripieghiamo sull’utile, ne viene un’influenza cupa di scelte mancate o costrette, che ci rende irrimediabilmente in colpa verso ciò che doveva accadere e non è ancora accaduto. Per questo l’avvicinarsi al limite dell’intuizione profonda e il tempo dell’utile acuiscono le sensibilità e rendono definitiva la scelta: possiamo essere, forse, consapevoli di qualcosa mai intuito prima oppure lasciar perdere, rassegnandoci alla necessità. La scoperta, insomma, fa i conti con quel fluire dell’utile che rende precario il superfluo del nuovo e ci consegna al grigio della prevedibilità. Non avventurarsi nel limite ci rende poveri e puntuali, e toglie la differenza che solo nell’esplorazione dell’eccezione ci rende unici.

In questo confine così affascinante e pertanto pericoloso, tra necessità (presunta) e superfluo (utile a sé), si trova l’amore per quella parte incredibile (ciò che è credibile lo conosciamo, è ciò che ci meraviglia che è incredibile e sconosciuto) che ciascuno contiene e mortifica. E insieme ad essa, la libertà del disporre di sé, del non essere prigionieri della necessità, del poter dare consistenza a ciò che nessun altro può capire meglio di noi, perché ci riguarda in senso assoluto, perché questa è una geologica interiore forza che può crescere una montagna, eruttare un vulcano, piegare dolcemente un fiume e prosciugare un mare per ricrearlo altrove. È questa la manifestazione di noi che riconosciamo il chi ci ama e che vede dentro e oltre noi: è l’amore e il sogno che conteniamo, che urge e vuole diventare materia, noi, insomma, che dopo averci compreso non saremo più uguali. Ecco perché nel limite troviamo amore, ecco perché in esso ciò che era ritardo non lo è più e siamo altri da prima. Con altro tempo con cui rapportarci. Non è forse questo il senso del cambiamento che riapre le vite?

 

narcisi senza specchio

Il tipo umano è quello che ha bisogno  del confermare l’immagine e rassicurarsi attraverso il comportamento, e ha bisogno di farlo sapere. A sua giustificazione e necessità si potrebbe invocare l’epoca insicura, ma quando mai il mondo lo è stato? Oppure la pressione odierna verso l’individualità come misura del successo e dell’identità. Quest’ultima centralità diffusa dell’individuo potrebbe anche essere segno di un benessere inusuale nel passato, oltreché il modo per dividere il noi, di certo ingombrate per l’autorità. Potendo scegliere però meglio il benessere che il suo contrario. Comunque sia il narcisismo è ben presente nelle attese individuali, è trasversale al genere e riflette il bisogno di conferma della propria attrattività. Quando scivola in una perenne giovinezza, fa sorridere e non è difficile riconoscere anche i tratti propri in questo contemplarsi anziché vedersi. Così c’è una rivalutazione dei peccati di gioventù, che divengono senza tempo e percorsi con leggerezza. C’è però il limite precario del ricolo, e l’assenza di uno specchio perché se il narciso si guardasse davvero si vedrebbe e allora tutte le sue alzate d’orgoglio, il suo rappresentarsi, il racconto di sé apologetico diverrebbe quello che è ovvero una stanca necessità di essere più veloci del tempo, sapendo che ciò che non si è stati non può essere ora. Non è il narcisismo a far aggio al presente se esiste spirito critico, ironia, capacità di vedersi e accogliersi per quello che si è ora, sapendo che non si è da buttare anzitempo. È il giovanilismo ad essere pernicioso per il narciso senza specchio, una autostima invece serve assai e rende diversi e consapevoli, almeno davanti allo specchio sia esso reale o interiore.

Carlos Kleiber e la bellezza

 

Ascolto Carlos Kleiber da molti anni, sempre ho provato gioia, emozioni intense, commozione. Alcuni ascolti sono stati così definitivi da considerarlo il più grande direttore del secolo scorso, mi è accaduto dapprima con la 4 sinfonia di Brahms, poi la 7 e la 6 di Beethoven, poi il resto. Lo so che non è così ma ascoltavo e riascoltavo e mi piaceva ancora di più. E cercavo altro, anche se purtroppo non era moltissimo, ciò che era stato inciso. E mi piaceva, era un innamoramento che ancora dura e mi dà molto.

Carlos Kleiber era figlio di un grande direttore  Erich Kleiber, che se n’era andato dalla Germania per incompatibilità con il nazismo. Il figlio è diventato uno degli interpreti (forse il più grande) di Richard Strauss che certamente nel nazismo non era stato male visto che era il presidente dell’associazione dei musicisti nazisti. Se conoscete l’emozione che può dare la musica, il sentirsi tutt’uno con le note, le tempeste emotive che ne derivano, allora capite che solo alcune persone possono risolvere le contraddizioni tra opera e vita, e che in quel momento con l’arte, il gesto unico, le riscattano, mostrandone la bellezza del pensiero che si fa opera. A questo servono i concerti, le esecuzioni dal vivo. E chi ha la gioia di ascoltare un grande tiene poi con sé un pezzetto della sua grandezza, ne è compartecipe. C’è una contraddizione tra bellezza e bene che pare insolubile. Noi tendiamo a trovare il bene nella bellezza, il buono, il giusto in essa, ma la cosa non è correlata. Un animo grande spesso è anche buono, ricopre un ruolo che indica a se stesso e agli altri, pensiamo, ma non è quasi mai così davvero. Nella bellezza c’è un conformismo che solo il transitorio assoluto elimina. Voglio dire che se Heidegger, o Strauss, o Majorana, o Marconi, o Pirandello, o Pound, o Furtwangler, e quasi tutti gli altri cervelli che aderirono al nazismo o al fascismo, furono comunque grandi quel quasi indica che alcuni non lo fecero e salvarono la bellezza dall’etichetta politica, l’aiutarono ad essere altro. Erich Kleiber preferì andarsene e molti altri lo fecero. Così aiutò la bellezza e diede modo al figlio di essere ancora più grande di lui.

Ascolto le registrazioni di molti anni fa. Oggi è difficile dire che non basti il software a disposizione, anche se nulla equivale l’emozione di quell’evento unico che è un concerto. Carlos Kleiber era una persona incredibile per il gesto e i modi, per la conduzione e per la sua imprevedibilità. Ci sono dei ricordi del sovraintendente del teatro di Cagliari che ospitò l’ultimo importante concerto del maestro, che ne descrivono sia l’umanità e sia l’ansia che la sua imprevedibilità creava. Grandissimo anche perché era schivo, intollerante del jet set, persino nella residenza, nel far comunicare la sua morte, molti giorni dopo a esequie avvenute. Era conscio della sua grandezza ed era un fatto personale che coinvolgeva gli altri. Ascolto la musica che oggi sembra più questione di quantità che di fedeltà, mi stupisco perché ne conosco i passaggi, eppure mi sembra nuova. La sento, pulita, forte, come scolpita, una forza dell’anima, un dono. Ecco questa è la bellezza che indica il bene, che salva. E infine torno agli applausi alla fine della registrazione della sesta sinfonia preceduti da un silenzio stupefatto, che ha timore di rompere un’emozione irripetibile, e Lui che si volta e accenna a un sorriso, come a dire: non posso fare di più. Ho bisogno di sentire che non sono solo a sentire questa forza e allora mi commuovo.

transizione

Ci fosse stata una solida ragione,

un puntello logico,

un sostegno alla certezza di non essere nell’ eterno transitare.

Non c’era, e per questo, abbiamo accumulato oggettività fugaci,

costellato di specchi le pareti,

e ci siamo additati, con pacche sulle spalle, allegri,

riconoscendo le solidità apparenti,

sicuri d’esser vivi nel tempo che per noi faceva.

E come in un lampo, che pur pesa agli occhi, 

ci siamo trovati carichi di passato non cucito,

vestiti dei brandelli che avevano molto promesso.

E oggi, che le cose con noi sono invecchiate,

senza fedi dovremmo santificare il grigio,

riconoscerne la capacità di contenerci,

e con le dita addolcire gli spigoli per osservar la polvere,

che posa sui nostri piedi,

e su quel solido che tanto abbiamo amato. 

Conoscitori di lampi, 

adoratori d’intelletto, 

abbiamo evitato il colore della modestia,

che è difficile nel suo certificare il tempo,

le siamo sfuggiti, certi di solidità apparenti, 

finché, stanchi, abbiamo reso malfermo e incerto il passo.

Sappiamo ora, che non è la velocità a salvarci, 

ma la vista lenta che le cose scava, 

e ne estrae il colore solido e grumoso

per restituirle a noi, beffarda,

il tanto di chi sa che transitare è condizione d’essere.

http://https://www.youtube.com/watch?v=NPDCsi1mbhE