Dovevano trovare un motivo per lasciarsi, e doveva essere dignitoso.
Dignitoso significava adeguato, appellante alla necessità, all’impossibilità di continuare. Doveva essere qualcosa che concedesse all’amore, o a quello che ne restava, di rimanere con il tratto positivo che segna le vite e le spinge, non le fa fuggire da qualcuno o qualcosa. Quel motivo era già stato declinato in modi differenti, giocato sul limite eccitante e pauroso del precipizio. C’era una sorta di assioma in quel non morirà mai che sembrava giocare con il tempo, le contingenze, gli obblighi. E le scelte. Nelle affermazioni incaute del mai e del sempre era pur rimasto l’a prescindere. E su quello si era giocato quel rapporto finché era stato sostenibile. Era necessario finisse negli obblighi non nel suo attrarre e dare senso alla vita.
Il tavolo ad un certo punto aveva alzato la posta chiedendo la radicalità che include l’amore, la necessità di svolte e scelte che alterano tutto il passato e ridimensionando il buono che era stato, perché la dittatura del prima, del possesso, confluisce nel non dipendere dal futuro e sembra libertà dolorosa di scelta, ma impedisce che si accetti davvero la giocata. In quel lasciarsi c’era la conseguenza di un ragionamento binario che includeva una strada e una necessità escludendo l’altra.
Allora si può dire che due necessità si siano confrontate, accade spesso nelle scelte vere, e che la scelta dell’una avesse molte ragioni importanti. Anche l’altra ne aveva, ma era una partita a due e quando si è in due, qualcosa o qualcuno soccombe. Per questo, e per molto d’altro, serviva una soluzione dignitosa. Che non lasciasse fuori tutto il buono che era cresciuto. Cosa quasi impossibile, e allora uno si prendeva la responsabilità e se l’altro avesse amato oltre il limite della contemporaneità avrebbe accettato pur restando ferito. Qualcuno era vittima e qualcuno carnefice, ma era difficile, come sempre stabilire il limite perché il bene dell’altro rovescia i ruoli e allora restava il fatto di interrompere una possibilità prendendosene la colpa. Ecco. Serviva una colpa e una necessità che la scatenava, e attenuava, perché la colpa si può espiare, può essere perdonata.
Accettare il proprio limite era più difficile perché significava vedersi come si è nel profondo, senza attenuanti, capire che gli aggettivi non contengono le paure, che al più tentano di esorcizzarle. Il limite è l’orlo dell’infinito e tutti lo portiamo dentro: questo è l’abisso.