di te conservo

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Di te conservo un prato enorme che finiva nella pietra,. rasati entrambi per cura di frequentazione e decoro d’amministratori. Perché questa è la cura che metteranno nel cuore dei problemi immani e futuri.

Di te conservo la luce radente che il tramonto regala agli occhi e toglie al cuore. Una luce che puzza di addio, di distacco, di greto di fiume in città, di acqua già morta nel guizzare d’inutili pesci, di cose abbandonate anzitempo da un sé voglioso di nuovo. Eppure è una luce che allunga le dita, indora le cose, le maneggia e le arrossa. Una luce che ha il sospiro freddo del monte e il caldo della terra. Una luce che conserva negli occhi, che riordina gli steli del prato, che affretta le persone a raccogliersi. Una luce ambivalente che contiene immatura la sua fine eppure riluce, riflette.

Di te conservo quella luce che è l’ora in cui si immagina, quando il possibile s’affaccia, il sorriso è ancora dentro, quando la sera non preannuncia la notte, e le cose diventano inutili a mascherare i sentimenti.

Di te conservo il dettaglio della voce allora, già fresca di scuro, , la e che si allarga e la i che s’appuntisce,, il sorriso nervoso di tempo, che sfugge, sfugge,. e consapevole s’incrina.

Di te conservo la folla attorno già pronta ad andare eppure seduta, allungata, discorrente e intenta, inefficiente nelle felicità, distratta fintamente al suo afflosciarsi, esattamente come chi serviva ad esempio,. E il tempo s’affloscia nella luce, lo sapevi? S’affloscia e s’oscura di desideri mancati, di possibili spenti, di baci, di sudori, di corpi scongiunti, di esiti scongiurati, di doveri assolti.

Ci insegnano il congiuntivo e non il disgiuntivo, forse per pudore, nella memoria d’un personale dolore che non è lecito insegnare e allora si lascia fare alla vita. Ed è una vigliaccheria che s’aggiunge, un coraggio tolto agli eventi, un finto malcelato dovere che puzza di tutte le sacristie del mondo credente e ateo, una ignavia che si ripete.

E così ti conservo al margine d’ogni verde, d’ogni riflesso, d’ogni pietra che riluce. E non importa che non sia tu che vieni alla mente perché comunque coincidi. Come coincide il mare con il suo moto e l’immobilità del suo abisso,. come coincide ogni meriggio nella luce che allunga con l’ombra priva di luce,. come diviene ogni angolo in cui la polvere trova rifugio senza diventarne morbida parte.. E io penso che tu sia questo sentire che è forte e non ha più sembianza, ma è te ogni volta che cala il giorno. Ed è assenza che si fa presenza, vuoto che si riempie, coppa che spande, sguardo che si perde e ritorna, fatica e rifugio. Sì rifugio d’un passato distillato in senso,. solo senso come ambra che contiene qualcosa che visse e di essa riluce e vuole contatto di pelle e se s’avvicina al fuoco, brucia. E per questo si cura, perché nel bruciare non ciò che visse ma noi saremmo consumati. Definitivamente.

http://https://www.youtube.com/watch?v=qqAH2J0EXPk

p.s. la punteggiatura incespica volutamente e cammina, essa sì per suo conto.

il sud, la magia e me

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… il violinista fa il barbiere il resto dell’anno. Cito a memoria, era il violinista che suonava la taranta in Sud e magia, e penso che pochi libri sono stati così importanti per farmi capire che c’era un’ Italia silente, presupposta e sconosciuta. E arcaica in modo alto e sapiente perché conteneva il mito, la tenebra vischiosa che albergava in noi ancora visibile, il prima che era oscuramente adesso.

Cos’è primitivo? Quello che precede, e non è un giudizio di valore. Con la tipica esterofilia e con i pregiudizi politici che ancora esistono tra le pieghe della nostra accademia, negli anni in cui De Martino scriveva i suoi libri di antropologia dedicati alla “sua” quistione meridionale, alla piccola taranta, alla magia, si celebravano nelle nostre università e sui giornali, Levì- Strauss e Margaret Mead. E lui, era altrettanto grande. Anche di più, ma negletto perché demoliva i luoghi comuni del sottosviluppo, il facile giudizio dell’intellettuale che bollava come inferiori le culture povere, e cercava tra noi le ragioni dell’irrazionale e del reale dell’uomo. Quello che viene prima, qui, conteneva, come oggi contiene, il mitico-religioso, quel bagaglio/fardello culturale che serpeggia nelle nostre giornate, che è superstizione, e rifiuto del male prodotto dall’ambiente. Certo, scegliere gli umili, gli sconfitti, è una parte della realtà, oggi più di allora si celebra il falso egualitarismo delle possibilità: tutti possiamo ascendere la scala sociale, tutti possiamo essere felici. E questo distoglie dal contesto, ovvero dal perché siamo in basso e perché siamo infelici. De Martino dava una risposta indiretta, e rendeva evidente la contraddizione. Introduceva concetti come appaesamento, domesticità delle soluzioni, l’essere nel mondo comunque. Evidenziava il ruolo della magia e riportava la follia nel disagio infinito dell’estraneità. E per farlo, andava sul campo, ascoltava, metteva insieme alle situazioni. Non rifiutava il magico, non lo espelleva dal reale. Se intervistava la figlia della maestra, come la madre, anch’essa maga, le faceva dire degli incantesimi, ed allora emergevano gli amori asimmetrici e disperati, le gelosie, le paure per la salute, la malattia senza risposta.

“Il mondo popolare subalterno costituisce, per la società borghese, un mondo di cose più che di persone”. Ed io nelle cose che leggevo di De Martino, riconoscevo racconti che avevo ascoltato da bambino, la presenza della magia nelle case, nei letti, le malattie strane come le guarigioni, gli incantesimi e gli scongiuri, segno che tutte le culture arcaiche s’assomigliano e sono fatte di uomini che cosificano il disagio, non diventano loro stessi cosa. Mi colpiva la nettezza con cui emergeva una questione sessuale, un’ interpretazione del desiderio in chiave mitico religiosa, l’estensione del concetto di possessione come de responsabilizzazione di fronte al disagio. E le risposte erano ancora presenti nella presunta razionalità dei riti, nelle benedizioni, nei giudizi che partivano da presunzione di realtà. Ma ancor di più mi colpiva la considerazione sul camminare: noi eravamo la somma di atti ripetuti che avevano cambiato la condizione dell’ominide, tanto da renderla naturale ed automatica, ma quell’ancestrale scatto verso l’alto, un affrancamento dal suolo, era una condizione che conservava il pregresso. Il prima, il primitivo. E così era con la magia. Sembra strano oggi parlare di magia, ma oltre al razionale apparente, se si scompongono gesti e pensieri, emergono le stesse paure, le risposte apotropaiche attualizzate ai nuovi/antichi disagi. De Martino per me arrivò troppo tardi, anche se ero molto giovane non ebbi il coraggio e la forza di lasciarmi attrarre da una strada possibile di impegno di vita. Più facile fare altro, ma oggi se qualcuno portato ad essere sensibile a ciò che avviene attorno e agli uomini, mi chiedesse cosa studiare, gli direi: studia filosofia, sociologia, economia politica, biologia e antropologia. Non so se troverai mai un lavoro, ma di sicuro troverai tante domande da non annoiarti mai.

 Riporto tre, tra le tante citazioni che allora, come ora, mi colpirono.

l’Antropologia è “un modo di pensare noi  stessi come altri”.

“Felice oblio quello per il quale io non debbo totalmente impegnarmi ogni momento a mantenermi nella stazione eretta, ma avendola appresa da infante con l’aiuto degli adulti, e avendola appresa la specie umana già con gli ominidi,  io posso “perdermi” in quel mondano che è l’abitudinario camminare sulle gambe, restando “disponibile” per fare una passeggiata conversando con un amico. Felice oblio quello di una “domesticità” nella quale mi muovo, e delle cose con i loro “nomi”, sonnecchianti nella semicoscienza o sprofondati nell’inconscio, onde ogni cosa “dorme” con la sua etichetta di potenziale operabilità, e solo così può dormire, altrimenti si sveglierebbe come problema ed io perderei me stesso e il mondo, non potendo più scegliere e valorizzare ‘qui ed ora’ solo questo o solo quello. Quando si parla di carattere inaugurale dell’economico in quanto progetto comunitario dell’utilizzabile, si deve porre mente ‑ fra l’altro ‑ alla forza liberatrice condizionante del ‘dimenticarsi’ nel mondo. Nel che risplende di nuova verità quella necessità di perdersi per salvarsi che sino ad ora ha avuto un significato religioso proprio perché non è tentato a riconoscere all’ economico il carattere di valorizzazione inaugurale del mondo…”

“Come si delimita l’orizzonte ‘mondo? Come una immensa possibilità  da cui viene emergendo, nella continuità di un concreto esserci, una graduale limitata attualità culminante nella presentificazione dominante del momento. Il mondo: cioè gli spazi cosmici, il nostro pianeta, gli astri del cielo notturno e la luce solare di quello diurno, le piante, gli animali, gli uomini e tutto questo nel tempo, che abbraccia la storia del mio esserci, e quella di tutti gli altri esseri umani, e che retrocede verso un infinito passato e avanza verso un infinito futuro. Questo è il mondo che dorme in me, cui sono legato mediante il mio corpo e il mio inconscio: un dormire tuttavia che è un potenziale svegliarsi. Ogni mondo, quindi, e anche il mondo magico, è un mondo che legittima la sua esistenza sul piano della creazione culturale collettiva, mentre il mondo del folle è un “mondo” che non riesce a formarsi proprio perché pretende di nascere sganciato da quelle ovvietà preliminari che non devono costituire più un problema: il mondo del folle pretende di formarsi sganciato da un mondo dove si risvegliano continuamente i significati dormienti, in un balbettare oscuro intorno a eccessivi problemi che lasciano la realtà sempre indecisa e pericolosamente vischiosa.”

e per continuare a ragionare, tra il tanto a disposizione:

Il mondo magico di Ernesto De Martino

http://www.siderlandia.it/2.0/da-ernesto-de-martino-a-pier-paolo-pasolini-una-difficile-eredita-2/

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=0WMVE5mnIvQ

http://https://www.youtube.com/watch?v=YQkXUausnv8

il tappeto sbagliato

È un tappeto d’oriente e sbagliato. Amato per questa sua irregolarità. Indagato anche sul rovescio, per capire il perché di questa fine anticipata di tessitura. In fretta si chiuse con la ripetizione del bordo, trovando soluzioni irregolari e tranciando forme geometriche. Mancano 7-8 cm di tappeto che non sono surrogati dalla fantasia dell’introdurre piccoli decori non simmetrici, è come fosse mutata la mano per un qualche motivo irrevocabile. Portata via la mano originale? L’irregolarità e il rovescio, portano a una tessitura artigiana, casalinga, poco intrisa di tecnica e programmata. Penso a dita veloci e sottili, rovinate dai fili di lana, percorse di tagli e inusuali callosità. Una geografia che forse veniva guardata in momenti di tenerezza, amore lento, scambiato, attento. Per guardare le mani serve tempo, attenzione amorosa e confidenza, e allora si seguono i fili tracciati sulla carne, se ne sentono i presagi e la ricchezza. La contrattazione sul tappeto sbagliato certamente ne alterò il prezzo e venne comprato per una cifra irrisoria rispetto al lavoro. Buttato poi sul mercato, senza garbo, affidato più all’ignoranza che alla perizia del compratore. Una seconda scelta. Il mistero che porta con sé, me lo rende prezioso, è un generatore di immagini. Evoca sabbia e luce accecante filtrata dall’incannucciato alle finestre, polvere, matasse policrome di lana, colori caldi, richiami, silenzi e parole smozzicate, quasi colpi di tosse. Riso bianco e spezie con carne rossa e dura, dita che lo prendono e lo portano alla bocca, rimproveri, notte che scende nera e rapida, luci fioche, freddo, sonno e sveglia all’alba. Così sempre, sembra, e poi qualcosa sposta, spinge via, interrompe, riprende, dimentica e ricorda. Altrove. Tornare e già sono mille, duemila anni di cerchi, di ellissi. Mille anni di polvere di tarlo, di telaio, di odore di lana, di grasso sulle mani. Si chiama lanolina. Non importa. Quello è l’odore delle greggi che passano tra le case la notte e aspettano in periferia, che strappano erba, che lasciano ciuffi di lana sui fili di ferro, sui reticolati. Mille anni di contrattazioni sbagliate, di subordinazione, di mercanti col passo leggero, le vesti strane e distanti, che ripartono carichi di tappeti. Mille anni di acqua limpida e freschissima, offerta con un sorriso, aromatizzata, infusa nelle foglie d’ibisco e nei pezzetti di cannella e di mela, nel tè. Mille anni di richiami tra una stanza e l’altra, di pianti di bimbo, di filastrocche sussurrate, di vestiti rigidi, rossi, ricamati d’oro e monete. Portavano zecchini per ornare le donne e volevano tappeti e tessuti di Damasco. Non il deserto, non la luce abbagliante, non il caldo, ma il lavoro, le mani, l’ingegno. Mille anni e un tappeto interrotto, sbagliato. Dita veloci, fruscio di telaio, la soluzione abbozzata. Bisognava venderlo, darlo, che andasse distante. Un tappeto che ricorda così platealmente l’imperfezione dell’uomo è un’eresia, un’accusa per chi l’ha fatto. Cosa volevi dimostrare, gli avrebbero chiesto sbattendo la porta, sedendosi senza grazia e senza permesso, la tua imperizia, oppure dire qualcosa con le figure interrotte? Meglio evitare, via, via… In ogni tappeto c’è un errore che restituisce all’Innominato la perfezione, bisogna però cercarlo, perché mentre l’Innominato è evidente, l’uomo si deve trovare nella sua opera. Ma qui l’errore è squillante, dice troppo dell’uomo. L’eresia di un buon tessitore dice troppo: è una deviazione dalla canonicità del disegnare, del far incontrare serenamente le strade dei fili. Come fossero cammino degli uomini. Cosa volevi dimostrare?  Quell’errore dice troppo, rompe una consuetudine, è uno scatto d’ orgoglio, oppure d’ avidità. Non si poteva tenere in casa, quel tappeto, bisognava mandarlo distante attraverso i mercanti che vengono e vanno,  che confondono, che lasciano sul posto, che non spingono via. Mille o duemila anni che sono qui, l’errore voluto per gettare un ponte, per farsi riconoscere, per restare, perché si ama la polvere della lana, la luce accecante, la notte nera di luce, l’alba, il fruscio del telaio. 

 

mi rendo conto della lunghezza, non biasimo chi non condivide, chi non legge sino alla fine, ma se qualcuno ha pazienza bisognerebbe leggerlo a voce sommessa, percettibile. Come mille anni fa, perché scrivendo ci si parla sempre.

chi è quell’uomo che m’assomiglia?

È giusto si sappia che trattenere la rabbia costa fatica, che restare calmi consuma quantità immani d’energia.

È giusto si sappia che nessuna rinuncia è a basso costo, che la notte o il primo mattino ci sarà un risveglio che porterà il pensiero lì, proprio su quella rinuncia, e farà star male.

È giusto si sappia che per costruire una vita come la vorremmo serve non meno energia che per accendere una stella, ma anche per quello straccio di vita che abbiamo realizzato con fatica serve altrettanta energia e se questa ha un sentimento, è meglio ricordare che è stata irrorata di un amore inverosimile. Senza misura, proprio come gli dei. Quelli del nostro olimpo, perché gli altri dei hanno tutti misura e limite.

Se qualcuno l’avesse raccontato, magari insegnato, quando ancora capivo a malapena, non c’ avrei creduto. Non mi sarebbe parsa una grande impresa vivere, ne avrei visto l’eroicità, non la consuetudine, non le incrostazioni, gli obblighi. Avrei protestato la mia libertà facile, la limpidezza di poche idee che non avevano contrasto apparente, non mi sarei fermato sulle contraddizioni, anzi le avrei sciolte con la lieta spensieratezza e coscienza d’ Alessandro: con un colpo netto. E invece poi quelle contraddizioni si sono rivelate la vera essenza di ciò che stava dentro, quello che protestava la sua umanità vilipesa dalle costrizioni, da idee ricevute e stantie, dalle consuetudini.

Allora è giusto si sappia che non nel distruggere se stessi ma nell’assomigliarsi è la fatica. Che il comporre equilibri esige un’infinita dolce pazienza, un’energia che ordina ad una stella d’accendersi nel cuore e nel cervello. Che questo è tutto quello che a volte si potrà offrire e quasi mai verrà compreso.  

dormire sottocoperta

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Caro Cavaliere,

il tempo passa, o almeno passa quello cronologico che, come ci ricordavano i greci, divora cio che crea. Non passa il tempo delle occasioni, il kairos, ma quella è un’altra storia.

In fondo pur misurando le nostre vite su anni passati e attese future, di ciò che facciamo vorremmo restasse memoria. È il passato, il già fatto. Hai mai pensato che il passato è a suo modo un succedaneo dell’ immortalita, a noi concesso assieme ai figli,  e alla memoria per pensare che siamo e nulla finisce mai davvero, ma tutto inizia sempre. Però le vite che divaricano costantemente da noi, dai nostri desideri, ci raccontano altro, fatichiamo a tenere una loro oscura coerenza, e questa fatica è il presente e il futuro.

Possiamo conservare un’alta considerazione degli altri (cosa assai difficile) ma con noi stessi non bariamo. Parecchi anni or sono, questi giorni li usavo per riflettere sul tempo, quello passato e quello futuro, facevo il punto sulle cose fatte, quelle da fare, i propositi di mutamento, lo star bene da perseguire. Questo contraddiceva i fatti: a fine anno si lavorava di piu, c’era una specie di eroismo sciocco nel lavorare quando gli altri erano in festa. Ci misi tempo ad accorgermi che non avevo nulla da dimostrare e che non serviva essere riconosciuti come sempre disponibili, che era un esercizio perverso di conformismo a un ruolo.

Te ne parlo perche allora cominciai a rovesciare parametri, avrei dovuto rovesciare tavoli e invece pensai che eravamo noi da cambiare prima di quello che stava attorno. Il tempo sembrava passato e comunque fuggente, sapevo che non sarebbe mai finita questa impresa, e neppure riconosciuta da altri che noi stessi, ma ne valeva la pena. Non c’è nulla di elegiaco in tutto ciò, nelle vite ci stanno molti successi noti solo a noi e molti fallimenti che vengono percepiti in modo diverso. Dipende, in fondo è un nostro segreto. Magari si capisce che essendo altri forse si sarebbe stati migliori, ma di sicuro si sarebbe stati diversi. Ed essere diversi era un violentare le possibilita, cambiare era una faccenda nostra.  Se ci conformavamo a noi stessi, ci sarebbero state molte difficoltà, e qualche felicita immotivata, inattesa e possibile, ma conformarsi agli altri era una violenza e comportava comunque l’infelicita e l’estraniamento da sé.

Nei molti mestieri che ho fatto ho trovato soluzioni economiche al vivere, in cio che non era mestiere ho trovato la soddisfazione d’essere vivo. Credo che questo sentire sia molto diffuso, che praticare la propria diversita trovando una misura di se stessi, sia un lusso che ci si deve permettere. È una fatica, ma ne vale la pena, anche se comunicarlo nella sua preziosita è difficile, sembra un esercizio vano se non viene colto nella dimensione vera che ci riguarda. Credo che questa incomunicabilita e la ricerca d’elezione di chi puo capire sia un tratto dell’età. Una solitudine accettata.

Non è strano, ma un po’ singolare che tu abbia fatto studi che in una certa misura ho fatto anch’io, che tu abbia praticato, e pratichi, un mestiere che ho fatto anch’io. E pure mi piaceva. Poi le congiuzioni astrali che noi adeguatamente manipoliamo hanno deciso diversamente. Non mi spiace, anzi, devo confessare che sono responsabile di ogni cosa che mi riguardi. Cosi ho imparato che c’è molta soddisfazione nel tentare qualcosa di nuovo piuttosto che praticare la sicurezza del conosciuto. Era un modo come un altro per dedicarsi all’ inutile e vedere se esso era proprio tale. Questa potrebbe essere una delle definizioni della speranza, non credi? Come trarre una rispondenza a se da cio che non è importante come economico ma come pensiero, idea da seguire. Credo sia per questo che non faccio piu bilanci, stabilisco obbiettivi, perché la speranza non li tollera, li considera delle gabbie, non guarda al passato perché numerare ciò che non è  andato sovrasta sempre quello che si è realizzato. E questo paralizza, impoverisce. So che non è il tuo caso, che utilizzi cio che sai per aggiungere conoscenza, ma credimi, apprendere non ha un buon oroscopo da tempo, si preferisce cio che è finalizzato, ci si specializza restringendo il campo perche questo è cio che serve. Apprendere l’apparentemente inutile per il piacere di farlo è cosa da sognatori, da romantici perditempo.

Strano, le grandi intuizioni vengono spesso da una conoscenza diffusa, da un saper vedere il lato oscuro della luna, ossia dal superare il sogno non dall’eliminarlo. Il nuovo, si direbbe, viene anche da sognatori perditempo. Attorno vedo vite che scartano come un cavallo negli scacchi nel tentativo di sorprendere, ma la scacchiera è quella e si gioca in molti, solo che alcuni rispettano le regole e altri rispettano se stessi. Ecco che torna il riportarsi a sé. Vorrei condividere questa sensazione per capire meglio la mia nozione di tempo: allora non dicevo che pensavo al futuro, proprio perché ero fradicio di passato. Di quello che ricordavo e di quello che rimuovevo. E ciò che rimuovevo era, ed è, un amico beffardo che agisce nell’ombra. Quando confrontavo risultati e attese era già tardi oppure sempre troppo presto. Mentre percepivo che la vita non era esitare sulla soglia.

Visto che abbiamo età confrontabili devo dire che siamo stati per alcuni versi fortunati di vivere nel tempo di passaggio tra un prima consolidato e un poi più liquido, non perché sia scomparsa la fortuna ma perché è più difficile ora lasciare le poche sicurezze e immergersi in noi. Non penso a come eravamo, ma a come potremmo essere se si volesse. Questo ha avuto effetti nella mia tolleranza verso le compagnie prive di senso, m’annoio sempre più nell’eterno, sicuro, riandare dei racconti. Nella infinita sequela delle gesta dei figli, in ciò che è mancato tra coppie o nell’infanzia, nei rimbrotti di antiche ferite mai chiuse e nell’ilarità dei fatti depurati dai contesti. Ciò che manca in questo raccontare è stato male interpretato? Esattamente come ciò che c’è e che serve a reggere, tener su le storie come un intimo  che fa apparire ciò che non è più o non è mai stato. E così emergono gli amori stabili, ma anche le insicurezze, da mille particolari di paure e di carenze ben celate, di scelte malferme. È andata così, tanto vale farne un racconto celebrativo che addolcisca il presente. Viene espunto l’avventato che aveva prodotto disastri, le tristezze profonde e irreparabili, i motivi veri che avevano condotto alle scelte ritirate precipitosamente, e mi sembra, e sembrava,  una vita blanda, densa di miele che, come i dolcetti turchi aggredisce il gusto, e poi si inghiotte in fretta cercando il pistacchio o la mandorla avvolta in tanta copertura di dolcezza. Il “segreto” è piu vero e interessante, è quello che fa capolino, che scappa nel detto, richiamando l’attenzione annoiata. Cerco quello perché per il resto sembra che le vite spesso si siano già svolte nella parte importante mentre il futuro è lì davanti a noi, apparentemente intonso, ma già gravido dei se, dei ma, delle convenzioni del passato. Mi sembrava, e sembra, un dormire sottocoperta, cullati dal muover di marea e un voler scordare d’essere attaccati alla banchina, mentre il nostro destino è il viaggio.  

Se mi perdevo a leggere questo nei racconti già sentiti come non potevo farlo con il me stesso che conosceva, col mio passato che sapeva come le cose erano andate, cosa mostravo e cosa celavo. Devo ringraziare tutti quelli che mi hanno spinto verso me , e a mollare gli ormeggi in quell’ oceano senza tempo che abbiamo dentro. Mi piacerebbe ci incontrassimo per caso per parlare dei futuri, sarebbe per me bello. Chissà se accadrà.

Il caso sappiamo che ha bisogno d’aiuto, caro Bruno, per lasciare che il racconto si dipani e l’ascolto lo segua, e anche solo per aprire al futuro possibile ovvero a quello che ciascuno di noi porta con sé e non vuol prendere in mano.

È l’augurio che faccio a te e a quelli che con pazienza hanno seguito il disordinato svolgersi dei pensieri: cerchiamo di assomigliarci perché nessuno è come noi.

Con i miei auguri

Willy

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senza tema giovinezza

Ero giovane. Pensavo che in principio ci fosse l’equilibrio di una forza conchiusa in sé, l’ordine racchiuso in un guscio di noce, poi il caos e la fatica del ricomporlo. Non pareva una cosa foriera di autoritarismi, anzi, era un bell’esercizio di libertà. E mi sembrava di avere davvero un inizio a cui fare riferimento. Lo traducevo nello scrivere. Avere un inizio ordinato, forte ed equilibrato. Una frase che da sola riassumesse, senza insegnare nulla, era come aprire una porta per intuire e ragionare assieme. Tutto poggiava sulla solidità della logica e l’imprevedibilità dell’intuizione. Venivano fuori cose assolutamente banali: oggi c’è il sole e non è il solito sole, ho attorno un verde che scende dentro, dell’acqua non vorrei conoscere la memoria ma l’intuizione della sua benefica freschezza, la sete è un sentimento così atavico che saliviamo quando scorre un ruscello e della sete di conoscere che dire, se non la commozione davanti ad una biblioteca, e così via. Un inizio aperto in cui poi accadesse tutto: l’equilibrio dell’energia, la sua esplosione, la faticosa ricerca dei cocci.

Mi sembrava che tutto questo avesse un significato profondo, che interconnettesse tante cose apparentemente distanti, che fosse necessaria della pazienza e si sarebbe compreso tutto. O quasi. O almeno quello che davvero interessava.  Ma, lo ripeto, ero giovane e la tentazione di un inizio fulminante era così seduttiva che alla fine ci cascavo. Cosi tutto poi doveva giustificare quell’inizio, essere all’altezza. Consequenziale. Non era così e allora mi stancavo, mettevo tutto da parte e mi affidavo a tempi migliori, a ispirazioni migliori, a intuizioni migliori.

La liberazione dal tema era già stata percorsa, in musica non esisteva più l’armonia, in pittura e scultura la figura e poi neppure la forma, due guerre mondiali e innumerevoli conflitti regionali avevano decostruito il senso benevolo della storia. Per questo anche la provvidenza era entrata nel welfare. Tutto si spezzettava ed era come fosse avvenuta quell’esplosione di cui bisognava rimettere in ordine i cocci. Solo che questi non avevano più un ordine. Era possibile un’era in cui si riscoprisse un senso, visto che erano i frammenti a contare?

Il momento era il dominus della situazione e non per carenza di tempo. Non era la preoccupazione sulla caducità del corpo e della vita che esprimeva il Magnifico, anzi era avvenuto un fatto strano, la giovinezza si spostava in avanti e, più che fuggire, trascinava tutto. Ma chi era al potere l’aveva gia capito: non era incapacità di guardare avanti, era volontà di perseguire il momento dicendo che faceva parte del progetto. Di fatto non si voleva rimettere assieme nulla, e togliere senso significava dare senso. Ma non era il tuo senso. Insomma non c’era un progetto, un traguardo di cui dire le tappe, gli obbiettivi, e soprattutto erano piu importanti le narrazioni della realta’ stessa. Quindi perché raccontare quando altri lo facevano tanto meglio di me? Per la verita? Ma io lavoravo sulle sensazioni, avevo bisogno di un tutto che le contenesse. E siccome non lo trovavo piu, mi misi a meditare sul quant’è bella giovinezza. Cosi mi scoprii vecchio per il prima e per l’adesso.. 

Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e Arïanna,
belli, e l’un dell’altro ardenti;
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe e altre genti
sono allegri tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati,
ballon, salton tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo,
se non gente rozze e ingrate;
ora insieme mescolate
suonon, canton tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi,
oggi sìan, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi.
Ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Ciascun suoni, balli e canti,
arda di dolcezza il core:
non fatica, non dolore!
Ciò che ha esser, convien sia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

cronache dell’insofferenza

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Mia cara …,

queste giornate di sole invernale seguite dal gelo della notte mi portano su stati d’animo opposti. Cammino, guardo, quando non lavoro e sento che la mia metereopatia si accentua d’inverno e l’umore ne risente. Ma se guardo oggettivamente gli sbalzi d’umore del tempo, la sua apparente stranezza, trovo abbia una  logica semplice e penso che il procedere apparentemente amichevole della stagione non possa essere confuso con altro.  Così credo che i miei umori siano altrettanto semplici e mi parlino con chiarezza di me. Stamattina, mentre pedalavo nel freddo della città, nelle strade che amo, pensavo alle insofferenze crescenti che provo. Alla tentazione dell’isolarsi pur restando tra gli altri. All’apparenza che si deve mantenere per gli obblighi che il nostro “mestiere”, qualunque esso sia, comporta, e ai silenzi che vengono accettati con indifferenza come non rappresentassero un dire. Ci sono delle cronache dell’insofferenza, fatte di piccoli fatti, di atteggiamenti, di distanze, di selezione di amicizie, di rifiuti. Me ne accorgo perché lascio andare, non trattengo, ma ancor più chiudo  ciò che non mi piace. Quello che posso, naturalmente. L’insofferenza di cui ti parlo, è spesso scatenata dalla banalità di ciò che viene proposto, dall’esibire la superficie per mascherare la paura del profondo. Cosi i discorsi divengono vuoti, le cose che si fanno, involucri, e cresce attorno a noi l’assenza di una condivisione. Quello che non si può condividere, è la bruttezza e la vediamo diventare comportamenti, oggetti, case, monumenti, gestione della vita quotidiana. Cosi nasce il brutto banale, peggio del kitsch. Ed solo avidità, incapacità di pensare agli altri e quindi anche a se stessi, difficoltà di capire che noi siamo quello che lasciamo e non quello che teniamo. Pensavo, stamattina, che l’insofferenza costruisce un muro che s’innalza e che isola e che solo la disponibilità all’ascolto può correggere questo rifiutare ciò che infastidisce. Ma per ascoltare serve speranza, e questa ancora non mi manca. Pensavo. E non confondo l’insofferenza con l’indifferenza.

Allora mi è tornata a mente un’immagine che mi porto dietro dai sogni dell’infanzia e che posso vedere nel giardino arabo, nell’hortus conclusus. Forse, il mio è un difetto di fabbrica, una tendenza all’insofferenza. Però questa immagine è forte e bella, e riporta al valore dell’interiore. Hai mai pensato a quanto sia stata svalutata l’interiorità in questi anni? È perché essa non è facilmente riconducibile a un valore economico e porta con sé una forte carica di non conformità o per altro? Diciamo che l’interiore si è pensato fosse surrogabile con altro e che esso venisse comunque fuori, ma in modo accettabile. La pubblicità ci propone il buen retiro come uno status economico, lo dota di piscine e grandi spazi, oppure lo innaffia di liquori costosi, o ancora lo mette vicino a caminetti in soggiorni che non sono nel vivere comune, lo riempie di boiserie che da sole fanno un appartamento più grande di quelli in cui viviamo, ne fa oggetto di ambientazioni da film e serie melò. Sorvola sul fatto che l’interiore non costa nulla e tutti l’abbiamo a disposizione, basta un po’ di tranquillità. E quell’interiore, in me, sta costruendo un giardino che non ha porte, che esige per entrarvi di volontà d’arrampicarsi e di superare l’ostacolo, che conserva e mostra sopra di esso punte d’alberi, ma impone una scelta e una fatica. Non ho usato la parola muro, è una brutta parola di questi tempi, eppure se pensi che la sapienza del costruire è legare assieme le pietre, ti accorgi che i muri cattivi sono quelli invalicabili tra uomini, mentre quelli interiori si basano sulla comunicazione, sul comprendere e quindi diventano ponti quando si ha la pazienza di scavalcarli.

Nei labirinti tracciati sui pavimenti delle cattedrali medievali, c’era sempre un percorso che portava al centro, alla torre della sapienza. Il senso era che dopo molti errori si trovava l’uomo e l’equilibrio del suo cammino. Erano su due dimensioni che attendevano di essere completate con le nostre due dimensioni, ovvero quella della volontà del sentire (il contrario dell’indifferenza) e quella della nostra concezione del tempo. Trovare il centro, come piantare e curare fiori, erbe, frutti nel giardino arabo era -ed è- la condizione del proprio crescere, la dimensione del condividere con pochi l’equilibrio tra interiore ed esteriore, ma anche la necessità di operare perché ciò che ci attornia sia espressione di quell’equilibrio.

Mi dirai che seguo fantasie, che i miei bisogni sono poco adatti a questo mondo così concreto e veloce. Credo tu abbia ragione ed è per questo che divento insofferente, selettivo, silenzioso. Moltissimo di ciò che mi (ci) attornia, si basa su presupposti privi di tempo. La velocità annulla, o vorrebbe annullare, il tempo e quindi respingere la paura della morte. Questo impedisce di comunicare davvero: non c’è tempo.  Pensa a questi giorni convulsi, ai simboli osannati e calpestati pochi giorni dopo. Pensa al fatto che di quelle vite innocenti spente a Parigi, già non si parla più, come se le morti non rilevassero alle vite.  E mi allora ho pensato che questa società non propone la vita anche se dice che vale molto, non propone la bellezza ma la caducità dell’acquisto, propone il potere e la perpetuazione dell’esistente negando così alla speranza una quantità incredibili di energie. Quelle del cambiare, del mutarsi e mutare ciò che sta attorno, pensando che ciò che facciamo non serva solo a noi ma a quelli che verranno.

Faccio queste considerazioni sentendo l’ennesima inutilità della conferenza di Parigi sul mutamento del clima. Non cambierà nulla, come è accaduto in passato e le città, i luoghi diventeranno difficile ancor più, pervasi dalla violenza del brutto che abbiamo attorno. Questo mi genera insofferenza. E la verifico in queste orge di consumi che sono le feste, nei casotti di legno che vendono tutti le stesse cose, in questo tripudio di luci che dovrebbe evocare chissà quale idea di contentezza e del bello. Il natale viene associato alla festa della luce, lascio stare i simboli, ma il corpo sente che il sole ricomincia a rinnovare la sua forza, aspettiamo il calore che non è solo una temperatura gradevole, ma il luogo interiore degli affetti , dei sentimenti, dell’amore. Il pensarlo esigerebbe un senso un po’ più profondo dei luoghi comuni. Un meditare su come siamo e come vorremmo essere, un confrontarsi, invece del mettere assieme senza scambiare, del trovarsi senza essersi cercati. Dovrebbe ma non è così, e allora alla vista di come le nostre strade che hanno una loro consolidata bellezza vengano deturpate, ridotte a gimcane tra paccottiglia e cibo che sta girando per tutti i mercatini d’Italia, mi accresce l’insofferenza e accentua il silenzio.

E l’insofferenza mi porta alla selezione severa delle persone con cui parlare davvero, mi porta alla denuncia di ciò che non riesco più a tollerare, mi spinge a protestare per quanto vedo e sento. E penso sia necessario un manifestare pacifico di diversità, un dar motivo dell’isolarsi che magari sembra assurdo, e che a volte, è percepito come un’offesa nella società che privilegia l’individualismo e l’anomia delle persone. Quand’ ero giovane, provavo cose analoghe però non capivo bene cosa mi disturbasse, ora che giovane non lo sono più, le due dimensioni di cui ti parlavo, il sentire il tempo proprio, le coniugo per mio conto, parlandone a chi ha la pazienza di ascoltarmi, proprio come faccio con te, solo che un tempo pensavo fossero tanti e oggi invece penso che si sia assottigliata molto la combriccola degli insofferenti coscienti di esserlo. Forse per questo si tollera la bruttezza che abbiamo attorno, per non star male, per non ascoltare la bellezza interiore che vorrebbe altro. Altre regole di crescita, altre speranze e un senso di responsabilità nei confronti di ciò che accade che sembra non esserci più. Ieri, su Repubblica, Piketty invitava l’occidente a riconoscere che i guasti che si stanno creando nella natura comune, sono fortemente connotati con noi, con le nostre abitudini, con lo sfruttamento che viene fatto delle risorse non fungibili a solo fine di profitto. Ed io l’ho tradotto in un atto di nichilismo di massa che impedisce di considerare la lentezza, ovvero il tempo del comunicare e del condividere come prioritario e quindi di guardarsi attorno, che trova scuse nell’impotenza e nella necessità e così giustifica tutto. Allora penso che delle molte solitudini che ci sono al mondo, quella di massa è la peggiore, perché è cieca e rassegnata, si conforma a qualcosa che non dipende, che non vuole dipenda, da lei.  E quando penso a questo, allora preferisco avere pochi amici, sognare la solitudine che diventa gioia del riflettere nel giardino arabo virtuale, costruito con la pazienza, la speranza, il silenzio. E in particolare di quest’ultimo non sento più il peso e sento che vale più di molte parole che si spargono senza voler dire.

Questo volevo dirti della mia insofferenza, che come vedi non è particolare e forse è proprio semplice da capire, solo che io l’ho descritta con molte parole, come mi viene e come so dire. Eppure la sento ancora parziale e insufficiente nel dirla, come ogni approssimazione di sentire. Se l’ho tradotta in una lettera è per capire meglio e di più. Sapessi quanti pensieri collaterali nascevano finché ti scrivevo queste parole, se fossimo assieme ti spiegherei meglio, tradurrei in espressioni le parole, ti parlerei con tutto me come quando m’infervoro per la passione che mi suscita un argomento. E il tempo volerebbe, ne sono sicuro, anche se penso che tu guarderesti, scuotendo il capo, le mie dita colorate d’inchiostro e mi ricorderesti che  esistono le biro e che spesso scrivo lettere che non spedisco. Con tenerezza e comprensione, lo faresti, sentendo che è una partita persa il convincermi. E allora capirei che l’insofferenza ha un limite e che ciò che comunica il bene, invece, no. E di questo, ti ringrazierei, grato come sempre e forse ancor più.

dettagli

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Mi diceva che mi perdevo: sei troppo in alto oppure perduto a cercare tra le pieghe, negli anfratti, comunque con la testa perennemente chissà dove.

Insomma non c’era modo di essere adeguato.

Questa cosa dell’adeguatezza, magari con altri nomi, ci veniva insegnata ad ogni piè sospinto, come forse richiedeva il mondo del lavoro al quale eravamo destinati: l’industria. Conformi a qualcosa, ad un metodo, ad una prassi che era poi tradotta da un’altra di quelle maestre di scuola e di vita nell’assioma che ciò che contava era il mediamente giusto e il tempo d’esecuzione. Era un mantra. Non cercare troppo, fai veloce e abbastanza giusto. La teoria del quasi esatto.

Tutti questi maestri che m’ insegnavano a nuotare nella vita non mi salvavano dalla caparbietà ribelli dei miei naufragi E così continuavo a navigare nei particolari. Oppure così in alto che tutto diventava piccino e allora mi pareva di capire il senso di ciò che si faceva e accadeva.

Inadeguato.

Sembrava una colpa, ma era troppo interessante cercare nei dettagli significati rivelatori. Lì scappavano le verità che non si volevano quasi dire, in una sintassi dell’oscuro e della sostanza che sonnecchiava dietro l’apparenza. Era una macrofotografia in cui indagare e che mostrava cosa c’era tra le pieghe. Forse cercavo l’anima nella superficie. Era il contrario di ciò che dicevano i maestri del pensiero arduo e facile, quelli che ascoltavo e quelli che leggevo, ma mi dicevo: e se avessero torto, se in realtà l’anima evaporasse in continuazione come tutti gli altri fluidi e che, come questi, si riformasse, ci sarebbe una ghiandola dell’anima, un ormone che si spande attorno e induce a capire cosa proviene da dentro. Forse  era così. Mi pareva. E intanto guardavo affascinato gli ingranaggi che si muovevano in un nitore stupefacente di moto, la leggera patina di olio che luccicava, lo sfilacciare delle gomene delle barche al mare, l’infinita esattezza delle conchiglie, l’avvolgersi spiraliforme dei gusci marini, le striature precise e conformi alla bellezza dell’insieme.

E tutto questo mi pareva fosse una dimostrazione di un equilibrio tra dentro e fuori, un trasudare inconsapevole di esattezze interiori. Ecco, mi interessava l’esattezza interiore che, al pari di una qualsiasi età dell’oro, ci portavamo dietro. Non era l’esattezza dei numeri, ma quella delle cose che s’incastravano.  E questa esattezza intrinseca doveva uscire in qualcosa di definito, di particolare. Non poteva essere dappertutto e di tutto, era un pressappoco di una esattezza sotterranea che non si piegava alla sovrapposizione dell’apprendere, neppure a prezzo di enormi sacrifici che travisavano la naturalezza. Le cose si lasciavano sfuggire particolari, dettagli e c’erano senza sforzo. L’insieme li ricomprendeva, li fondeva in masse di colore che davano il senso, la direzione. Come in quelle foto in cui si vede una folla e poi con la lente si scava sino a cogliere l’espressione della persona. Il tutto e il particolare, quello che stava in mezzo era importante all’economia, ma non per capire le cose, e in fondo neppure serviva per decidere.

Non ho perso il vizio anche se l’ho corretto nell’apparenza, così non sembro sempre perso altrove. E quando all’olimpiade vidi Yuri Chiechi che faceva delle cose mirabili con il corpo in equilibrio sul nulla e non sbagliava il giusto tempo di esecuzione, mi dissi che quella era la fusione del generale e del particolare, del tempo e dell’attimo, ma che occorreva un grande esercizio dello spirito per renderla conforme. A cosa?

Alla bellezza interiore, ovviamente.

del rapporto

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del rapporto si conserva il giusto, apparentemente nulla, a volte. ad un certo punto le braccia si sono fatte dure, stecchi rivolti a un cielo che non preannuncia. La ginnastica del cuore riabilita la morbidezza. Ne tiene in giusto conto, il limite. Non s’arrovella sul passato che giace, orologio rotto, ai nostri piedi. Abbiamo, non abbiamo, fatto il necessario? C’è una teologia del fare e del possibile speculare a quella dell’attendere un fato.

Scrivere mantra è sempre un utile esercizio per dare un senso alle spirali che percorriamo. Qual è il loro senso, verso l’esterno infinito oppure nel profondo, all’indietro, verso l’origine?

Lì un giorno sono stato, eppure di quel giorno è rimasto non il luogo, ma la presenza. Come i viaggiatori dovremmo davvero innamorarci dei luoghi e delle persone, non lesinare gli addii della voce, se questo era già scritto. Tenere il molto che riceviamo invece, nel cuore, con la cura degli oggetti che prefigurano divinità. E lasciare ch’ esse agiscano nel profondo. Ma non possediamo la sublime modestia del viandante, il suo acume quieto. Così quando leggo di un disagio che prende alla gola, che le persone si allontanano, e si preannunciano stanchezze interiori, foriere di giorni grigi e inconosciuti, vorrei dire che ci sono sempre braccia attente, che ciò che è in pericolo, di fatto se n’è già da tempo andato, che tenere è un’arte difficile perché non trattiene ma custodisce.

La domanda forse era: perché tutto ciò accade? Perché è la vita ed essa impone, quasi sempre, il suo tempo al nostro. Perché non sappiamo davvero nulla che ci ponga al riparo dal disamore, non abbiamo ricette e le soluzioni sono sempre parziali, ma l’esserne consapevoli fornisce qualche strumento in più. Di qualcuno ho ammirato svisceratamente il coraggio, di altri sento, nelle parole, la paura che precede l’ignavia, in altri ancora una consapevolezza dolorosa che getta dentro un vortice da cui certo si esce mutati nel profondo. Volevo dirlo, con parole di vicinanza e non ci sono riuscito. Ho tenuto cari pochi amici, di loro posso dire che non cessa il confronto sul presente e sul futuro. Altro non so, ma chi non ho trattenuto dialoga con me e se non penso sia una questione di reciproche responsabilità e colpe, so che potrà accompagnare il ricordo d’aver vissuto. Non altro, ma è già davvero molto.

15/11/15

Non è facile pensare. Neppure dopo due giorni. Aleggia un senso di scoramento, assieme all’intelligenza di non avere riferimenti. Neppure le parole sono più certe. Che significa terrorista se non è evidente il fine del terrore? Oppure il terrore ha un significato in sé e si ferma ad esso? Pensando al passato il significato traballa, si disgrega. Che mondo abbiamo contribuito a creare? È certo che siamo tutti coinvolti, ma non abbiamo la stessa percezione, la stessa cultura che indichi soluzioni comuni. Vicino e lontano diventano categorie della solidarietà, dell’amore. Ma così vincerà l’improvvisazione e l’approssimazione di chi ci comanda, trionferà il relativo, la vita perderà valore mentre si useranno le parole di prima. Si parlerà di certezze e di esattezza mentre esse sono in elaborazione, anche il fine, o i fini, si costruiranno in corso d’opera. Insomma non ci sarà verità e neppure la sua ricerca, e così saremo tutti più insicuri.  È la precarietà che ritorna dopo che si pensava di averla sconfitta negli animi ed ora ci investe ed assume i connotati della modalità del vivere.

Allontano, non ci penso, rimuovo. 

Così ad uno ad uno, ci separiamo sperando tocchi ad altri, sperando sia lontano. Emerge ancora il lontano come misura del vivere tranquillo, ma così nessuna causa, sarà degna d’essere combattuta, l’importante perderà significato mentre ci si allontana. Perché accade? Avevamo a disposizione 25 secoli di pensiero, 70 di storia. Avevamo a disposizione il mito e la sua buja ripetitività nelle menti. Avevamo i testi scritti, si sapevano le implicazioni. Due secoli di sociologia inutile. Psicologia da gettare. Ci siamo fidati della potenza e del potere, del denaro e della tecnologia invece che indagare nella poesia e nel disagio. Chi è sicuro nel suo letto, ora che il bujo non resta oltre gli scuri ben serrati?

Ho fatto i gesti pieni di simbolo, ho acceso una candela sul davanzale. Anche stasera. Ma so che chi dovrebbe vedere non vedrà, che molti passeranno indifferenti, che dirsi francesi non serve a nulla.

Chi capisce ha paura. Come cuccioli ci stringiamo per sentire il calore dell’altro, cerchiamo il corpo vivo che significa sentimenti e amore disponibile per noi. Vicini, vicino.

Le foto sui giornali (i nostri giornali perché per altri sarà tutto distante), le immagini televisive mostrano corpi nel freddo delle vie, luci che lampeggiano, uomini che si muovono in fretta, fatalità che colpiscono. È questa insicurezza che sgretola il mondo. Quello vicino. Non nobis domine. L’invocazione funziona a senso unico, è l’impotenza. Viene distanziata anche la fortuna, anche la possibilità cessa d’essere intera: basta non tocchi a noi.

Dimenticheremo presto, perché vogliamo dimenticare. Resteranno numeri, date, e le vite perderanno consistenza. Penseremo che il caso, solo esso, le ha messe nel posto sbagliato, nell’ora sbagliata. Resterà l’inquietudine. 

È così enorme l’inconosciuto che deriva da ciò che non si è fatto, da ciò che si farà, che solo la speranza ci potrà dare l’illusione che il mondo muti. Che il mondo si metta in ordine, il nostro ordine, senza che noi facciamo nulla.