ad una qualsiasi ora

Ad una qualsiasi ora della luce o del buio, il pensiero di te mi prende. Pioggia rada o sole in raggio, entrambi scelgono nell’indeterminato mucchio e così io vedo.

Si cuce il pensiero, fila, trova col dito il segno d’una ferita antica. Solo i sorrisi sembrano non lasciar traccia, eppure nei racconti, d’essi si parla, ma non di ciò che dopo è stato. Così attendo che la compagnia ritorni, e ciò che a suo tempo non compresi, si renda chiaro. Nel caffè si mescola il tempo e lascia piccole tracce sulla tazza: ora una linea sembra un volto, la scia della bruna polvere, una foresta di parole e il venir tuo, d’improvviso, riannoda eventi e cose.

Le vecchie botteghe dei garzoni fannulloni non ci sono più, la polvere ch’ aggiungeva valore e sembrava far fare buoni affari, non è più parte degli oggetti d’acquistare : tutto è pulito e luccica ammiccando. Solo il pensiero di te, scava una ruga e poi la spiana, come se il mondo si srotolasse agli occhi e prendesse insieme, mistero e senso. 

 

retrobottega

Ci sono attese senza oggetto preciso, incontri che conservano la piacevolezza del vedersi, nell’ascoltare la voce. C’è un persistente affetto, ricordi comuni, qualche passione condivisa e passata. Le parole possono entrare nell’intimità eppure ad una lettura più attenta si rivelerebbero scambi usuali di notizie. Solo che hanno un significato, un calore piacevole e una persistenza nel futuro. Generano, fanno intuire l’attesa di qualcosa che potrebbe accadere e non accade. Credo che questo motivi ancor più la voglia di vedersi. In fondo trattiamo cose al limite della libertà e del piacere, ciò che si ripete ci costringe all’insofferenza, abbiamo un costante bisogno di certezza perché tutto è insieme sicuro e precario. La tranquillità è la condizione che non fa temere, che aggiunge tempo alla riflessione, motiva il gesto, colloca le priorità. E invece ben oltre a chi ci regala fiducia, si sceglie costantemente l’equilibrio instabile del correre, del provare con paura, non che se ne possa fare a meno ma c’è una misura che viene superata e da quel momento sembra impossibile fermarsi. Si rimandano cose importanti, le passioni sottostanno all’imperio del dover essere più che al mostrarsi come si è. Un giudizio costante sembra necessario e ci toglie la piacevolezza innata del fidarsi. Oscura quello che viene considerato poco adeguato, l’ingenuità e la sua bellezza. Come dovessimo essere/avere comunque altri e altrove. Così non si hanno ragione per le stanchezze senza apparente fatica, per i malesseri difficili da narrare e magari basterebbe lasciarsi andare in quella fiducia che ci regala il mare nel sostenerci, l’amore nel suo naturale confermarsi. Soggetti al bene di vivere, dare ad esso il giusto merito e coglierne la costante serenità.

È il riposo tra le cose che teniamo nel retrobottega, dove nessuno, oltre a noi, dovrebbe entrare e tanto meno l’ordine. È il luogo dove le cose si affidano a noi, sanno che le conosciamo, che il loro posto è definito, che ci fidiamo di loro. Sono cose, anche noi abbiamo dentro cose che attendono, che conoscono il nostro amore per loro. Non c’è nulla da mostrare e tutto è utile, serve, magari non subito, forse un giorno o forse mai, ma sapere che le cose esistono ci permette di cercarle. E non mancano mai le sorprese perché, sembrerà strano, dentro e intorno a noi, c’è molta pazienza e gioco nell’attesa di essere scoperti. 

 

 

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de lusione

Cosa accomuna l’offerta musicale, la luce del sole ormai indiretta che proviene da una finestra sul tetto, il susseguirsi delle mail e dei messaggi di whatsapp della giornata? Nulla, penserai, se non che i primi due, pur cangianti sono come te li aspetti. Anche nella sorpresa che può indurre un’ esecuzione nuova o il particolare angolo di rifrazione della luce che sceglie chi e cosa illuminare mentre percorre la stanza. Ma se pensi a ciò che riceviamo e magari non è in risposta a una nostra mail, allora i messaggi si collocano in un idea che ti eri fatto di una persona, di un gruppo, di una situazione. Penserai che sono troppo vecchio, per intravvedere un esito che muti le attese quando esse si sono consolidate. O corrispondono o de ludono. Non importa che esse siano conformi esattamente all’attesa ma è essenziale non la capovolgano. In fondo ciò che costruiamo negli altri, nelle situazioni è una nostra immagine che poi si codifica come un gioco, un ludus dove le parti sono ben determinate e le sorprese sono nel vincere o perdere, ma anche nel ridere o nel dispiacersi. Tutto dura lo spazio di una partita, dalla quale poi si smette o si ricomincia con le stesse regole.

Penso, che le cose avvengono così anche nei rapporti umani: ci sono delle regole, che si presuppongono comuni, sulle quali costruire un dialogo, una comunicazione. Queste ultime si approfondiscono e si apprezza l’altro, lo vede nelle parti che non sono immediatamente esposte perché i silenzi, le mani, le espressioni del viso, le parole che scivolano senza controllo, precisano il quadro e stabiliscono quella cosa che si chiama fidarsi. Ci si fida l’uno dell’altro dopo un rodaggio comunicativo come si fa con il gioco e non si bara. Quel quadro che si è costruito nella nostra testa e che ha molte corrispondenze, non è parte del gioco è la condizione del gioco stesso e non lede la libertà dell’altro, casomai ne è una rappresentazione che si corregge in corso di conoscenza. È l’inatteso assoluto che ribalta l’immagine, guasta la comunicazione e toglie la condizione del gioco, ovvero la fiducia.

Ecco sei deluso, penserai. È vero, hai ragione, penso all’eccesso di fiducia e quindi sono deluso da me stesso. L’altro non è mutato, sono io che ho sbagliato e che ho creduto d’aver compreso o peggio mi sono attribuito la capacità di mutare le cose in modo che ciò che dissonava diventasse sequenza inattesa ma concepibile e sorprendente della melodia. Questo è ciò che fa l’offerta musicale, che inventa il nastro Moebius senza che esso fosse nato e anche il sole lo fa, giocando con le cose che fa scoprire e testimoniando l’ignoranza di ciò che ancora non si è colto. Quindi esiste un perseverare del bello, del vero che sorprende anche nel comunicarlo. Cosa differente la delusione che annulla la comunicazione successiva, ne impedisce la ripetizione senza giudizio; e quando subentra il giudizio la delusione si è già fatta strada, la comunicazione diventa circospetta: non si gioca più, non ci si fida più.

Così impari, penserai, ma non è vero, sarebbe buona cosa ricordarsi che illudere e deludere accompagnano le vite e che i facili entusiasmi riguardano il bisogno di una innocenza che si è perduta nel calcolo. Una comunicazione senza calcolo, senza secondi fini, ci sorprende e rivela bellezze non considerate, ma perché diventiamo diffidenti. E in fondo, mostra la nostra incapacità di cogliere tutto il vero e ciò che non lo è. Ma non è questo il peso, piuttosto è il non aver compreso che altro si celava dietro quel comunicare acerbo e che non ho voluto vedere, così mi riporto alla delusione di me. Non ho capito a tempo eppure i segnali erano evidenti e c’era un modo per non restare delusi: evitare l’illusione e non giocare. Ma che vita sarebbe quella che non ha un rischio d’essere delusi? Non mi lamento, non ridere e ascolta.

diteci la verità e anche che non la sapete

Questa abitudine che ha sedotto gli italiani, partita con Berlusconi, trionfante con Renzi e poi esaltata attraverso i governi Conte uno e due, deve avere più fascino della realtà tanto che siamo passati da una narrazione alla successiva senza che la verità o almeno una sua rappresentazione fedele prendesse tutti per “incantamento”.

Non ce l’ho con Conte, starà facendo quel che può, e ognuno ha i suoi limiti, ce l’ho con il sistema che esprime questo Paese che non solo non prevede, ma continua a mascherare inefficienza con impossibilità. Ce l’ho con le piccole guerre quotidiane della politica che durano da troppo tempo e hanno rotto il patto di delega con i cittadini. Non mi importa dell’opposizione, dice una cosa e il suo contrario a seconda del momento e lo spettacolo quotidiano ci dice che avrebbero fatto molto peggio e ci avrebbero raccontato che era il meglio. Proprio come è accaduto in Lombardia con l’ospedale in fiera costato 21 milioni di euro, usato contro il governo (ma perché mai, a che fine?), con convocazione di Bertolaso e fatto in tempi rapidi. Solo che non serve e ospita qualche paziente anziché i 500 previsti iniziali ed è meglio così, dice seraficamente l’assessore regionale, perché significa che non ce n’è bisogno. Magari dimentica che alla fine dovranno essere spesi soldi anche per smantellarlo e buttarlo via perché è nel posto sbagliato, dentro una fiera che serve ad altro e non l’appendice di un ospedale, che magari poteva riutilizzarlo. Allora si usano malamente 21 milioni di donazioni mentre a tutt’oggi mancano i tamponi e mascherine per non ammalarsi.

Se tutto ciò che è di primaria importanza manca in quantità sufficiente significa che c’è un problema enorme che ci ostiniamo a non vedere e che non usciremo facilmente da questo disastro. Se si continuano a fare ordinanze che dovrebbero avere un senso comune correlato alla malattia e invece si contraddicono l’un l’altra a seconda della fantasia del legislatore centrale a cui si aggiungono per non essere da meno le volontà dei singoli presidenti di regione si ottiene che in luogo si va a lavorare ma non si entra in libreria, in un’altro non si può correre da soli ma si può stare in fila dal tabaccaio. Se a questo bailamme di norme si aggiunge che tra la proclamazione dello stato di emergenza e il primo paziente riconosciuto passano 20 giorni, un problema ci sarà stato. E quel problema è peggio del virus, lo sostiene e non è stato risolto. E’ annidato nello Stato, nei veti reciproci tra uffici, ministeri e partiti, trova il suo trionfo nella burocrazia che vuole il potere senza responsabilità, nel circuito parallelo dello spreco che favorisce la parte nera del sistema.

Sono arrabbiato perché la consapevolezza si fa strada e capisco che non solo non finirà presto ma non ne usciremo bene. A tutt’oggi il piano per affrontare ciò che già sappiamo ovvero disoccupazione e povertà saranno crescenti, si concentra sulle riaperture dei luoghi di lavoro e sul distanziamento sociale. E se il virus non si suicida da solo come si andrà avanti, a picchi e avvallamenti per tornare a come eravamo prima, solo diminuiti di numero e più poveri? È questo che ci insegna il virus? È così che ci cambia? ovvero tutto inalterato ma più larghi? Certo non sono i 600 euro a risolvere il problema, ma sono l’indice che vivremo di carità statale per sostenere quei consumi che sono calati del 37%.

Sono sconcertato di sapere che nel nominare un’ ulteriore task force l’enfasi è sul fatto che questi esperti lavoreranno gratis, ma non hanno una indicazione del modello su cui assestarsi e che la prima riunione viene dedicata a capire come proteggersi da eventuali accuse di responsabilità. Lo sconcerto prosegue perché pare che il sovrapporsi di poteri e di esperti sul governo e sui singoli ministri pare non preoccupi nessuno. Non almeno quanto il MES senza condizioni, come fossimo ritornati alla capacità di stampare moneta e non comunque a doverla chiederla a prestito.

Non usciremo da questa pandemia con gli annunci e le commissioni, non ne usciremo neppure con i soli esperti che, come giusto, da scienziati dubitano e discutono tra loro, ma soprattutto non ne usciremo con questa burocrazia e senza prendere esempio da chi sta facendo meglio di noi. Siamo diventati un grande esperimento per il mondo, per la scienza, per gli esperti ma non sappiamo quanti sono davvero i contagiati, chi può infettare altri, per quanto tempo, neppure sappiamo perché qui si muore molto di più che altrove. Non si capisce perché ai sanitari, ai medici non vengano fatti tutti i tamponi necessari e si preferisce chiamarli eroi anziché fornire loro gli strumenti per fare il loro mestiere in sicurezza. Neppure si sa perché l’iva sulle mascherine sia quella di un bene voluttuario e perché costino in modo diverso a seconda del posto in cui ci si trova, ammesso che si trovino e siano quelle giuste e non quelle fabbricate nel sottoscala di qualche laboratorio improvvisato.

Magari una risposta c’è e qualcosa si può cambiare in corso d’opera perché chi fa sbaglia ma non sempre e magari impara da quello che fa. Ad una condizione: che cambi se stesso. Questo mi preoccupa perché è difficile ma se non cambierà questo sistema decisionale non mi si venga a dire che la pandemia cambierà la mia vita, perché lo farà in peggio e questa non è una narrazione è la realtà generata da chi aveva -e ha- gli elementi per prevedere e provvedere e non lo fa. 

Non voglio essere inutilmente rassicurato, diteci la verità e anche che non la sapete.

non ho imparato niente

Non ho imparato niente. Di quello che serve, intendo. Ho coltivato l’inutile e considerato necessario il superfluo. So fare il pane e un caffè discreto, qualche tipo di biscotto, ma non ho la capacità del barista di capire chi mi sta di fronte, di avere la distanza necessaria che sconfina nell’indifferenza, di ascoltare chiunque senza lasciarmi coinvolgere, se non quando davvero serve. Non ho l’occhio del netturbino che pensa ad altro mentre scova i fiori di tiglio che si nascondono negli angoli e nel suo accumulare sporcizia, carte, plastica e cicche screanzate. non si lascia travolgere dal giudizio e dallo schifo. Non ho l’ordine dei finti antiquari, quelli che sono il porto delle case disfatte e accolgono riviste, libri e cristalleria spaiata, mettendo tutto in stretti passaggi dove vetrinette e ripiani si rincorrono pieni di scelte antiche, ricordi di bocche e cure consumate nei salotti che odoravano di sigaro. Non ho la capacità creativa degli amministratori che attendono ciò che dovrà accadere e non accade, e ne spiegano le ragioni come le avessero sempre sapute. Non ho il talento del pasticcere che ripetendo sempre le stesse cose trova spazio per aggiungere un gusto che nessuno ancora conosce sapendo che da tempo lo desideravamo. Non ho l’intuito dell’orologiaio che osserva un moto piccolo di ruota e ne coglie la diversità nel tempo e correggendo con piccoli tocchi, fa scorrere le cose. Non ho imparato la sapienza del legno, ma lo so accarezzare. Colgo il colore e l’assaggio con i polpastrelli per sentirne la sapidità, mentre il disegno sotto i miei occhi si scompone. Sento la notte, sogno quando viene l’ora e penso che a Trieste, ma anche altrove, ci sono posti in cui è possibile sedersi a un tavolo di bar e osservare le persone con sguardo leggero e senza saper nulla inventare vite, cogliere moti della mano, il passo troppo veloce rispetto ai pensieri e la piega che, indecisa, socchiude la bocca in un sorriso, a volte. Quando vede il mio.

la fuga

Se pensassimo a quanti dolori evita una fuga non ne avremmo un giudizio così negativo. E ci sono molti modi di fuggire. C’è chi fugge sempre e chi lo fa quando non può farne a meno. Ad esempio è più coraggioso colui che affronta un dolore ed una vergogna immediata o colui che la posticipa e ne vede il limite e la porta alla luce del sole ma anche alla reale misura? Nei rapporti tra persone il tema si piega verso la sincerità: chi è sincero non ha bisogno di fuggire. Affronta se stesso prima che l’ altro e non si nasconde la propria verità. Ma forse è da capire meglio cosa significhi sincerità perché la sincerità di chi dice non coincide con quella di chi ascolta ed un rapporto biunivoco non è quasi mai vero. La stessa sincerità diventa un’arma se usata per accusare chi è più debole. Così un’osservazione è il modo per ribadire una superiorità, una dipendenza. Oggi che la paura circola liberamente tra le case, che i dilemmi scendono dalla filosofia del vivere e acquistano la consistenza del quotidiano, si può omettere, prevaricare, usare l’arroganza del giudicare. Chi si rinchiude per difendersi sta fuggendo oppure ha capito che non è ancora l’ora del coraggio? La fuga è sempre questo: un passare da uno stato di serenità e di pace a uno di paura. Si fugge con le proprie gambe quando si può, oppure ci si rifugia nel silenzio sottomesso di fronte ad un attacco di parole. O ancora si fugge facendo cose che non hanno alcun senso se non quello del ripetersi. Queste sono le fughe sterili che rendono deboli di fronte all’ignoto, che non lo capiscono e non lo cambiano. C’è un altro senso della fuga, quello dell’evitare un dolore ignoto e insopportabile, come nel profondo dna dei comportamenti è scritto da tempi immemori, perché fuggendo si preserva la vita e l’essere se stessi, e però nella fuga c’è la possibilità di costruire la forza per contrapporsi alla minaccia. Quindi la fuga è un processo attivo nell’uomo, quando esso si esercita per non fuggire più di fronte a chi è avversario. A questo serve la fuga, a sviluppare le difese che nascono dalla consapevolezza, non a ridursi in schiavitù di qualcosa o qualcuno. Scappiamo se non sappiamo affrontare chi ci minaccia, ma ritorniamo più forti, anche per andarcene poi a testa alta, per nostra scelta: questa è la costruzione del coraggio e del procedere delle vite.

https://www.youtube.com/watch?v=QeJdgUoF1AI

 

 

il corpo

Il corpo ci parla sempre, a volte sommessamente, spesso conversa e racconta, raramente urla. Anche il suo silenzio ci parla, i suoi rifiuti, la spinta che esso dà in una direzione anziché in un’altra. Ci parla la postura quando non rappresenta ciò che siamo per davvero, lo fa con la stanchezza di una sua parte, con la richiesta di quiete o di movimento. Ha scelte proprie, antipatie e immotivate simpatie, ci dice che una strada è conveniente anche se essa viene dubitata dalla mente, e spinge in quella direzione poi, contrariato, tace di fronte alla nostra scelta. Se lo strapazziamo troppo attende pazientemente che la smettiamo finché non ne può più e allora s’ammala. Dovrebbe dialogare con la mente, meno con la ragione. Pare dipenda da noi che questo scambiarsi di opinioni e il chiacchierare amabilmente tra corpo e mente, s’instauri. Anche se non è così naturale dopo una certa età, che è quella dell’istinto e dell’assenza di vincoli particolari, e allora cambiare poi costa silenzio e fatica. Quando non ci sono limiti, il corpo impara dagli errori, dal dolore che prova toccando ciò che è sconosciuto, ha paura e piacere, esprime emozioni native, semplici, non artefatte.

In questo periodo di cattività il tempo per pensare non manca e anche l’emergere dei fastidi che s’accantonano nei momenti in cui è facile mascherare le insofferenze diventa più naturale.  Tutto si riduce all’essenziale, ai bisogni, alla qualità e su questi e questa, si instaurano canoni di accettazione e di rifiuto. Leggevo un bell’articolo di Parise del 1974 che rifiutava il consumismo e la massificazione. La finta ricchezza degli stracci passati per moda e il mistificarsi dei significati nei rapporti, nella politica, nelle relazioni tra persone. Un elogio di una povertà fatta della capacità di distinguere, di dare un valore, di stabilire il buono e il necessario. Temi di quegli anni inascoltati, che riportano all’attualità di Berlinguer quando parlava di politica del rigore e di austerità. Ma oggi il corpo che riprende il suo posto non ci parla di questa essenzialità, non giudica la realtà e la vede per quello che è ovvero una grande finzione, in cui le persone devono per forza essere altro da sé, perché tutto si sostenga. Non è questa l’economia dei consumi che contraddice la conversazione dei corpi? Allora mi rendo sommessamente conto di quante cose vengano fatte senza lo spirito che inizialmente le aveva sostenute, di quanto vuoto ci sia nel tempo perché i legami si sono sciolti. Il senso dell’attendere una verifica da parte di qualcuno che non chiama o non scrive, non è forse la misura di un bisogno affievolito, di una decisione già presa e che il corpo già conosce ma che la mente, per le sue costruzioni sapienti d’artificio, fatica a cogliere. Non siamo solo istinto ma se c’è la necessità di semplificare, un significato profondo c’è : la complessità non solo non rende felici ma oscura ciò che è necessario ed è utile al piacere rispetto a ciò che è solo apparenza. Rimettere assieme e sciogliere alla fine porta a una nuova situazione in cui ciò che è importante ci muta e ciò che non lo era, più semplicemente, diviene ricordo. Importante per ciò che è stato ma che non sarà mai. Semplificare il futuro attraverso un presente che riscopra il corpo, i limiti che divengono opportunità, cambiamento, voglia di sperimentare e approfondire, perché il corpo non s’accontenta e non mente, al più porta pazienza, ma non per sempre.

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in fuga da sé

Si vuole andar via da un’insufficienza sentita come una colpa, da un giudizio, oppure seguendo una incoercibile curiosità, un bisogno di sapere chi si è. E il bisogno in qualche modo s’intreccia al giorno, genera insoddisfazione e poi rende meno vero ciò che si fa. lo rende inutile e non finisce finché non ci si trova, cosa che forse mai potrebbe accadere. Per questo molti se ne fanno una ragione e restano dove non stanno bene, dove non sono.
Quando si capisce che si fugge da sé, dalla radicalità delle domande e delle scelte che dovrebbero essere compiute, non si sa più dove andare e il sauro che è dentro di noi vorrebbe mimetizzarsi, sparire in uno sfondo dove nessuno ci veda come si è. Diventare erba, foglia, asfalto, folla. Diventare apparenza e basta restando ciò che da vita. Essere in un luogo e pensare di vivere altrove. La chiamano fantasia, ma è una dislocazione del sé, un trovarsi che segue un sentiero, una strada. Quale sia il percorso non è chiaro perché si inoltra dentro dove sembra regni l’oscurità e invece è il confronto con ciò che si poteva essere ma non si è stati e quindi, sembra, non si sarà mai. Questo confronto, questa accettazione del limite invece apre una finestra, una porta, induce ad andare oltre e trovare le ragioni della differenza tra ciò che si è diventati e tutte le scelte che l’hanno determinato. Non c’è una definitività in questo, è il bello della vita, il suo infinito procedere che lascia tutto il tempo necessario. Non è mai tardi anzi riconoscere ciò che ci approssima e il fare ciò che serve a diventarlo, spalanca il tempo. Nel flusso si segue una corrente che trasporta il mondo, il suo divenire, ma come si diventa in esso dipende da noi. Sembra il contrario, ma pensare di avere tempo consente di cominciare, infinitamente cominciare ad assomigliarci. Approfittiamo di questi giorni di silenzio forzato, di apparenza inutile per entrare in noi e capire cosa ci fa bene. 

consapevolezza

dav

 

Di notte, accadde qualche volta, sognavo di volare. Era uno staccarsi da terra fatto di balzi sospesi, che mi faceva restare in aria. Mi svegliavo e avevo una pace discreta e importante che migliorava i rapporti con gli altri. Durava fino alla prima vera difficoltà, ma saper volare sia pure nei sogni, mi pareva un’abilità. Era il mio io che faceva la pace con il suo controllore ?
Coincidono i sogni con i periodi in cui i desideri si fanno sentire, per forza incoercibile o per la loro poca importanza. Sembra, dicono, che c’entri l’autostima. però l’ho saputo dopo. E lì forse ho esagerato, pensando che il tempo fosse infinito e che esso sanasse tutto quando s’incontrava con la volontà. Ma l’uno o l’altra erano spesso occupati altrimenti, per cui le smagliature diventavano strappi e i buchi assenza di tessuto. Si poteva camminare stracciati o scivolarci dentro in sogni maldestri. Peccato.
L’autostima, ho scoperto, è incerta, balbuziente nelle parole che servono quando è in difficoltà e trova un suo soffitto dove sbattere la testa: non ci si fa troppo male ma si riconosce la grandezza altrui, la bellezza che c’interpella discreta o scostumata, e ci mostra il limite per riuscire a goderne. Così persino le trame, i personaggi dei ricordi e del presente che si fa futuro mostrano complessità che non è facile sciogliere. Riconoscere di essere un guitto non significa non recitare più, ma fare il teatro come parte della vita. E accade di sentire che quel volo dipende dalle passioni, che il massimo è fuori portata dall’eccelso, che l’unico non significa per forza di cose eterno.

Di tanti versi che non lo erano, di sogni davvero sognati, di slanci finiti per terra si è tessuta la trama, cucita con parole ch’erano insufficienti o eccessive, di silenzi ricchi d’impotenza, di piccole bugie transitorie, di tempo sbriciolato in secondi eppure erano giorni. A volte anni. Sconfitte da cui rialzarsi e quante volte, mi son chiesto conto di ciò che era evidente nella sua grottesca inadeguatezza. Così, a un consapevole guitto, è stato chiesto qual era il soggetto e se davvero parlasse a qualcuno, se vi fosse un fine al dire, ai silenzi, alle strane parole. Lo chiedo ora a me, al dubbio che ho coltivato, a volte per timore e più spesso per ragione. Lo chiedo a me che non butto nulla e conosco il significato di ciò che dico, a me che non volo più nei sogni e del limite penso il possibile bene. E mi chiedo se nessuno si curi ancora della considerazione di sé in questo mondo dove tutto brucia nel giorno e ci si stringe addosso quel po’ di umano rimasto, senza speranza di vittoria, ma almeno di far pari dopo tante battaglie, fallimenti, fughe. In fondo nei sogni ho volato e poi stavo bene con tutto ciò che era attorno. 

Ho perduto molte cose che m’importavano, ma non te

era impossibile, perché la tua radice intreccia le mie,

Il tuo restare mi segue,

non mi lasci mai e per questo vado, torno, vado,

senz’essere davvero qualcuno,

come s’usa nei sogni.

 

cose un po’ fruste

 

A volte mi commuovo. Senza una ragione apparente, si affolla ciò che è stato ed è poi altrimenti evoluto oppure s’è spento senza far rumore, come accade a chi parte e poi non torna. C’erano state promesse e speranze, ma sin dall’inizio si sapeva che quel salutarsi era un addio. Un chiudere che l’illusione e la speranza rendevano meno doloroso, ma era nell’aria, nelle parole trattenute, nello scambio che durava molto più di quanto sembrasse necessario. Questo è il farsi delle scelte, del caso e di ciò che accade, la testimonianza di aver conosciuto e profondamente vissuto che resta dentro di noi con quell’insoluto che ogni scelta ha comportato, ogni pienezza ha generato, ogni cosa ha incorporato. Dovrebbe bastare, ma non è mai abbastanza come accade in tutti gli amori, compreso quello per ciò in cui si è creduto con tale forza da piegare il desiderio, da posticipare la necessità. Di questo, nella mente e attorno a me c’è larga traccia e così mi prende una vaga nostalgia per il contenuto delle cose che non sono mai davvero tali per chi le conosce per davvero. Per chi le ha scelte, le ha tenute appresso e consumate con l’attrito che genera quel rapporto che non è mai solo uso, ma piuttosto un parlarsi, un gettare tra l’inanimato e il sentito, un dialogo.

Guardavo fuori, la campagna che s’accosta alla città, che si ricorda di ciò che era nei fossi e nei campi appena arati. Che ha piccole macchie d’alberi selvatici, testimoni di litigiose eredità oppure d’attese di cambi di piani regolatori già troppo permissivi. Nel tramonto guardavo il cielo che s’aranciava di luce e nubi strette, il pensiero andava al rumore del legno che brucia nei fuochi improvvisati nella spiaggia e vedeva, e sentiva, il crepitio dell’alta catasta dell’inutile che bruciava a bordo del campo.

Nei ricordi e nel presente, ho un filo e nessuna traccia, uno svolgere che non tesse perché non conosce chi sia all’altro capo. Non è forse questo il gioco di ciò che è ancora in attesa di noi, che aspetta per dirci, non il consueto e l’abitudine ma il nuovo che vorrà coinvolgerci? Parlo a me, alle cose, al buio e alla luce. Ricordo. Un ricordo qualsiasi.

Quella mattina era poco dopo l’alba quando cominciammo a camminare. Era luglio e il caldo ci avrebbe colti per strada, ma con buona parte del cammino fatta. Era già un’avventura fare colazione mentre fuori c’era la notte. Fremevo impaziente, nei calzoncini corti avevo i pochi soldi per il ritorno in treno, un coltellino, uno zainetto di tela verde con l’acqua e due panini. Chissà come avevo convinto mia madre che sarebbe stata una camminata lunga e sicura. Forse perché eravamo in tre coetanei e le madri si parlano e si sorreggono nel convincersi. Uscimmo e andammo. Poi, appena usciti dalla periferia, c’era la strada, polvere, campi, paesi sconosciuti, fontane con acqua fresca e una meta. Quanto parlammo. Mi resta solo l’impressione del parlare perché avvenne ed eravamo in fila, scherzando ininterrottamente su quella strada con tre diversi motivi per farla. Chi voleva ringraziare per la promozione ottenuta, chi per dimostrare l’indifferente vigore fisico, chi, ed ero io, il bisogno d’esserci senza avere un merito né qualcosa per cui ringraziare. Forse volevo connettere qualcosa che da tempo era disgiunto e non trovava sintesi. Un sentire differente che implicava un passaggio attraverso qualcosa di banale e più grande, com’è per ogni iniziazione. E io non sapevo cos’erano le iniziazioni, non sapevo nulla delle discontinuità del tempo, dello strapparsi della tela che mi sembrava così determinata, conseguente e sicura nel suo andare da qualche parte e poi improvvisamente ti lasciava solo davanti a te.

La nozione dell’ignoto, chissà davvero quando si matura, diventa una scelta che accende le guance, rende urgente l’andare, chiude ciò che precede e spinge incoercibilmente oltre. Per alcuni non viene mai ma lei, la nozione, ci prova e quando si è bambini o poco più, accade che ci sia un protrarsi dell’insufficienza propria, del sentirsi inadeguati, né una cosa né l’altra soddisfano appieno. Allora servirebbe ci fosse chi capisce che si è sull’orlo dell’ignoto, chi aiuta a decifrare le parole che non si conoscono, chi ridà un senso a ciò che si rifiuta e renderà fulgida parte della vita che si vive e si vivrà. Ma così non accade e non era così quella  mattina, né lo è stato per molto tempo innanzi e forse neppure ora. I segni di un’antica lotta non si cancellano mai, al più s’imbellettano sotto altro finché non diventano cari.

Comunque, con i piedi stanchi e gonfi arrivammo, facemmo il lungo portico in salita. Ci inginocchiammo nella chiesa. Ciascuno pensò qualcosa, ma non per molto, e uscimmo. Fuori c’era il sole a picco del mezzogiorno, una vasca colma sotto la fontana in cui immergere i piedi a turno, l’acqua fresca e un prato in cui stendersi sotto un albero a piedi nudi a guardare il cielo tra le foglie. Ricordo il silenzio tra scoppi di parole. I propositi per la sera, le prese in giro scherzose e quel silenzio in cui ciascuno metteva l’utile e l’inutile di quei 40 chilometri di fatica. Il senso. Perché c’era un senso che riguardava ognuno di noi. Non me ne accorgevo ma le vite un po’ si separavano. Una bocciatura, un andare al lavoro prima d’altri, un percorso di vita che seguiva per ciascuno un daimon differente. Eravamo amici e lo restammo a lungo, ma le vite andavano seguendo un filo di cui si aveva solo il capo dopo che i nodi dell’infanzia, delle prime avventure, si erano sciolti in piccole distanze. Avevo un coltellino rosso, piccolo e affilato quanto bastava per fare la punta a un bastoncino. Lisciarlo della corteccia e lanciarlo verso il cielo, oppure ricavarne una fionda per future imprese. Credo di averlo fatto anche allora, ridendo perché ormai eravamo troppo grandi per quelle cose. Nel primo pomeriggio tornammo verso la stazione, e in treno verso casa. Già la sera non fummo insieme. Quel coltellino c’è ancora, consumato e messo in un cassetto. Non può dire nulla a nessuno se non a me, non può sciogliere nessun nodo se non i miei. Forse per questo a volte, senza ragione mi commuovo, perché le cose un po’ fruste e invecchiate con me mi ricordano altro ed è difficile, forse un delitto buttar via, parlo dei ricordi, ciò che per poco non è stato, oppure lo è stato davvero ma non come avremmo voluto.

Sono i nostri piccoli fallimenti, le ferite che c’hanno fatto male e insegnato, che tracciano una mappa di ciò che abbiamo camminato. La nostra mente conosce bene quella mappa, la dispiega, e se la guarda bene, vede che sono loro, i nodi di ciò che siamo, che ci chiedono di camminare ancora.