il sostenibile peso del divagare

È un cono panciuto, soddisfatto anticipatore di una forma alla Norman Foster (30 St. Mary Axe, London), solo molto più piccolo e meno fallicamente evocativo. Ha più di 250 anni, certamente fatto a mano con notevole, perduta, precisione. Probabilmente passato con un tornio ad acqua per lisciarne la superficie dopo la fusione ad anima persa. È almeno del ‘700 e veneziano. È un peso da stadera, non piccolo come un suo fratello tondo e ottocentesco. A fatica sta nel cavo della mano, e pesa: la cera persa è stata sostituita da un’anima di piombo che lo rende inaspettatamente consistente. Segno, quest’ultimo, che era destinato a una stadera per pesi notevoli. Sulla superficie d’ottone brunito ci sono i segni dei verificatori del peso, il leone di San Marco e forse il marchio del balanzėr. La Repubblica non aveva pietà per i truffatori e i falsari e, al contrario di quanto accade ora, il commercio aveva bisogno di un potere che gli desse certezza non il contrario. Ci provavano a frodare, ma se presi, la pena era severa. Non ci sono tracce di verifiche ulteriori, austriache o sabaude, e forse da un uso pubblico è passato ad uno domestico. Onorato servizio prima di perdere funzione. Non per sua responsabilità immagino, forse cedette il piatto della stadera, più debole e suscettibile d’essere venduto al peso d’ottone, oppure l’asta incisa fu soppiantata dall’arrivo di Napoleone e dal suo sistema metrico. Sono per questa tesi, e per una sua graduale uscita di mercato. Pur essendoci tracce di once e libbre nel dialetto di casa, una bilancia doveva misurare chili ed etti dopo il passaggio dei franzosi. E mi i piace credere che abbia fatto parte dello sconquasso, che sia stata questa invasione che lo mise in disuso e che per fortuna e dimenticanza sia giunto sino a me. All’inizio, dopo averlo scoperto, l’ho pensato fermacarte. Peso e forma aiutavano, ma in questa casa di carte non vola più nulla e lui scompariva nello scrittoio sepolto tra cose meno nobili e troppo ciarliere. Stava per suo conto, corrucciato di non essere riconosciuto, insomma non era al suo posto, e non è stato contento finché dopo vario peregrinare non è arrivato sulla credenza, prima col fratello tondo e ottocentesco, poi da solo.
Vicino alla sfera ha una sua forte personalità e il colore si avvicina a quello del legno su cui poggia con propri lampi di lucentezza quando il sole lo colpisce. È presente senz’essere tronfio, eppure di cose ne ha viste. L’ho immaginato al mercato di Rialto che pesava verdura e frutta di sant’Erasmo, o pesce di mare di Chioggia, ancora vivo, oppure carne che veniva dalle mandrie portate dall’Ongaria dopo un viaggio di settimane. La sera appesa la stadera per il gancio, penzolava alla fine dell’asta in attesa del giorno seguente per riprendere un lavoro fatto di maestria nell’equilibrio, perché la truffa non era tanto nel peso ma nella velocità con cui questo sull’asta si muoveva per segnare un equilibrio inesistente e vantaggioso. Era un tutt’uno col braccio e la mente del commerciante che doveva dare la sensazione del giusto, rubando sul peso.
L’ho pensato a Rialto o in un campo veneziano per il suo essere poco sensibile al salso, per quell’anello a losanga sbozzato a lima e levigato dall’uso. Particolari che lo retrodatano e lo portano nella bottega di un balanzer come quelle che c’erano fino a pochi anni fa al limite del ghetto a Padova o sulla riva vicino alla Misericordia a Venezia. Sono testimoniate dalla difficoltà di fare fori netti, di lavorare metallo di fusione con attrezzi piccoli. Se non a Rialto lo penserei in piazza delle Erbe, sotto il Salone, a Padova, oppure in mezzo ai colli da dove viene la mia famiglia, che era pur sempre di commercianti, anche se poi sciamati e incuranti delle cose. Lo penso in un luogo in cui si mescolano nobili e plebei, costretti dal piacere del cibo e dalla necessità di vederlo, uniti nell’usare il giudizio per valutarlo, nel tenere a conto l’andamento del prezzo e quindi del tempo politico e delle stagioni. Il mio peso è stato testimone muto di un evolvere d’epoca che noi collochiamo in un tempo remoto, ma che nasce meno di una decina di generazioni fa.

Antonio era figlio di Giovan Battista che era figlio di Antonio che a sua volta era figlio di Giovan Battista e così via a risalire nei secoli.

E lui, il peso di stadera, rappresentava la fortuna o la difficoltà di vivere. Il suo lavorare, il suo cercare un equilibrio, il suo muoversi veloce certificava l’onesta o meno del suo padrone.

L’equilibrio, il peso, la misura, in sintesi la metafora del giudicare sé e gli altri; la vita come la si interpreta, insomma. Ma non esiste una morale, né una conclusione, le cose hanno il significato che attribuiamo a loro, racchiudono ciò che noi vogliamo vedere. E così io vedo Rialto, sento le voci che magnificano la merce, il dialetto, i litigi, gli sfottò, le parole perse verso sera quando c’è un bilancio della giornata, il peso dell’ultima pesata che non si può prevedere e il trarre giudizio sul giorno e una speranza su quello a venire. Ma dipende da ciò che io vedo e sento e immagino, un altro vedrebbe un conoide, lo prenderebbe in mano, chiederebbe cos’è, commenterebbe il peso e neppure vedrebbe quei punzoni sulla superficie. Al più direbbe: però… E lo poserebbe sulla credenza.

Agosto

Scorre questo tempo tra piccole, nuove abitudini, rumori inconsueti, pensieri senza contesto. Anche i sogni sono differenti. Ogni volta che si cambia letto accade, come  fossero le cose l’unione tra diverse vite, e cambiandole mutassero le une e le altre. I giorni dell’ozio sono una fantasia dei poeti, la mente è sempre altrove, una passione, un desiderio, comunque tolgono dal contesto mutato, c’è un perseguire l’equilibrio, la corsa, lo stare ansante dopo di essa, il vivere come ricerca d’essere se stessi e quindi altro.

Tempo di vacanza, refoli di tempo differente, anche se siamo noi a dargli senso, egli per suo conto appena ci bada: quello che gli serve per manifestare la propria esistenza e il suo imperio.

 

Andare

C’è viaggio e viaggio. L’uomo ha dentro di sé la spinta a viaggiare, l’umanità ha popolato il mondo in questo modo. Non è solo spirito d’avventura, volontà di conoscere, sperimentazione di se stessi, queste sono cose che subentrano o collaborano con necessità primarie quali l’ insoddisfazione del luogo in cui si è, il sentirlo minaccioso, insufficiente, angusto. Si va perché manca l’aria, anche se non è facile lasciare un luogo pensando di non tornarci più.  Eppure questa ė una costante nella storia dell’umanità e questo porta alla mescolanza dei popoli, che diventano tali in forza della cultura non del transitorio potere che possono esprimere. Non parlo solo dei migranti che ormai sono un dato strutturale dell’Europa e di molti altri paesi, mi riferisco invece proprio alla spinta ad andare insita nell’uomo e alla difficoltà che altri uomini hanno a riconoscere quella spinta, fino a scambiarla per una minaccia e non un valore. Molti preferiscono viaggiare solo nella fantasia di andare, di fuggire da una situazione in cui si sentono prigionieri, salvo poi difendere tanto strenuamente la piccola patria in cui vivono, a cui pensano di appartenere e che coincide più con un recinto che con un territorio libero. Così ci si confina nell’insoddisfazione. Si resta fermi e insoddisfatti perché si teme di non tornare, di non trovare ciò che si è lasciato e quella forza che dovrebbe rassicurarci di noi mentre andiamo, diventa paura di perdere. Cosa? Chi?

Se non riusciamo a convincere un vicino, a confrontarci con una cultura differente, se abbiamo così poca fiducia in quello che sosteniamo e che dovrebbe difendere le leggi che riguardano tutti allora cosa abbiamo creato veramente? Le domande le abbiamo dentro e coltivano la nostra insicurezza, non sono fuori di noi e sono esse che ci impediscono di capire e di vedere ciò che davvero ci attornia. Andare e tornare questa dovrebbe essere la normalità di un mondo che ha questa spinta a muoversi, altrimenti saremmo ancora un branco di ominidi dispersi tra il rift e gli altipiani etiopici.

anguriare non era un verbo

A giugno, improvvisamente, apparivano in ritagli di verde, accanto a strade che uscivano dalla città, sotto alle mura, in quello che era stato il guasto ed ora era prato senza giochi. Ancora, altre, erano vicine a crocicchi di periferia, oppure sotto agli argini dei fiumi che contornavano la città. Comunque mai in centro, erano giudicate, nella loro precarietà, poco consone ai palazzi, alle strade che avevano ricevuto innumeri passi importanti, però erano facilmente raggiungibili. Erano le “anguriare” in dialetto, e noi ci scherzavamo evocando un verbo per definire l’atto del mangiare anguria: io angurio, tu anguri, noi anguriamo, ecc. e giù risate. Le anguriare erano baracche precarie d’assi e travi, con vecchie panche e tavoli coperti d’incerata a quadretti rossi e bianchi. Allegre di bandierine verdi, rosse, blue, di carte veline ritagliate in casa, pavesate tra luci di nude lampadine. Bandierine e lampadine erano appese a fili di rame, vestiti di treccia di cotone, gli stessi delle case, e avevano l’anarchia del quotidiano tolto dalle case, con la stessa gioiosa precarietà che il moderno portava con sé.

Si arrivava a piedi o in bicicletta. Restavano aperte sino a tarda notte ed erano luogo di solitudine  o di conversazione interminabili davanti a una fetta d’anguria. Il bancone zincato, in quelle più pretenziose, oppure un piano di marmo, sotto una tettoia e di poco a lato, una grande tinozza piena d’acqua dove le grandi angurie sgomitavano e si raffrescavano per ore prima d’essere scelte, tagliate a mezzo e poi in quarti per essere consumate tra parole e silenzi, sputi di neri ossicini, pensieri,  risate. Le fette non vendute venivano messe sotto reticelle fitte che arginavano le mosche. Una parvenza di igiene dove nulla era davvero pulito, a partire dall’acqua che solo a volte veniva da una fontana vicina, ma più spesso da pozzi oppure addirittura dal fiume.

Mio zio prese il tifo in una estate molto calda in cui le anguriare fecero grandi affari. La colpa fu attribuita dai nonni, a frutti troppo maturi e a un melone che doveva essere già marcio. Fu portato all’ospedale, erano in sei in una stanza con le pareti bianchissime di calce, le suore infermiere avevano grandi grembiuli bianchi, le lenzuola erano rattoppate ma bianche e fresche di lisciva. Sopravvisse solo lui, era fortunato, lo fu sempre nella sua vita, oppure quella volta era solo più in carne degli altri. Mia madre si impressionò molto della malattia, dell’ospedale e del modo in cui si poteva morire. Lei piccola e suo fratello ancora più giovane ne facevano una simbiosi particolare. Così di quella vicenda, tragica e fortunata, restò traccia e ne maturarono divieti oscuri e scaramantici. Non si doveva mangiare la polpa rosea vicino alla buccia, meglio evitare gli infidi meloni, dopo aver consumato la propria fetta, disinfettare bocca e stomaco con un po’ di grappa. Se qualcuno fosse andato ad analizzare l’acqua  in cui venivano lavati coltelli e cucchiai per gli avventori dell’anguriara avrebbe trovato  che in quel catino dove l’acqua veniva cambiata al mattino, c’erano gli stessi patogeni della febbre tifoide che facevano compagnia alle angurie che galleggiavano nella grande tinozza. Il tifo era endemico ed ogni estate colpiva, ma per chi lo subiva o vedeva, l’aver trovato un rapporto di causa-effetto, scenografico e semplice, ne dava una prevenzione e una cura sciamanica che avrebbe reso immuni. Andava così e se le cose si sono scolpite nella memoria, e credo nei modi di trattare l’anguria, qualche forza nella parola-immagine ci deve pur essere.

Comunque frequentavo le anguriare nella mia giovinezza, nel loro rischio calcolato, nel fascino della luce fulgida e triste che le stagliava nella notte, nell’accozzarsi di persone diverse senza l’abitudine e la conoscenza dell’osteria. Ricordo la loro freschezza nella notte, i lampi veduti in lontananza verso i monti, il parlare più quieto nell’ora tarda, le prostitute che venivano a mangiare una fetta d’anguria, sospendendo il lavoro sulla strada e sui prati vicini, ricordo le sigarette scambiate a fine pacchetto, la bocca impastata di fumo e di sonno e la bottiglia di grappa che stava su un lato del bancone. Nuda, senza etichette e un tappo di sughero, un bicchierino costava più della fetta, ma ci voleva. Per disinfettare, per disinfettarci dentro da quella vita di deriva che pullulava attorno nella notte e che non aveva speranza. Noi avevamo una nostra allegria, vita davanti, passioni tutte nuove, ma loro che lavoravano in strada o già a quell’ora andavano al mercato o nei magazzini vicini a scaricare casse, che vita avevano? Solo bestemmie dette piano, e lavoro, un lavoro che consumava e niente speranza. Quella era andata negli anni in cui sembrava tutto possibile, il buono e il meno buono, e a loro era toccato questo, ma almeno il tifo non c’era più 

cosa c’è di nuovo?

Tenere bene a mente questi nomi: Germania, Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia, Olanda, sono gli stati che diranno se si potrà trattare con la Grecia. Quelli che hanno più sovranità degli altri. Tenere a mente anche questi quattro nomi: Germania, Olanda, Estonia, Finlandia: sono quelli che devono approvare l’accordo nei loro parlamenti. Questi hanno ancora più sovranità. Voi pensate che un’Europa che umilia una Nazione e non ha nessun processo di unione dei popoli in corso abbia un futuro? In queste trattative non c’è stata una parola sulle miserabili condizioni del popolo prigioniero del debito, non una considerazione su chi si è arricchito, non un pensiero che considerasse sia le banche salvate che le aziende fallite, nulla sul lavoro perduto, sulla diseguaglianza cresciuta, sulla povertà acquisita.
Questa non è la mia Europa, non è quella di Spinelli, ma neppure quella di Adenauer e Schumann. Non è l’Europa dei socialisti e neppure dei democristiani che avevano conosciuto la guerra e la necessità del rispetto comune e della pace, Non è l’Europa che mette assieme ed esclude la volontà di potenza, questa è altra cosa e m’ interessa poco.
Non c’è nulla di nuovo e non s’è  imparato nulla, non siamo più vicini, siamo prigionieri. E ciò che accade non promette nulla di buono perché ogni gesto verrà ricordato, ogni umiliazione tornerà a galla. E c’è un corollario in ciò che è accaduto: chi crea un debito pubblico ha una responsabilità che non è solo politica, ma personale. L’ha già fatto l’Islanda. È una cosa nuova, ci pensi chi governa: il popolo può chiedere conto, non solo la finanza internazionale.

stanchezza

Sposto di poco un quadro; si vede la linea grigia del tempo. Segni in una stanza dove le pareti sono impregnate di me eppure indecise sul da farsi. Tentano e si guardano chiedendo se va bene. L’indecisione fa parte delle cose che non sanno mai che fare, dove stare, con chi stare. Quasi tutte sarebbero superflue, ma è quel superfluo necessario. Almeno un poco perché le nostre vite semplici non sono monacali, vogliono la semplicità ma anche l’essere libere da regole troppo severe. C’è già il super io con cui fare i conti, il resto dovrebbe essere un continuo spogliarsi degli abiti ricevuti.

Pulisco il muro, allineo le cornici. Ovunque guardi questi muri mi parlano; sono conseguenza di un immaginare coniugato all’essere, alla realtà. Quindi approssimano. Accade a tutti, o almeno a quelli che rifiutano un ordine esteriore imposto. Per questo sposto quadri e oggetti, tolgo e aggiungo. La casa è uno spazio quieto. Quasi sempre lo è. Però è uno spazio mobile. Le corse e il nuovo vi arrivano filtrati; sarà perché nella casa a propria immagine si può depositare l’inermità della stanchezza? La stanchezza viene da fuori, la distendo sulla chaise longue, la faccio sciogliere in un libro scelto a caso, la svuoto in una musica che conosce la battuta che segue. Insomma la tratto bene e col giusto tempo.

Tra le tante stanchezze, quella del dover fare, del ruolo, del dover essere è tra le peggiori. Puzza di libertà decomposta, di ragioni trovate per farsene, appunto, una ragione. Non ha la limpidezza del sudore, ma l’unto di ciò che non era nostro. E non basta una dormita e via, bisogna toglierla dall’anima. A questo servono i luoghi propri, a togliersi quegli abiti imposti e sentire la pelle.

pioggia d’agosto

Cerco nella pioggia di questa notte un segno. Questa, della ricerca dei piccoli segni che dicano ciò che già sappiamo, è arte da indovini da bar, fonte di parole inutili sul finire di stagione, pronte a stupirsi d’un caldo improvviso, di un mare ancora pieno di persone, dei vestiti che restano vaporosi come i pensieri inutili sul tempo. Si cerca il fine della stagione, quasi non si sapesse quello che alla lunga verrà, e che in questo mese indeciso, comunque qualcosa è passato. Conosciamo il ripetersi, attendiamo ciò che ci piace con leggera malinconia per il passato, sempre inadatti alla sorpresa del nuovo. Eppure tra le righe dei pensieri questo fa capolino, si attende che qualcosa ci sorprenda, raddrizzi le facili previsioni, ci porti oltre le gioie che già fanno parte delle abitudini.

Guardo il tempo, seguo le temperature, in realtà non cerco la fine di qualcosa ma un mutare d’aria. E’ alle spalle un anno e so che non è vero, che il tempo non si misura in anni ma in stagioni. E che neppure si misura, ma si guarda nel suo ripetersi mai uguale partecipando a ciò che viene. Essere nel tempo e fuori d’esso, nel nuovo e in ciò che si ricorda: indago i motivi del qui e ora. Così nel dormiveglia di quiete, sfavillano i pensieri e ascolto la pioggia sul tetto.

Domattina il sole si farà strada tra le nubi, puntiamo sui Rokes, va … 🙂

l’età e l’innocenza

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Tu mi parlavi di un’età dell’innocenza. Un azzerare il tempo che tira una riga tra un prima e un dopo, e di un’età dell’innocenza non sembrava essere solo quella della realizzazione del desiderio, la soddisfazione piena dove tutto è semplice e possibile. Credo sia una tentazione (pensai), quella dell’innocenza,  a cui non sfuggiamo mai, per un bisogno proprio che è un intelligere il mondo, i rapporti, le cose o per vecchie morali consunte che mantengono ben occultati i modelli di una primigenia purezza. Che fosse per l’una o per l’altra, questa parola emergeva tra le tue ed era un sinonimo di bellezza. E la mia testa correva ad altre vite dove la purezza e la bellezza si erano fatalmente scisse in un continuo bere dalla coppa della velocità del vivere ed era un’impressione che nei tuoi confronti non avevo mai avuto.

Come cercare allora la purezza/bellezza (dissi), se non nel gesto puro, nel sentire puro, dove tutto si annulla nel rapporto tra chi sente la bellezza e l’oggetto di quella percezione. E quanto si complica tra umani tutto questo, nell’introdurre la comunicazione, lo stesso sentire che diventa una condizione del condividere nel profondo. Non esistono bellezze asimmetriche che portino alla purezza (pensavo), le bellezze parziali sono sempre una copia mal riuscita e chi la vive sa che quel pezzo di sentire ha bisogno di qualcos’altro per completarsi. La bellezza si completa in noi (questo pensavo), abbiamo noi il pezzo mancante che ci affranca dalla nostra condizione, ci rende altri.

Chi percepisce la bellezza non può restare uguale e questo mutare lo rende fragile, inerme, consegnato  all’incapacità di comunicare ciò che sente davvero. (dissi) Forse allora la purezza di cui parlavi, era un rapporto con sé, un portare dentro la bellezza e farsene riempire. E non sempre tutto ciò rende lieti (pensavo), vedendo la tua tristezza. Però per alcuni era impossibile rinunciarvi, qualsiasi altro succedaneo sarebbe stato inferiore a ciò che si era sentito/provato. Era l’età dell’essere che doveva nascere. Quella che accanto al sentire la bellezza la faceva diventare coscienza di sé. Non è scontato essere sensibili (dissi) e spesso chi lo è non vorrebbe esserlo, ma senza sensibilità l’essere diventa poca cosa. Solo non bisogna scindere le cose (pensavo), è necessario che il sentire e l’essere si fondano, che la bellezza, e l’acutezza del percepire diventino gesti, forza. Ci rendano indipendenti, perché (e questo lo dicevo) la nostra purezza/bellezza non può dipendere da qualcuno, ma dev’essere nostra. Perché solo noi la completiamo. Possiamo donarla, se vogliamo, ma dev’essere nostra, una modalità del vivere con noi.

Cosa, quantomai fallace, molti pensano che l’età sia una misura del tempo, che bisogna correre per provare. Che l’innocenza non sia possibile e casomai risieda in un tempo che forse non hanno mai vissuto, ma di cui conservano un ricordo. Mettendo insieme desideri e realizzazione, pensano che questa sia una strada verso la bellezza e la scindono da quell’innocenza che sembra far d’impaccio. E tutto ciò mi sembrava sbagliato, in sé povero di unione tra sentire ed essere. Come essere una cosa e non una possibilità che si attua, e muta in continuazione, e ha questo faro dell’unire il sentire e l’ essere e di farne per sé qualcosa di più alto e privo di connotati. Puro per l’appunto. Ecco questo pensavo e non lo dicevo, ascoltavo, e sapevo che non finiva mica qui il capire.

prendila così

Prendila così questa notte che non luccica abbastanza,

metti le labbra sulle parole che scivolano via,

pare difficile ricordare, 

eppure siamo noi nelle nostre imprecise coincidenze:

attimi, e poi calore sovrapposto, e scia, pulviscolo,

atomi di te nell’aria, odore, 

senso.

Prendila così questa notte che addensa le stelle,

tieni il silenzio sulle labbra,

stropiccialo e ascolta la tua lingua:

è tela, tela di tempo, trama,

occhi che si chiudono, sentire d’allora, malinconia,

amaro e dolce,

assieme,

dolce,

ecco.

Adesso respirami e racconta, ciò che non è stato,

quel preciso essere che poi non è avvenuto.

Convincimi che il futuro bluffava allora

ma non ha tolto nulla,

nulla d’importante per stringerti ora,

 a me, qui adesso, come fosse davvero nuovo il tempo. 

cene di pianura

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Stasera ci sarà una cena tra quasi amici, cucinerò cose invernali, da pianura, dense di sughi, polenta, vini corposi. L’inverno ha un calore particolare dentro al suo freddo: spinge a conoscere, a chiudersi nelle case. Per questo i quasi amici possono essere una sorpresa. In tutti i sensi.

Quando non ci si conosce a sufficienza, negli incontri si dà spesso il meglio, e c’è molta verità nell’apparire. Basta guardare e soprattutto non decidere subito. Lo spirito di difesa ancestrale vorrebbe tagliar corto, presumere, scegliere e scartare sulla base di indizi, ma se interessano le persone meglio non scrutare troppo, almeno all’inizio. Da piccolo mi insegnavano di non fissare a lungo negli occhi. Quello, mi dicevano, viene dopo, quando ci si conosce a fondo, ci si vuol bene. Faccio una cosa a metà: guardo ascoltando.

C’è molta verità nell’apparire, nel cogliere cosa davvero vuol essere significato, dove finisce la rappresentazione e dove inizia l’esposizione dei bisogni. Per questo mi piacciono le cene in cui non si sanno ancora i discorsi che verranno fatti, gli argomenti che serpeggeranno indecisi dall’ignoranza dell’altro; c’è possibilità di sorpresa e di novità, promettono interesse. Le delusioni le raccoglieremo dopo, se ci saranno, ma prima è ancora il momento magico del possibile e pensare che il tempo sarà ben usato.