capire il limite

DIstrazione

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Ci sono quelli che non si voltano mai indietro, hanno coscienza di sé, lasciano e pensano al nuovo. Altri, più incoscienti, sono incollati alla propria storia, l’hanno ficcata dentro uno zaino che è diventato zeppo e pesantissimo. Pensano di conoscerne a memoria il contenuto e così ci guardano di rado. Ma se lo facessero scoprirebbero cose interessanti. In compenso lo portano in giro rassicurati dal ricordo e dai fili che sembrano tener aperte comunicazioni. Dall’altra parte dei fili ci sono esigenze ormai spente, oppure altre che non s’accontentano. Intendimenti diversi si erano incontrati. Ora che resta? Per fortuna pesi diversi.

Qual’è il limite di peso consentito per volare? E se in un momento di quiete, oppure di passione, venisse voglia di andare e basta, togliere senso al tempo e camminare? Si sarebbe fatta la pace con ciò che non è accaduto, e vuotato lo zaino, riprenderebbe la storia. Perché capire il limite non è accontentarsi e neppure farsi una ragione. Nell’adattarsi il corpo si piega e si chiude, lo si vede nella postura che a volte si ribella; soccorrerebbe allora l’immagine del risveglio felino, che si stira e si guarda attorno stupito. Per un attimo, solo per un attimo, prima di una nuova mobile indifferenza.

spiegazione che si può tranquillamente saltare

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Due giorni fa ho pubblicato dei pensieri in sequenza, senz’altro legame che non fosse il succedersi cronologico. Non era esplicito ma mancando una tesi e una conclusione, ricomporre la frammentarietà era affidata a chi leggeva. Si potevano scorrere le parole come dei frames, abbastanza banali, di proposizioni e archiviare il tutto, oppure potevano essere evocativi di sensazioni e convinzioni proprie sino a una conclusione o meno. Cioè la storia tra le slides può proseguire oppure no, a scelta, perché ognuno di noi ha una propria storia in un campo così abusato come quello dei sentimenti, ha delle convinzioni, dei luoghi personali e dei luoghi comuni. Ma perché poi dovrebbe leggerla in parole d’altri? E a che serve questo scrivere che vorrebbe far scrivere il testo in chi legge più che esporre il proprio testo?

C’è un antefatto e un postfatto.

Racconto l’antefatto. Ho riletto alcuni miei vecchi testi sparsi tra carta e altro, anche su questo blog. E, checché se ne dica, scrivere è una buona misura del comunicare a sé. Anche in altri modi di espressione si vede il cambiamento di interessi, il modo mutevole di vedere il mondo, gli apprendimenti che diventano sostanza. Accade nelle arti visive, in quelle plastiche, nella musica, ovunque ci sia espressione. Succede anche nel lavoro non tayloristico o burocratico. Però nella scrittura è più evidente e così rileggendomi in poche cose, però distanti, ho visto un’ attenzione diversa. C’è stato un tempo della ricerca della sintesi, un tempo di parecchia condivisione musicale, un tempo ricco di descrizioni, un tempo di ricordi, un tempo ermetico. E così via. Ma ora che tempo è ? Mi sono chiesto. Certamente un tempo di passaggio importante, di cambiamento (si cambia a qualsiasi età dipende come), dove tutto è molto più orizzontale, alcune cose sembrano capite e assestate, altre si sono aperte e non si capisce bene come evolveranno.

Il post fatto è che allora mi sono chiesto, non se continuare a scrivere, questo è un mio piacere e necessità, ma se farlo, e come, in pubblico. Avendolo fatto da sempre per mio conto, la considerazione è che non potrei che essere me stesso ovunque e riflettere ciò che sono ora. Ma adesso qual’è la differenza tra ciò che resta privato e ciò che è pubblico. Il pudore del sé profondo, cosa contempla in questi casi? Come nelle conversazioni, si è maggiormente espliciti a seconda che si sia tra amici oppure tra conoscenti o ancora diversamente tra estranei. Ma in questo contesto ho qualcosa di più (e qualcosa di meno, ovvero il contatto fisico) a disposizione, cioè posso dire, raccontare e ascoltare senza troppi vincoli di forma, grammatica, sintassi, regole, tempi, purché vi sia un senso. Almeno per me. Essendo poi un viandante, sarei portato a raccontare. Ma ora, in assonanza con quello che mi accade, sento che la mia scrittura pubblica muta, che c’è un bisogno di ascoltare finché parlo. La scelta potrebbe essere quella del silenzio. Si chiudono tantissimi blog ogni giorno, e altrettanti restano fermi a una data. Quando ci capito sopra mi chiedo cosa sia accaduto, come sia mutata la vita di chi scriveva e se c’è stata una corrispondenza, mi chiedo come sia proseguita la vita. Dove sia, cosa faccia, per alcuni mi chiedo persino se sia felice. Credo ci siano tantissime interruzioni nelle nostre vite, reali o virtuali, che molte conoscenze restino sospese, in attesa, e per chi non ha notizie questo sapersi, cristallizza al momento in cui c’è stata l’ultima comunicazione, al più con una prosecuzione logica immaginaria. Ma il tempo è andato avanti diversamente e la vita vera sarebbe ben più interessante dell’immaginazione, per questo mi piace ascoltare, per riempire il tempo di chi si è fermato, per dare a un frame la possibilità di diventare una storia.

Sembra mi sia perso. Mi piace perdermi e mi accade spesso di guardar per aria, ma in realtà mica ci si perde: si imbocca un’altra strada, ci si segue. Ed io vorrei conformarmi a ciò che sono ora, al bisogno di ascolto e al tempo stesso dire in maniera diversa ciò che mi sento di comunicare. Non so cosa ne verrà fuori. Portate pazienza, o anche no, dipende dall’interesse che avrete per come andrà a finire. E giusto per contraddirmi, una cosa ho capito in questo tempo in cui poco è certo: che non finisce mai.

spunti sull’amore sino al luogo dei corpi

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Nell’incontro supponiamo l’eguaglianza, la vogliamo, ma è la differenza che ci affascina, e ci sconcerta, gettando luce diversa sulle nostre vite.

Nel timore di non essere adeguati a quanto accade, dapprima non ci si mostra come si è ma come vorremmo essere visti. Ed è inutile perché l’altro vede ciò che vuol vedere. 

Prima o poi si capisce che l’esperienza dell’amore è necessaria, non la sua conoscenza.

Solo nell’amore si vorrebbe davvero vedere il cervello nudo.

Il luogo dei corpi è il luogo dei confronti.

E delle sintesi.

misteri

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Rovistare nel passato ha un fascino che conosciamo bene. E’ quello delle nostre scoperte bambine, delle soffitte impolverate, dei cassetti chiusi, delle porte male accostate delle case disabitate. La fisica o le scienze soggette alla grammatica galileiana hanno altre eroicità e coraggio. Un conto è muoversi tra il provando e il riprovando, altro è il connettere condizioni e ipotesi che si rafforzeranno ma saranno sempre mancanti di qualcosa. Cos’è la storia se non un’infinita processione di assenze e incompletezze? Eppure in questo regno così labile, che però esce dalla favola e si solidifica in prove, riscontri, analisi di carbonio 14, raffronti con certezze o quasi, c’è molto di ciò che siamo. Archeologia e neuroscienze, genetica e paleosociologia, paleoetnografia e storia, in un fondersi di discipline che datano, raffrontano, ipotizzano, trovano tracce, danno percentuali. La falsabilità delle tesi in questi campi è davvero labile, Popper non soccorre, eppure a poco a poco la nebbia diventa meno fitta e se ci manca il nitore di un’ esattezza resta il calore di uno sguardo possibile. Il mistero nel passato ha un portatore di mistero: l’uomo. E allora si procede all’interno di un’antinomia. Così quando emergono le statue di mont’e Prama, in provincia di Oristano (chissà fino a quando potremo dire in provincia di…), non è in discussione il primato greco, ma ciò che avvenne e avveniva in questo crogiolo di pensiero esplosivo che fu il Mediterraneo. E il mistero della Sardegna, custode di misteri, richiama tutte le Atlantidi del mondo, che si danno appuntamento nella nostra testa, e si fanno largo sgomitando, presentandosi con una tale ricchezza di vita che riscrive le certezze. Abbiamo la fisica, la chimica e le tecnologie, ma l’uomo è sempre quel tramite tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Lì, collocato a mezzo e quasi lo stesso di allora, intriso di mistero perché portatore di pensiero e di rapporto con il sé. Il mistero ha bisogno di sintonia, di accoglienza, e così penso ai bronzi di Teti, alle raffigurazioni intense e familiari da una parte all’altra delle sponde mediterranee, ai tumuli etruschi visitati in solitudine, alle sensazioni provate nel Mandrolisai, oppure nelle Barbagie, o in Ogliastra, ai silenzi dell’avellinese, all’idea che gli uomini camminavano come io facevo e che non c’era distinzione nel mezzo e nel fine, tra l’uomo di Similaun dalle mie parti e gli uomini che popolavano le rocce aspre delle parti interne della Sardegna o di ogni montagna. E nella solitudine dei luoghi si sentiva che c’era stato altro, e che non era morto, ma dormiva, emergeva e scompariva, come i fiumi carsici.

L’antico, anche biologico non era poi così lontano, parliamo di 3000 anni, ed è davvero un attimo nella storia, se si guarda nelle soffitte di casa, nella natura attorno, nelle pietre sbozzate, nelle abilità scoperte e perdute. In queste presenze/assenze si capisce che l’universo della precisione coesiste nell’universo del pressapoco e che il secondo non è meno umano. Anzi.

http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/13/news/museo_cabras_due_giganti_mont_e_prama-97995647/

le donne e gli uomini di Kobane

Prima la vita, dopo la pace. Hanno distribuito le armi alle donne, a tutte, anche a quelle anziane, a Kobane. Le donne hanno sopportato le follie degli uomini, hanno accudito figli e protetto compagni, che altri avrebbero ucciso. Sono state custodi nella storia di questo animale pericoloso che si chiama uomo, di quello che gli permetteva di continuare ad esistere. L’ultimo baluardo, prima culturale, poi fisico, all’estinzione. C’è una fierezza particolare e un’ appartenenza al genere, nelle donne, che l’uomo fatica a possedere. E a capire. Per lui funziona l’istinto di sopravvivenza, per la donna si aggiunge la protezione della propria continuità. A Kobane le donne curde stanno combattendo, come altre donne hanno fatto e continueranno a fare nel mondo. Ciò che sorprende è lo scarso clamore che tutto questo suscita, anche i gesti individuali, così tanto amati dai media, si spengono in una quotidianità offensiva. Arin Mirkan, finite le munizioni si è fatta saltare in aria in mezzo ai jihadisti dell’IS, Ceylan Ozalp, 19 anni, ha riservato l’ultimo colpo per sé, per non essere catturata. Chissà quante donne hanno sinora fatto, e attuato, lo stesso pensiero: meglio morte che preda della violenza del terrore. Eppure quanto accade laggiù fa un rumore ovattato, privo di consistenza per le nostre coscienze assuefatte. Tanti anni di individualismo ci hanno abituato al fatto che tutto ciò che è lontano non ci riguarda. Eppure quelle donne e quegli uomini curdi stanno morendo in una Stalingrado attuale, per arginare una furia che se dilagasse non lascerebbe nulla di quanto amiamo come valori, come modi di vita, come libertà. Queste donne e questi uomini, muoiono da soli, per loro e per noi, senza uno Stato che li comprenda tutti. Combattono in nome di valori comuni e di una Patria che è stata solo oggetto di spartizioni e interessi cinici delle potenze occidentali. L’America scopre che i bombardamenti non sono sufficienti, che il ritiro dall’Iraq non è stata una grande idea. Magari scopre pure che le armi vengono da paesi che sono amici dagli Stati Uniti. Scopre la sua inefficienza nel governare il mondo. E’ inefficace e quindi il capitalismo provvede per suo conto. Non ci sono principi, né frontiere, tutte balle, impicci, così il petrolio comprato a 30/40 dollari il barile dai giacimenti in mano all’IS, magari finisce anche nelle nostre auto. Noi in silenzio, distratti, la notizia è in fondo alle pagine dei giornali, i telegiornali hanno bisogno di fatti più eclatanti. E a mille km da qui sono solo i Curdi a difenderci dal dilagare del califfato. Almeno il pensiero, la partecipazione, l’onore e il sostegno a queste donne e uomini. Almeno quello. 

mosaico: san canzian

Per entrare si scendevano due gradini consumati. Sulla sinistra c’era un vecchio bancone in legno scurito da pedate, consumo e tempo. Una lastra di zinco sotto le spine della birra, il resto era legno, spesso, consumato e appiccicoso. Ma chi si appoggiava non aveva problemi, non ci pensava. Erano gli ambulanti svegli dalle 4 del mattino, facchini, piccoli artigiani che avevano bottega attorno. Gli studenti, i balordi e i pensionati si sedevano nelle due stanzette, piccole, quasi un tinello. Sedie impagliate e sei tavoli in tutto, altrettanto vecchi del bancone e appiccicosi di generazioni di vino sparso, sudore e unto. Se qualcuno avesse cercato i dna sovrapposti in quegli strati, avrebbe avuto un campionario dello stanziale e del passaggio, del sangue giovane e di quello lento, delle menti ormai consunte e dell’avvenire fulgido sperato. Tutto assieme, perché quell’angolo di città teneva tutto assieme: università, popolo, politica cittadina, ebrei e cattolici. Tutto in una strada che collegava le piazze, ovvero la vita politica e il commercio con il ghetto. La chiesa di san Canzian era parrocchia, ma di quelle del centro, dove si mescolavano ricchi e poveri in modo così indistinguibile da rendere difficile il messaggio al prete. Chissà a chi parlava nelle prediche per tenere tutti assieme. Forse a tutti, oppure meditava ad alta voce. Forse. L’osteria nella stradina, guardava la chiesa e a fianco aveva la vecchia sinagoga di rito tedesco, incendiata dai fascisti nel 1943, ed era appena fuori da dove, fino a Napoleone, uno dei quattro cancelli avevano isolato per trecento anni, di notte, il ghetto dalla città. Quindi era una frontiera, un luogo di passaggio e tolleranza, basata sul vino e sullo scambio, sull’eguaglianza di fronte al litro, e sui discorsi senza troppi limiti. Lì dentro si meditava ad alta voce e quindi forse qualcosa da dire l’aveva anche lei. Ho conosciuto le due ragazze -‘e tose – che davano il nome al locale, solo che avevano più di 80 anni quando io ero ragazzo. Si favoleggiava di una loro avvenenza, ora svanita senza rimedio, di studenti e poi professori che le avevano corteggiate. Di tutto quel tempo, se era mai esistito, a loro restava una voce roca e bassa, che impartiva ordini a un cameriere poco più giovane di loro, el toso, (il ragazzo), con i piedi sformati dalla lunga vita eretta, che scambiava battute con i clienti e silenzi con le padrone. Felice di quel soprannome che sottovoce ricambiava dicendoci: ‘e vece comanda a bacheta e paga a baston’ (le vecchie comandano a bacchetta e pagano a bastone). E rideva. Perché allora, e non sono cent’anni fa, c’erano i padroni e i dipendenti non erano collaboratori, ma salariati e poco più che servi. Un campanello attaccato ad un ricciolo d’acciaio, come quelli che c’erano dentro le case, residuo degli antichi tiranti dei portoni soppiantati dall’elettricità, era vicino all’ingresso, e chi voleva bere, si alzava e gli dava un tiro, cosicché tutti sapevano che qualche mezzolitro sarebbe di lì a poco arrivato alle labbra dei clienti. C’era chi con un’ombra – un bicchiere – tirava avanti per ore e chi beveva d’un fiato perché tornava al lavoro. Forse la cerimonia che era costituita dallo scambio dei saluti, dalle battute e gli sfottò era importante quanto quell’alcool un po’ acido che scendeva di colpo e scaldava, cambiava l’umore in meglio o in peggio, non lasciava indifferenti. Comunque fosse, lì dentro, tra quei muri che non venivano mai imbiancati e su cui si esercitavano matite grasse, con scritte e disegni, lì dentro c’era una comunità che si dava appuntamento, si incontrava, partecipava agli eventi delle vite. Sapevano di tutti e nessuno leggeva il giornale. Rispettavano nascite, matrimoni e morti, scambiavano soprannomi, allungavano qualche piatto di minestra. Nascevano burle, congiure politiche da ridere, si batteva carta senza soldi, non si portavano gli amori, si mangiavano dolci antichi, si beveva più del necessario, per compagnia, per parlare o ascoltare, raramente entrambe le cose. Non c’era niente di bello o di brutto che facesse particolare quell’osteria oltre le persone che la frequentavano, era allora, ora c’è un negozio di telefonini.

 

mattinale

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C’è un grosso topo spiaccicato sull’asfalto. Le auto fanno scempio. Non provoca nulla, o forse un sollievo, che sia il ricordo della grande peste del ‘300 che ancora dura? Uno in meno, la tenerezza è riservata ai gatti, ai ricci e ai cani. E’ proprio fine settembre. La luce è calda e polverosa. Sospende pollini, bruma e vapori del primo mattino. Appena fuori città c’è la campagna, anche se non è più tale per il proliferare di case senza regola. Fino a tre anni fa, bastava un ettaro coltivato per costruire casa e annesso rustico. Hanno comprato, piantato vivai e poi arato tutto dopo l’abitabilità. Visti dall’alto, gli appezzamenti sono tessere di un mosaico rozzo e colorato, poco utili alla coltivazione da reddito, però sono ricchi di verde. Un tempo anche la città era così. Quand’ero bambino, c’erano gli orti in città, gli animali da cortile. Il brolo si alternava alle case signorili. Ora non più, ma un pregio delle città medie, è che hanno conservato un verde interno accettabile, hanno molti servizi, e sono percorribili a piedi e in bicicletta. La campagna comincia appena fuori dei quartieri di periferia. Anzi si insinua in essi mentre le case diradano, ed è un verde curato che sembra farsi strada, assediare la città, mentre è un connubio senza cultura, una simbiosi ancora indecisa sul che fare. La crisi ha arrestato l’espansione, sembra che si stia radicando l’idea di aver abbastanza e che ora sarà necessario rimettere in ordine, ristruttirare.

All’edicola un signore molto obeso, si fa largo. Occupa l’intero spazio verso l’edicolante. Compra cronaca vera. Ha i movimenti lenti, una lunga barba bianca, calzoncini corti e una maglietta in cui si è perduto il conto delle X prima della L, porta sandali sui piedi nudi. Potrebbe essere un mio coetaneo, non leggiamo le stesse cose, ma anche lui va in bici. Si terge il sudore, abbondante nell’aria fresca. L’obesità alza molto la temperatura, i magri vivono nel freddo. Chissà cos’è accaduto che ha fatto virare il piacere sul cibo. Compensiamo con ciò che è facile. Penso. Le difficoltà si sommano, una timidezza, un lasciarsi andare, una spinta a ritmare la giornata sulla bocca che addenta e si riempie di gusto, poi tutto diventa irreversibile, o quasi.

Stamattina, appena sveglio, ho aperto le finestre. Mi piaceva l’aria fresca sulla pelle, finche il profumo di caffè si spandeva. E’ già l’aria d’autunno. Ha un sentore umido, ben diverso da quello delle altre stagioni, preannucia picchi di caldo assieme a cadute di temperatura. Non promette più nulla. Mi appoggio sulla stagione che viene, ne seguo le sinuosità e cerco ciò che mi fa sentire lo scorrere del tempo. Il tempo delle stagioni è senso, somma, cornice a ciò che facciamo. Ciò che conta è il nostro tempo. Guardo i tetti attorno, li conosco nelle stagioni, nel loro bagnarsi, riempirsi di neve, seccare nel sole. Si stanno riempiendo di muschi e gli uccelli sono più radi.

Il rtempo interiore, le età che restano e si parlano, tutto assieme: contenere, non essere contenuti. Mi viene in mente una canzone. Era malinconica. Parlava di un tempo fatto di somme più che di occasioni. Canticchio e rimando qualche piccola tortura al mio corpo. Non ho più cuore di sfidarlo, ho fatto pace con lui anche se non lo tratto come vorrei. Gli risparmio le sfide inutili.

C’è molta, laboriosa, pace attorno, ciascuno si occupa di qualcosa, io mi occupo di me.

notturno blues rap

Molto è un po’ malato, e non ci sono verità.

Fan confusione le sirene: crisi, quiete e sicurezza, 

ma non c’è luogo e direzione in mezzo alla stanchezza.

E’ tutto un po’ malato, nulla è preciso a sé,

nuotan dubbi nella notte, ci son rumori sotto casa, 

tace il cane, chi sarà ?

E’ fatica esser un po’ sani, s’aspetta e poi si corre,

da chissà chi si scapperà? 

Vorremmo che qualcuno ci mettesse poi una pezza,

ma è tutto un po’ malato, non ci sono verità.

servirebbe un po’ sparire, lasciarsi andare, naufragare,

finché tutto si rinnova, non è tempo di star qua.

D’un piccolo disegno ci sarebbe poi bisogno,

bello, nuovo e colorato,

tappezzeria per questa notte di rumore soffocato,

la mattina verrà presto, ma molto non si combinerà,

Bisognerà darla un po’ a vedere, evitare verità, 

oggi piaccion gli animali che leccano a comando

ma non la raccontan giusta e il bisogno resterà.

Vorremmo essere tranquilli senza false povertà,

ma ci son sirene compiacenti dai rumori senza nome

e riposar non si potrà .

Domattina non combinerà poi molto, però questo silenzio dormirà,

c’interroga da troppo, nel rumore, tacerà. 

Vorremmo poi qualcuno che ci mettesse un po’ una pezza,

noi spariremmo quanto ci basta, solo a far sentir l’assenza.

E’ tutto un po’ malato e non ci sono verità

abbiam chiamato il medico, ha detto che ci pensa,

ma forse non verrà.

 

foto di gruppo d’inizio secolo

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La conclusione è un epitaffio: “il terrificante inizio del ventunesimo secolo, un tempo senza dio, contaminato da arrivisti e corrotti, nel quale il capitalismo finanziario, con la complicità dei governi conservatori e la passività dei socialdemocratici, ha soppresso il welfare state” (Fernando Valls, El Pais). Dovremmo aggiungere i diritti, e a volte la dignità, e poco importa che queste parole siano nella recensione di un libro, io le vedo come la fotografia di un gruppo infelice e succube. Sono gli abitanti di questo occidente mediterraneo ora globalizzati? Siamo noi? Anche può essere, la fotografia è precisa, ma include sentire e chissà quanti si riconosceranno, magari pochi, non per tutti è uguale.

Si celebrano gli sconfitti? Solo nei romanzi, nella vita diventano naufraghi senza patria, non c’è salvazione senza un sogno, senza una terra a cui tornare. Si accatastano le vite nell’inverno del nostro scontento. Servirebbe un incipit, un vessillo, un orifiamma che indichi il senso del vento, e poi la corsa in direzione contraria e ostinata a riprendere ciò che è nostro. Nel sole, nel sole mediterraneo, dove le navi portano rifugiati e noi non sappiamo dove andare, trovare un senso, perché ciò che s’è smarrito è il senso. Del fare, dell’essere, dello stare assieme.

In fondo il necessario c’è, ma la grande contraffazione immiserisce, poco a poco, tutti, e nel cedere un metro, cento, un campo, un paese, si consuma la voglia di lottare. Il grande paradosso è poi questo difendersi, anche da se stessi, dalle proprie paure e miserie, dalla incapacità di ritrovare un noi comune che rovesci le regole imposte dal profitto sfrenato. Come non ci fosse più un limite a cosa toccherà perdere ancora. Solo il tempo. 

Una fotografia in cui guardarsi a lungo, decidendo se riconoscersi o meno, ora e in futuro, seguendo col dito le pieghe del sorriso del momento , che poi nasconde il divenire. Riconoscersi è essere consapevoli, affrontare la sofferenza per uscirne.

Ma insieme, perché da soli non c’è storia. 

scorie dell’anima

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Più di dieci anni fa, pochi se ne ricorderanno, ci fu un pasticcio per la creazione di un deposito di scorie nucleari a Scanzano Jonico, in Lucania. C’era il governo Berlusconi, e ancora pochi se ne ricorderanno che Berlusconi ha governato a lungo, tanto che si vantava, che il suo era stato il governo più lungo della storia della Repubblica. Sarebbe meglio ricordarsene quando le cose non vanno bene, che comunque c’è stata una genesi, che qualcuno non ha fatto, ha tranquillizzato o rimosso. Ma questo vale per tutti, perché si rimuove molto in questo Paese. Ad esempio quand’ero ragazzo, non si riusciva a parlare di fascismo a scuola, eppure tutti, o quasi, insegnanti e bidelli erano stati fascisti o nel immersi nel fascismo fino a non molti anni prima, possibile che nessuno si ricordasse. Me ne stupivo da piccolo, ho continuato a stupirmi da grande. Divago. Tornando a Scanzano Jonico, in quell’occasione, poi sventata dalla protesta popolare, si era pensato di ficcare in una miniera abbandonata di salgemma, tutte le scorie radioattive d’Italia. Quelle passate e quelle future, perché oltre alle centrali che sono state smantellate, di scorie radioattive se ne producono in continuazione in ospedali, laboratori, industria. Quindi si risolveva un problema togliendolo da molti posti e mettendolo in un posto solo. E questo non è sbagliato in sé, ma parte da un fatto che coinvolge tutti, ovvero quando si fa qualcosa non si pensa alle conseguenze, tanto poi qualcuno risolverà. Come dicevo, alla fine non se ne fece nulla, ma sarebbe istruttivo ricordare chi era il sindaco del comune, chi il presidente della Regione, chi il ministro, chi il generale che fu incaricato di preparare il terreno, quale impresa doveva agire, ecc. ecc. e anche il problema sarebbe istruttivo chiedersi che fine ha fatto. Ma come per Report e Presa diretta, queste sensibilità, durano poco. 

Sono partito da questo ricordo per collegarmi ad altro, in fondo quelle scorie che abbiamo rimosso dall’attenzione e non risolto, assieme a tantissimi veleni sono rimaste nelle nostre anime e hanno generato il relativo in cui ci dibattiamo. Certo, Calvino non si peritò di venire in Italia per predicare il rigore delle anime, restò in Svizzera forse perché pensò che era una battaglia persa, oppure, considerato il passato e il presente, già allora capì che i veleni erano ormai nel corpo italico e il mitridatismo impediva all’organismo di soccombere, ma c’era una propensione ad assuefarsi più che a depurarsi. Sembra un ragionamento moralistico, non sia mai, penso invece che tanti anni di preti, incenso, e digestioni difficili nelle sacrestie e nei confessionali non hanno scalfito (oppure hanno favorito) una doppiezza di pensiero che porta a rimuovere, mettere da parte. Si deve pur vivere, no? Sarà per questo coltivare le anime che rimetteva tutto all’aldilà che il degrado non ci impressiona più di tanto, oppure si sarà formato un cuoio dello spirito che porta a tener dentro, come ci fosse sotto la scorza, un giardino di bellezze che comunque resta nostro mentre attorno le cose cadono a pezzi.

Si dirà, c’è una crisi feroce, la gente non sa come finire il mese, il lavoro manca ai giovani come vuoi che ci si preoccupi di quello che è accaduto o sta accadendo attorno, è il particulare che trionfa, risolto questo si potrà pensare ai problemi comuni. Credo che questo modo di vedere faccia bene a chi risolve i problemi mettendoli sulle spalle di qualcuno più debole oppure occultandoli. La nostra casa è sporca e ha sporcato anche il nostro spirito, il nostro modo di vedere, di sentire. Le priorità diventano difficili da individuare se non sono comuni. Spesso si allargano le braccia, ma non per volare, piuttosto per testimoniare le terreità delle nostre capacità. Non ce la facciamo, anche quando siamo sensibili, e così è meglio rimuovere.

Oggi guardavo la fotografia di una scuola fatiscente in Puglia e leggevo della rivolta dei genitori e degli alunni, prima degli insegnanti. E cosa potevano fare gli insegnanti, come i soldati non possono scegliere il campo di battaglia, al più chiedono collaborazione alle famiglie, ma si adeguano. Come farne una colpa, non lo è e non lo può essere. Ma quelle aule cadenti e sporche, gli intonaci scrostati, i mobili sconnessi e i banchi disastrati impoveriscono anche loro. Chi riceve un messaggio guarda il messaggero, il contesto, la busta. Se tutto questo è malridotto quanto valore sarà perduto, quanta fiducia banalizzata e dispersa.

Guardo il mio tavolo ingombro, non c’è sporco, ma c’è disordine. L’ordine non è un obbligo, rimuovo e rimando, quindi capita anche a me. Prendere coscienza è fatica, ma è indispensabile quando non si sta bene nella vita. Allora penso che rimuovere è un artifizio che da insieme ci fa diventare soli, che ci pone davanti ai nostri problemi senza alcuna possibilità di affrontarli assieme. Che strano, quando abbiamo un peso eccessivo nell’anima, una pena d’amore, una modalità di vivere che ci fa soffrire, si pensa a un aiuto, a parlare con qualcuno. Magari si cerca un medico, uno psicologo, un analista, per chi ci crede, un confessore, oppure uno dei tanti “esperti santoni” che rovesciano le vite. E invece di questa casa che ci cade a pezzi attorno non parliamo con nessuno, come fosse una vergogna irrimediabile o qualcosa che non ha poi così tanta importanza. Gli estremi si ricongiungono e noi mettiamo sotto il tappeto della rimozione quello che non vogliamo vedere perché ci interpella.

Vi do una cattiva notizia, in questi anni non si è risolto nulla sulle scorie, di qualunque tipo, la monnezza è ancora nelle balle ecologiche in Campania, i cornicioni e gli intonaci delle chiese e dei monumenti continuano a cadere, anche sulle frane e sul rischio sismico si è fatto ben poco. Vi do una buona notizia, se vi guardate attorno, anche qui in rete, quelli che si interessano non mancano, continuano a spazzare anima e mondo che ci sta attorno. Non è una soluzione ancora, ma almeno qualcuno con cui parlare c’è.