molte le oche incaute

Nella piccola aia, molte le oche incaute d’ autunno,

alcune battono le ali,

e sembra l’intento d’un volo,

ma è solo idea di libertà volubile,

nell’accenno subito scordata.

 Dicono la fine dell’estate il giallo della matura soia , 

e l’ultimo granturco, 

la campagna silente ascolta.

Nella terra rotta dalle case,

qualche voce chiama, note da radio in sottofondo, 

una coperta al sole

sbatte piano in distratte onde,

è oltre il campo il rombo

dei motori e strade.

Verso est, 

tutto corre incontro al sole

là dove l’autunno inizia,

a sera i primi fumi, e il freddo,

che ancora non ha nome,

ma riga d’un brivido la pelle

come pensiero che più non si trattiene.  

hai ragione, sorrido poco

Hai ragione, sorrido poco. Eppure durante la giornata l’ironia non mi manca, ma quando scrivo, i pensieri coagulano su una realtà che sta ancora nell’anticamera della dissacrazione, cioè nell’attesa di essere davvero compresa. Poi può venire lo sberleffo, ma prima c’è la perplessità. Quindi con la scrittura sorrido poco. Ci devo mettere una pezza, passare a pensieri più leggeri, scrivere con ironia. E invece mi accorgo che mi rifugio nel paradosso che ha bisogno del parlato, di assonanza di parole, rovesciamento di significati. Giochi, cose d’un attimo, per alleggerire, quasi una mossa del cavallo rispetto al reale. E’ il confronto con ciò che vedo, che non mi piace.

Eppure attorno non mancano segni di una forza allegra che percorre questo Paese. Magari sono mie fantasie, ma sento che non tutto è stato rovinato. Che hanno devastato la superficie però il resto ancora è disponibile.

Ieri ero prima a Mantova e poi a Gonzaga. Due fiere diversissime. Quella della letteratura, con i suoi colori pastello nelle copertine e nei vestiti delle donne, con le persone che si assembrano, vanno verso convegni d’amore e d’intelletto, ascoltano, parlano di cose loro e di tutti, si siedono nei caffè, per terra, si immergono in un quadro che per una volta non è protagonista ma contenitore come ai tempi dei Gonzaga, applaudono, partecipano, si entusiasmano, criticano. Insomma vita. Una vita particolare, fatta di assonanze, di discorsi non detti, pensieri che condividono il terreno su cui corrono. Un popolo a parte, lettori impenitenti, persone che usano una particolare modalità per pensare, osservare, vedere, uscire dalla realtà, tornarvi sereni o incazzati perché leggono. E leggere è pensare, alzare gli occhi, lasciarsi imporporare le guance, ributtarsi nella frase, dire ancora oppure basta, arrabbiarsi o gioire, ma quasi mai essere indifferenti perché l’indifferenza chiude il libro e il pensiero. Leggere è imparare a pensare diversamente contaminati dalle vite altrui e dalla fantasia, così guardo attorno e sento d’essere parte di quella folla che cicaleccia pensieri con una direzione positiva, (pensare, riflettere, è una direzione positiva del vivere essendo movimento, rottura di paradigmi), penso che questa è una forza vera. Che spinge per uscire dalle banalità della politica. Che chiede cose importanti, vitali, come i diritti: la scuola, la salute, il lavoro, il benessere, il disporre di sé. E fa bene vedere una folla di persone che ascolta Rodotà, che partecipa, applaude, si alza per rendere omaggio a un pensiero scomodo. Fa bene perché vaccina dal cinismo che tutto sia scontato e ci dice che il terreno comune esiste, e le persone pure. Che una minoranza può fare del bene a tutti, non solo difendere privilegi o raccontare balle. Che forse il pensiero non basta, ma l’impressione è quella che con i messaggi giusti, si possa rimettere in moto l’agire che è conseguenza di un ragionare elevato, di un bene comune, di un sentimento forte.

Quindi esiste un’Italia possibile e con un poca di pazienza si possono cambiare le cose.

Ci penso, approfitto di questa impressione per annullare le notizie che riguardano la condanna di B., gli stratagemmi in corso, i soliti avvocati, le furbizie, lo spettacolo indecente dei pretoriani e dei servant. Mi pare che conti poco e che passerà. Non è davvero importante seguire i destini di quest’uomo che dovrebbe essere condannato per i delitti civili commessi e permessi, ben più che per le colpe fiscali. Come Pasolini evocava, servirebbe un processo per il potere mal gestito. Lui allora parlava dei capi della D.C., rei dei mali fatti al paese. Non accadde nulla, ma ancora servirebbe non restasse impunito l’impoverimento delle persone e delle coscienze, la rovina dell’economia, l’illusione di ricchezze facili al posto del lavoro, l’immoralità dell’agire pubblico, la corruzione, l’illegalità permessa. Non dovrebbe perché il potere ha bisogno della lezione dei sottoposti per tornare servizio e non arbitrio.

Ma se ci sono tante persone che seguono, leggono, pensano e vengono a Mantova in una giornata di settembre dev’esserci speranza. Sì, non tutto è perduto. Mi ritrovo con una positività, ben fuori dal cinismo che vede tutto scontato, già vissuto e fatto. Mi pare di non appartenere al gregge di quelli che sanno come va a finire, che ci sarà la sorpresa, e si possono rovesciare le cose, inopinatamente essere felici. E se questo avviene collettivamente perché non può avvenire singolarmente? La felicità non dura ma è un tendere, e se si cerca la felicità le cose accadono, ci si dichiara disponibili all’emozione, all’innamoramento del vivere che include l’altro, al sentimento che esclude il calcolo. Insomma ci si prova e la vita muta. Qui poi il contesto dei pensieri è fremente di vita, le persone, la città, l’emozione che invade l’aria. Mi viene da dirvi: venite da nord a Mantova, passate in mezzo ai laghi, scontratevi con questa visione di mura, palazzi, cupole, logge, prima di immergervi nelle stradine, prima di sentire i ciottoli che vi riportano ad altri piedi, altre figure, altri tempi. Sarete colpiti dal fulgore di una piccola reggia in un territorio che è ordine interiore e spinta di lavoro, opera, mutamento, intelligenza applicata per millenni a trarre benessere dagli stessi luoghi. Qui è la terra che trionfa e la gloria dell’agricoltura è questa: non invecchiare, essere vicina alla vita tanto da riprodurla indefinitamente, avere tempi circolari. E Mantova è una piccola capitale tra le piccole capitali che punteggiano la pianura padana. Già, la pianura padana, le capitali del grano, della carne, dei formaggi, dei salumi, luoghi profondamente connotati, identità, dialetti, eppure quantomai Italia, paese, persone, non gente.

Questo è un Paese vitale, fatto di persone prima che di individui e che spinge per uscire dalla costrizione anche quando si lamenta.

Lo sento il pomeriggio a Gonzaga. Fiera millenaria. Una fiera che parla delle stesse cose da più di 500 anni e non si è ancora stancata, che trova argomenti nuovi, che mostra tecnologia accanto ai tortelli di zucca, lo stracotto e il riso alla pilota. Incredibile la quantità di persone che sta ovunque tra odore di frittelle da sagra, banchi di tutti i tipi che vendono di tutto, tonnellate di merce cinese, di plastiche che si spezzeranno tra un anno, vicine a tecnologie raffinatissime. Energie sostenibili, sistemi serra, agricoltura 2.0,, c’è una spinta enorme che trascina tutto, la tradizione, i modi di pensare, la percezione particolare che ha chi cammina sulla terra, la prende in mano, la annusa e poi sale su un mezzo da 10 tonnellate per lavorarla. Ieri sera un agricoltore poneva una domanda che ho sentita bellissima nella sua tenerezza: ma quando pesiamo con i nostri mezzi sulla terra, cosa le facciamo, quanto male sente? Qui si sa che in 5 cm c’è quasi tutta la diversità biologica di un terreno, è naturale che ci si preoccupi. Così mi viene in mente che nella campagna l’anima è rovesciata, che ciò che sta sotto è sterile, e che la terra è impudica, e inerme, nel mostrare la sua vita, la fertilità che ci dona. Nella fiera millenaria, la vita è superficie, ci sono migliaia di persone che non parlano di letteratura, che però hanno idee, ci sono giovani dappertutto, viali intasati di voglia di vivere, di stimoli e desideri e si mescola tutto. Vita ovunque. Con il cinismo tradiamo la vita, la neghiamo, L’italia è in questi luoghi, non anche questi, è questa vita, superficiale o profonda che pullula, non è possibile renderla sterile con la banalità dei piccoli/grandi interessi, non si deve, è un delitto. C’è speranza in tutto questo, credo che nessuno possa davvero abbattere la vita di questo Paese, ma questo non significa lasciar fare, lasciar correre, anzi vuol dire ritrovare l’allegria della vita, permettersi di ridere. Non ho usato parole leggere, me ne accorgo, segno che mi lascio condizionare dal plumbeo di chi mi vuole intristire, imprigionare in una condizione senza speranza e invece io la speranza la pretendo, e con essa l’ironia e il sorriso. E se c’è vita, si può fare.

settembre

E’ un pensieraccio, di quelli squinternati, senza approfondimento, che prendono per l’immediatezza e per un colore grosso e vivido, uno sbaffo di smalto su un muro bianco. La gente di lago è settembrina. Ecco l’ho detto, già un po’ vorrei approfondire, rifinire la frase, aggiungere un aggettivo: è settembrina e morbida. Morbida d’onda, chiusa nelle case con grandi finestre, adusa a vedere la neve e non considerarla un’eccezione, con l’ orecchio che avverte la differenza nello sciacquio e coglie il vento associandolo al bianco delle vele. Settembrina nella dolcezza del tratto e nella elasticità dell’acciaio che contengono. Molle lente, caricate per durare, tempi di pendolo e rintocco, ghiaia che si sposta senza alzare fango.

E così entro in settembre. Si è consumata l’attesa del caldo, la promessa garrula dell’estate, le pagine intonse in cui era possibile scrivere tutto. E con essa declinano i pomeriggi lunghi di noia calda, la luce sguaiata a picco, l’attesa della festa rumorosa, i colori bruciati che ravvivano solo nella sera. Dopo la folla orizzontale del mare, il profumo di salso bistrato di abbronzanti, ci si rizza per settembre, si cammina, si legge il verde che supera il giallo, è un andare senza fatica, un tenere la porta aperta al giorno, senza più il dovere di divertirsi e la relativa colpa nel non riuscire. Settembre è l’altra faccia dell’estate, il ritorno a casa mantenendo voglia di sole queto e acqua per riposare lo sguardo. Forse per questo mi porta al lago, verso una propensione al sentire/sentimento che l’estate rende leggera. Frizzar via di luce e ascoltare il suono che entra assieme al colore, accogliere, pensare che si cambia, lasciare che il pensiero riallacci e apprezzi ciò che altrove viene compiuto. Non noi che perseguiamo le nostre vite con soddisfazioni ardue, ma altri che scavano con metodo e leggerezza, che cercano in sé il senso di ciò che sta attorno, che non si fermano e si compromettono nel vivere.

Settembre, un tempo per fermarsi di più nel mattino, sentire sulla pelle nuda la sedia, la gamba ripiegata, il caffè che riempie l’aria, trattenere un gesto, un fiotto di bene, guardar fuori e dentro, ascoltare una felicità sottile che sa d’acqua dolce, di luce riflessa, di parole rade punteggiate di piccole risate: moti protesi nella terra di nessuno dove si condivide. Settembre. 

Caravaggio a san Gwann

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Triq sant Anton. La pioggia ruscella verso il mare. Corre sulla pietra, tra gli scalini larghi, riempie le fessure e i guasti del tempo sul calcare, corre. Corre come lo sguardo lungo le case, segue i contorni e precipita nel mare blu gemma, blu profondo, blu scia che scioglie il bianco della violenza delle navi.

Dopo san Giovanni, triq san Gwann, dopo la vertigine del Caravaggio nella decollazione del Battista, dopo, tutto è dopo.  C’è un limite, una linea che separa l’emozione del pensiero dipinto dal dopo. Prima non si sapeva e ora si sa che qualcuno ha pensato, si è emozionato, ha fatto e chiuso il suo discorso. E adesso nel dopo, c’è la ricerca di un punto d’attracco per separare l’emozione dalla pioggia, dalla vita che si snoda attorno e pare banale, ma è vita. Così il pensiero svolge il suo arganello, il barbotin che fa sentire il cricchetto che schiocca e impedisce il ritorno e cerca un punto di fermo. Il pensiero adesso è gomena e segue l’ancora, trova un aggancio, si tende e traccia la linea che ferma. Precipita in mare, il pensiero, eppure si tiene stretta l’emozione di quel fiotto di sangue, di quelle figure nell’orrore dell’irreparabile, dell’evento che non scompare. Solo di Salomè abbiamo traccia, non il carnefice, il capocarceriere, la vecchia sconvolta e incongrua, i carcerati terrorizzati nell’ombra. Di nessuno il nome, oltre al Battista. Questo aumenta il vuoto della scena, c’è la testa del Battista, il fiotto di sangue, pochi corpi, il necessario,  com’è giusto sia. Contano i fatti. Così nel sangue il nome del Caravaggio che non ha paura di guardare il nuovo che nasce dal fatto, c’è un prima e un dopo, il genio lo capisce, lo spiega e porta oltre.

Anche per chi si lascia prendere c’è un prima e c’è un dopo, non si può dire di non sapere quando si è visto. La meraviglia genera l’attesa di altra meraviglia, oscura il resto, anche il san Girolamo nella stessa sala, che pur sarebbe potente, appartiene al prima. Meglio uscire, fuori ci sono le persone, i triq, le stradine, che si gettano verso il mare, le case di pietra gialla, alte e umane nella loro vecchiezza priva di vetri e specchi,  ci sono le navi che cercano l’attracco.

Dalla folla di piazza san Gwann alle pietre bagnate delle discese: non piove più, l’estate asciuga i vestiti leggeri e solo il mare è così potente da assorbire la meraviglia. Una meraviglia include l’altra, distrae e acquieta, per poco. Qui l’uomo fece, qui il mare è. Oltre i porti, le opere possenti che limitano l’acqua, la racchiudono e sembrano eterne, il mare è e sarà vincitore.

Sulla parete dell’oratorio la pala del Caravaggio, davanti ad essa fu radiato dall’ordine, qui il mare, lo spartiacque è tracciato, c’è un prima e un dopo sempre, e il dopo deve inerpicarsi nel cielo per sopravvenire il prima.

agosto

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Nella spiaggia che fu regno delle suore, dovizia di seni al sole e al vento di scirocco. Alcuni, per decisione antica, sono bruni come il resto del corpo, altri per decisioni improvvisa, si stagliano bianchissimi, quasi estranei al resto. Ma l’erotismo li rivaluta e ciò che qui è quasi incongruo, altrove sarà fonte di delizia e piacere. Speriamo.

I comportamenti si semplificano e si uniformano ovunque; la diversità è fatica e premia poco. anche il corpo e la bellezza pescano in canoni estranei allo star bene con sé, anzi si sovrappongono ad esso. Guardando in noi ciò che ci pare brutto, ci si accorge che è tutto un togliere e un aggiungere. Rispetto a cosa?

La spiaggia è impietosa, rivela a noi stessi ciò che pensiamo di vedere attraverso gli occhi degli altri. Come se fossimo sempre al centro dell’attenzione. Sembrerà strano a chi non c’è mai stato, ma le spiagge per naturisti sono molto meno inclini all’esposizione/confronto. Rivalutano il corpo per ciò che è.

Per una sorta di contrappasso laico e terreno, ora sulla spiaggia emergono i caratteri e le paure dei corpi un tempi qui nascosti. Forse qualcuna delle ragazze che adesso prendono il sole tranquille, è stata qui da bambina. Non è stato molti anni or sono. Chissà se ricorda e che ne pensa di quanto accadeva, mentre con il seno un po’ arrogante, conversa con l’amica, nel sole del pomeriggio.

materie seconde

Dal marmista, recuperano le lastre;

tra cari e inconsolabili,

graffiati su vecchie lapidi,

dalla casa viene odore di soffritto

e pomodoro che sobbolle.

La vita si fa strada come i rami nell’aria.

le rigidità del passato

Al Mart di Rovereto c’è una mostra di Adalberto Libera sulla città ideale. La vedrò, e farò i conti con me, ancora una volta. Come mi accade con Strauss o Wagner, oppure con Leni Riefensthal o Casorati. E qui mi fermo perché i nomi diventano troppi e il disagio aumenta. E’ la contrapposizione tra un giudizio negativo assoluto sulla ideologia e sulla prassi del fascismo o del nazismo e la sua capacità di produrre e inglobare arte, capacità intellettuali forti. Come se il male non avesse la possibilità di generare il bello. Il discorso non è facile, in fondo la distruzione dell’intelligenza assieme alla cultura dei popoli vinti è costante nella storia dell’umanità, perché non dovremmo farlo anche noi in una damnazio memorie che elimini dalle menti tutto ciò che è stato? Eppure si sente che di quel bello nato in un periodo disgraziato saremmo amputati, che mancherebbe qualcosa nel nostro pensare. forse un modo è quello di ricordare ciò che avvenne e insieme riconoscere la capacità dell’uomo di essere anche altro, di avere in sé la contraddizione che lo porta verso il superamento del negativo che pure contiene. Pensieri quasi giulivi sulla capacità rigeneratrice del bene, del giusto, ma anche riconoscimento che nell’uomo c’è tutto, il bene e il male  e che far prevalere il primo è un processo continuo, fatica e impegno.

Comunque non tutto fu distrutto e di quel periodo razionalista le opere sono lì, inopinatamente astratte, ma vive ed esercitano fascino. L’architettura di Terragni, Pagano, Figini, Pollini e per l’appunto, Libera sono parte del nostro vivere. Classici contemporanei. Basti pensare all’E42, al palazzo dei congressi dell’Eur che, pur nella incompiutezza compiuta dell’expo mai avvenuta del 1942, sono spazio racchiuso, pensiero realizzato e disegnano una concezione dell’uomo e della funzione in linee pulite, nitide. Anche la pulizia del razionalismo, mi pone domande, il nitore e la geometria come si sposavano ( e infatti non era univocamente) con il fascismo? Certo l’ordine, la forza che emana la pietra e il bianco, la linea dritta, il tema della volontà di potenza, sembrano riportare ad un pensiero privo di contraddizioni, ma il pensiero fascista non era così consequenziale, anzi. Mi faccio domande e faccio i conti con questa tentazione di eliminare tutto ciò che accompagnò quegli anni e poi perdo il confronto, guardo, traggo piacere dalla forma e dall’intelligenza e mi restano le domande sul bello e sul bene. 

pioggia al mare

La pioggia è iniziata confondendosi col mare. La riva si bagna indifferente dell’una e dell’altra acqua. La sabbia reagisce, si raggomitola in piccoli cerchi per racchiudere l’intrusa. E’ strana la pioggia d’estate al mare: i cerchi sulle onde, il nuvolone nero che è arrivato dal posto sbagliato (ma non era tramontana? non s’indovina mai col vento), gli sguardi che si alzano sorpresi.  Nulla sembra durare a lungo, eppure è tutto un rimettere reggiseni e magliette, raccogliere cose, giochi, bambini. Le sdraio e i lettini luccicano d’acqua sulle loro plastiche forate, intanto si stipano asciugamani e imprecazioni per la giornata perduta, per i bimbi riottosi, per la sera ancora lontana. Le grandi borse colorate inghiottono tutto e piccole file si muovono verso i parcheggi con asciugamani sul capo.

Solo anziani lettori, si spostano di poco sotto l’ombrellone e continuano a leggere. Di tanto in tanto sollevano gli occhi e guardano curiosi la sabbia che si fa bruna, mentre il sole già sfrangia di luce  la nuvola.

solstizio d’estate

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Due scie di cemento, ora grigie, ora rossastre, perfettamente levigate, tagliano la città. In mezzo una rotaia, una sola, su cui corre il tram. Una riga nera e argento, come un nervo scoperto. Viste dall’alto, le scie, sono un sentiero che tra lunghi tratti dritti e svolte dolci punta da nord a sud. Un cardo maximo che si inoltra tra case e portici, piazze e riviere, affianca acqua e ponti antichi. Un filo per tagliare la polenta che non avrebbe neppure bisogno del mezzo che lo percorre, perché esso è percorso e percorre. Da nord a sud. Instancabile. Se ci pensi ti accorgi che da questi punti corre il senso, cardo del vivere, dall’alto al basso, senza scorciatoie e viceversa. 

La casa dava sul canale, quello che ora scorre sotto. La città si è rivestita di pelle e muscoli, un tempo il sangue era alla vista, diceva cose talmente passate che contrastavano con la voglia d’essere nuova e giovane. La città è un corpo. D’estate è un corpo che si mostra. A quest’ora ero già davanti a un bicchiere di spuma gelata, con un biscottone, un zàleto, in mano. Nel cortile dell’osteria tra le piazze c’era la televisione. Mia nonna mi portava per tempo. a me non interessava molto la tv, erano spettacoli per grandi, commedie, lirica, politica. Mi piaceva il percorso, il ponte, la strada in salita, le piazze, l’odore della carne e del pesce, i mattoni che trasudavano calore, la calcina per sanificare le case, la pietra, il porfido e la trachite arroventate dal giorno. Poi l’androne e il cortile. Sopra il cielo. Guardavo il cielo, la spuma, sgranocchiavo il zàleto. Aspettavo. Attorno giocavano a carte. Mi parevano tutti vecchi, non era vero e insieme era vero. Mia nonna chiacchierava in disparte con le sue amiche, poi arrivava qualche altro ragazzino e cominciava il gioco. Via dal cortile, in piazza, dove una palla aveva trenta piedi, una caduta un pianto trattenuto, una baruffa si concludeva ridendo. Avevamo tutti le stesse cose, calzoncini cortissimi, canottiera o maglietta a righe, sembravamo tutti fratelli. La palla andava altissima, mai orizzontale, la città è ricca di vetri da rompere. Poco oltre passava il tram, ma l’altro, non quello d’adesso. Bisognava che la palla non ci finisse sotto, il tram non aveva pietà. Le sere finivano tardissimo e andavo a letto a ore impossibili, stanco, lavate le ginocchia e le mani, il catino con l’acqua che diventava mattone e rossiccia. Macchiavo le lenzuola di sangue. Mi piaceva l’odore delle lenzuola di lino, mi addormentavo, sognavo. 

Le scie attirano come le sirene i ciclisti, poi la ruota finisce nel solco e cadono. Bestemmiano, si rialzano, riprovano se non ci sono danni, sono irretiti da quel liscio che sembra scivolare in avanti. Un tapis roulant. Meglio a piedi, mettere distacco e curiosità e seguirle dal portico. lasciare che accompagnino. Mostrano quello che si può, magari entrassero per i vicoli, lì fino a quel muro alto da cui spuntano foglie e rose, oppure lungo le altre riviere, quelle da innamorati, che scuotono i capelli dopo essersi baciati e ridono perché i tigli lasciano cadere fiori gialli. Ci sono marciapiedi gialli, dove l’aria è zeppa dell’ umore penetrante del tiglio, camminare è morbido, anche le suole per poco diventano gialle e odorose. Bisogna lasciare le scie e ritrovarle, andando da ovest verso est, come fanno i viandanti e i perditempo, quelli che cercano il sole e ne sono attratti. Se la vita scandisce le svolte, una ogni tanto, il sole riempie i vuoti e l’attesa, pare di vivere tutto e invece s’attende qualcosa. Se ne intuisce il peso, ciò che cambierà davvero, ma non si sa cos’è e intanto ci pare, riempiamo i giorni di abitudini, piccole sofferenze, gioie repentine, come continuasse tutto allo stesso modo, ma non è così, lo sappiamo. Poi c’è chi crede che la vita sia comunque amica e tenera, e chi ne ha paura, ma entrambi si muovono a zig zag nel sole. Da ovest a est e viceversa, instancabili perché altrimenti il silenzio pone domande e la vita si riporta da nord a sud. 

Io so cos’è la solitudine. La sera tiravo in lungo, gli amici, il bar, le discussioni infinite, poi la compagnia si sfaldava, le parole che avevano riempito l’aria, mosso sentimenti, aperto e chiuso idee, comunicato per puntiglio e per noia, si dissolvevano. Non tornavo a casa, giravo e sapevo dove alla fine sarei finito. Lì, sulla piazza davanti alla mole ciclopica del salone, dopo mezzanotte il bar all’angolo chiudeva, ma lasciava qualche sedia e qualche tavolo. Seduto sentivo il caldo che calava dall’alto e momentanei sbocchi d’aria, come se altrove qualcuno aprisse una porta, una finestra e in quella corrente ci fosse il ciabattare insonne, la fatica di affrontare il letto e insieme la stanchezza del giorno seguente, già pronta, che pesava prima d’essere vera. Le voci si spegnevano, qualche richiamo, i barboni che arrivavano con il bottiglione di vino. Parlavo, ascoltavo le parole corrotte dall’alcool, poi tagliavo con una risata, mi spostavo. Cercavo la solitudine che riassume, rimette ordine. Il giorno dopo sarei andato al mare, gli esami erano un problema, ma adesso ero davanti a me e guardavo. Mi guardavo. Lasciando che il resto fosse cornice, non più sono, ma il dubbio. La solitudine veniva poco a poco, raccontava della difficoltà di dire, di trasmettere le sensazioni, diceva dell’impudicizia del dire la verità, ossia ciò che si pensa davvero, e questo non riguarda l’altro, ma ciò che si sente. Raccontava dell’unicità come colla per tenere assieme tutto, come scusa per non procedere oltre, accettarsi, vedere i lati positivi, non scavare. Mi sarebbe piaciuto non avere dubbi, vedevo quelli che non ne avevano, quelli che dicevano io, che erano così sicuri e immemori, così pieni del loro scegliere, pagare, vivere che non s’accorgevano che tutto quel daffare era un rifiutare la solitudine, il dubbio che essa portava con sé. Era una piccola sicurezza o forse mi sbagliavo anche in quello? Stavo lì in piazza mentre la notte acquietava tutto, leniva le voci, finché non parlava più nessuno. Neanche i barboni. Il sonno prendeva. Il giorno dopo, il sole, il mare, l’esame sempre in ritardo, i desideri e le voglie, il pensiero di qualcosa che mancava. Domani. Tornavo a casa, aprivo piano, al buio mi spogliavo e mi raggiungeva la voce di mia nonna: sito tornà. Ero tornato per modo di dire, non si torna mai davvero in un luogo, si torna dentro. Era già estate. Una lunga estate.

Due scie di cemento tagliano la città da nord a sud, in mezzo una rotaia, un nervo scoperto, una corda che risuona in tono di basso: solstizio d’estate.

http://grooveshark.com/#!/search/song?q=Stan+Getz+with+Diana+Krall+Summertime

nero e bianco

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Porti il farfallino come gli architetti e i giocatori di biliardo professionisti, lo sguardo interroga e ragiona. Guardo i tuoi occhi nocciola: hai le mie stesse rughe e anche gli anni si somigliano. Quand’è stato che ci siamo conosciuti? Ricordo che bevevi thé e lo correggevi con ruhm e noi caffè e grappa o stock 84. Già questo ti faceva strano. Poi eri ambidestro e questo aumentava la confusione perché la penna passava da una mano all’altra continuando a scrivere.

E parlavi di luoghi, lo fai anche adesso, e il paesaggio prendeva forma. Parlavi di persone, non di fatti. Sembrava non accadesse mai nulla, e magari c’era una guerra, una carestia, ma come in tutte le cose, quando si è dentro non si vede ciò che accade davvero. Abbiamo bisogno dei giornali, della televisione perché ci spieghino le cose viste dall’alto, magari a casa, perché quando sei lì, semplicemente accade. Come quella volta che sparavano a 150 metri e guardavamo passandoci a fianco, e anche chi ci abitava, guardava, oppure anche no perché dietro l’angolo non correva nessuno e la vita sembrava continuare indifferente. Le tue erano cartoline con persone, spesso in bianco e nero, e ti seguivo giocando sui grigi. Sono espressivi i grigi, peccato che ci sia tutto questo colore adesso, le rughe con i grigi vengono benissimo.

Mi hai insegnato a cercare i visi, le persone, non la gente. Senza dirlo, solo descrivendoli nei tuoi racconti. Da allora non ho più smesso. Ossia i visi li guardavo anche prima solo che non era educato fissare le persone. Così mi avevano insegnato ed era tutto un guardare di sguincio, un osservare rapido che faceva perdere l’interesse vero: ciò che ci stava dietro a quel volto. Le persone pensano che chi guarda il volto stia giudicando, beh, è solo una piccola parte del guardare, certamente la meno importante, l’interesse vero è cercare di capire cosa ci racconta chi è guardato, anche se non ha voglia di raccontare, perché in fondo fa bene a tutti comunicare, dirsi qualcosa anche se non si sa la lingua. Certo serve discrezione, pudore, ma questo si avverte subito se c’è e se ti accettano.

Di questo parlavi allora, adesso molto meno, troppi visi accumulati forse. In fondo ci siamo imparati per caso, giocando, più che con la serietà. Da quello che sai, ho capito che di quello che conosco, quasi nulla è utile in senso economico. Tu almeno tracciavi mappe, anche se non ho mai ben capito che lavoro facessi davvero. Di certo andavi in giro, e qualche scopo ci sarà pur stato. Io so cose inutili e preziose solo per me, accumulo nozioni e fatti che non servono, mi perdo in particolari, e in sogni che fabbrico da solo, non ho bisogno che qualcuno me li presti, e con questo bagaglio viaggio. Però non mi spiace di continuare a sommare inutilità. Ho imparato che l’inutile ha un valore immenso per noi e niente per gli altri, e che per quell’inutile saremmo disposti a fare a botte.

Però bisogna viaggiare leggeri, un farfallino o una polo, non importa, ciò che conta è la stranezza che ci porta a non sovrapporre ciò che si vede. Nulla è eguale, nessuna persona s’assomiglia in fondo e tutti abbiamo le stesse regole per muoverci, per pensare. Ecco pensavo che andare e guardare i visi delle persone fosse un modo per rompere le regole, immaginare la ricchezza della diversità. Ne abbiamo discusso a lungo, la diversità si moltiplica nonostante noi, è inarrestabile e l’uomo cerca di catalogare, trovare somiglianze, addirittura punta sulla fisiognomica. E’ la diversità che ci riempie, che si racconta, come le cartoline che ci mostravi, impalpabili e vive di un solo particolare, tutto il resto fermo. Come portare con noi da un luogo chi ci vive e lasciarlo lì. E ciò che si estrae è il nero e il bianco, ciò che si sente e diventa noi.

Noi, non ricordo.