la mia città e la bellezza

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Camminando per strade e piazze, riconoscendo luoghi, storie, godendo della bellezza che si è accumulata in quella che chiamo la mia città, sento che non è questione di merito e che nessuno di noi si merita ciò che gli riempie gli occhi e il cuore. Al più è stata fortuna d’essere in un luogo in un certo tempo, ma cosa abbiamo fatto per meritarcelo semplicemente non esiste. Quindi tutto questo non è dipeso da me o dai miei concittadini che vedo attorno. Neppure questa lingua bella e dolce è dipesa da noi, al più possiamo parlarla, trasmetterne la bellezza, ma non è un merito. E’ stato il caso unito a una serie infinita di fare e non fare che ha generato e mantenuto palazzi, strade, persone. Sono stati moti d’orgoglio, potenza, pietà, munificenza, paura, stupidità, insipienza, desiderio d’immortalità che hanno generato e tolto, ma basta seguire i passaggi di proprietà, testimoniati dai nomi delle case, per capire che chi ora possiede, al più è un custode. Ci sono 641 dimore storiche in città, gran parte sono gelose di sé e non si mostrano, ma questo poco importa perché c’è sempre un’evidenza che non si può nascondere, una curiosità che viene sollevata, e poi, col tempo, le porte si apriranno, perché se la bellezza non si rivela lentamente si banalizza, se non costa fatica non è preziosa, se non si indaga diventa apparenza.

La chiamo la mia città ma in realtà sono io che le appartengo ed è lei che dona a me affetto e bellezza. Al più posso un po’ amarla e se, con pazienza e attenzione, potrei tracciare la mappa di ciò che mi attrae, delle vie che conosco, delle sue opportunità, delle coincidenze, se potrei raccontare quello che so, e soffermarmi nel mistero di quello che ignoro, capisco che comunque sarebbe la mia interpretazione della sua bellezza, solo una piccola parte della sua. In questi luoghi si sono concentrate forze e ignavie immani, come dappertutto, ma ognuna ha avuto una storia propria e solo messe assieme hanno generato una bellezza specifica, non generica. Una identità. Se dicessi di ogni luogo amato sarebbe il mio modo di vedere, la mia concatenazione dei fatti, ma non cambierebbe di molto la percezione di gratuità del godere ciò che ho attorno. La fortuna è vedere ciò che c’è e lasciarsi prendere, senza ritegno e senza merito. 

l’odore della bachelite

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Ho preso un vecchio Luxman analogico, l’ho collegato con un sintonizzatore Sanyo, di molti anni fa, con una sintonia a condensatore variabile e l’ago demoltiplicato che corre su una scala grigio verde azzurra illuminata, ho aggiunto un vecchio lettore di cd per musica che mi segue da 25 anni, lamentandosi appena un po’, infine due Kef per sentire e ho spento la luce. Così la magia si è compiuta. Un suono caldo, ricco di armoniche, si è diffuso con le Suites per Cello di Bach, e nel buio, lo strumento sembrava a un passo. Poi il piano di Ricter, la voce di Diana Krall, quella di Jessie Norman. Tutto così datato, ma preciso, brillante. E la memoria è corsa indietro, alla mia prima radio a valvole, una Minerva, all’odore di legno e di polvere scaldata che emanava, all’occhio magico verde della sintonia che mi sembrava quello di un rettile assonnato.

Non volevo ricordare per forza, è venuto. E così è riemerso l’odore della bachelite con cui facevano i condensatori, un odore di liquirizia tostata, acuto e fermo nell’aria, persistente. Forse esistono i sommelier del passato, quelli che, come si fa col vino, possono raccontare come si sono fusi i profumi, passando dalle vite attorno alle cose e dando loro un nome e un posto nella memoria. Chissà se ci sono, magari tra i vecchi antiquari, ci sono quelli che davvero sentono oltre l’oggetto, oppure tocca a noi e solo noi possiamo farlo. Chissà…

E intanto nel suono e nel buio, c’era anche la vecchia casa, un rumore tenue di cose che accadevano dietro porte di legno pieno, fessure di luce, presenze e profumi nel ricordo. Come fosse ora.

“piccoli maestri”

Oggi è iniziata a radio 3, la lettura ad alta voce dei Piccoli Maestri di Meneghello. Ho amato questo libro, e pure molto, per il contenuto, la scrittura, la lingua e per l’apparente semplicità. Sembrava mi parlasse direttamente, come  accade tra amici nelle sere in compagnia, dove si cena e poi si racconta. Forse l’ho letto nel momento giusto, quando potevo capire, cambiare, sentire che c’era un senso a quel resistere prima, e al resistere poi, con molte mancanze e umanità. L’umanità è quella cosa che uno si sente addosso e che gli fa sentire gli altri oltre sé, è piena di sbagli, ma ha una direzione, è come se sapesse che qualcosa è giusto, e lo fa, ma senza forza o cattiveria, perché è quello che si deve fare anche se non si sa bene cosa ne verrà.

All’inizio Meneghello dice: non eravamo buoni a fare la guerra. E dirlo è un amore per la pace, non per la quiete, un fare quello che è giusto.  Forse questo non lo capirono quando il libro venne pubblicato. C’era la retorica della Resistenza, che era rossa o non era. E anche per me era così, perché vedevo che i partigiani rossi non avevano fatto carriera, non occupavano i posti importanti dello Stato, non erano a capo delle aziende pubbliche, erano tornati a fare gli operai, i muratori, i contadini, oppure se facevano politica erano  funzionari di partito, con la miseria sempre a un passo. Quindi chi aveva pagato di più non erano i borghesi, i professori, ma la povera gente e così mi pareva che la Resistenza degli altri fosse meno importante, meno resistenza perché non aveva in sé il riscatto, il cambiamento. E senza cambiamento, tutte quelle speranze erano state tradite. E si vedeva, oh sì che si vedeva, perché se c’era il miracolo economico, non erano poi cambiati i rapporti di forza tra chi aveva e chi non aveva. Con una testa così confusa, mi sembrava naturale parlare e sentire un tradimento della Resistenza, come cosa vera, ma anche di sentire la necessità di un riscatto, di un completamento oltre la retorica. Ma forse era una cosa mia, perché altri avevano già superato tutto e quella retorica la consideravano come una palla al piede e un’ incapacità di leggere la realtà.

Piccoli maestri  mi aiutò a capire che la Resistenza era rossa per tutti quelli che l’avevano fatta e scoprii l’importanza del Partito d’azione, che non c’era più, ma era un assente-presente nella vita pubblica. E quando un azionista di allora, pur confuso, parlava della sua Resistenza, senza grandi eroismi, ma forte di necessità, mi sembrava che raccontasse un pezzo della verità che mi riguardava. Che riguarda questo Paese anche adesso. 

Piccoli maestri è un libro che ha 50 anni, eppure dice ancora molto. Solo che non si legge, oggi si cerca altro. Alla mia generazione, poteva dire di più, e se non dice nulla ai nostri figli, è colpa nostra. Il rosso della primavera, è diventato grigio, non abbiamo comunicato passioni che servono. Queste cose però basta leggerle, a questo servono i libri. Qualche anno fa, ne hanno fatto un film senza nerbo, girato anche nella mia città, forse non hanno capito che non c’era nulla da dire e molto da sentire, che le vite sono tali quando si vivono, che sono i sentimenti che devono emergere, ma questo non fa scena. E se gli eroi erano persone comuni, cosa volete che ci fosse da raccontare quando combattevano e desideravano la pace, quando cercavano di assomigliare a quell’umanità che avevano dentro. Niente, che fosse così importante da cambiare davvero tutto, però le vite le cambiava, eccome se le cambiava. Ecco, Meneghello era bravo a raccontare com’era cambiato, come aveva fatto Fenoglio, Calvino, Levi e qualche altro. E questo mi piaceva, perché mi diceva che fare ciò che si sente, ci fa assomigliare a noi stessi e ci cambia da come ci hanno indottrinato. E’ un metodo che vale sempre, anche adesso, forse per questo sarebbe una buona cosa che chi è giovane lo ascoltasse leggere e magari lo leggesse. 

distanza

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Il reale, di se stesso è ossimoro,

e non se ne vergogna,

anzi del suo opposto si fa beffe.

Così la vita tua si svolge,

anzi si dipana,

distante dalla cura mia,

e quella che metterei,

diviene racconto, parola,

gesto tenero e lontano.

Ora il reale,

contiene ogni ossimoro,

e si beffa d’esso,

e d’ogni suo contrasto.

E così, d’ogni tenerezza.

 

i treni passano, è la voglia di viaggiare che conta

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Ci si chiederà come nascono queste riflessioni che sembrano non avere un contesto e che, molto spesso, sono pensieri conosciuti, cose che ognuno di noi pensa. Nascono dall’osservare, conversare, dai racconti di altre vite che mi inducono a ripensare alla mia e così diventano un esame delle mie scelte e contraddizioni. Dirlo in modo assertivo può dare una patente saputella che non c’è, non ci sono verità assolute, solo il riesame di ciò che davvero significa il tempo, ciò che è agire e ciò che invece essere agito. E quanta felicità questo mi genera o mi sottrae. In fondo la triade: tempo, possibilità, felicità la si trova ovunque nella vita e come al solito bisognerebbe chiedersi cos’è che apre e cos’è che chiude, per capire se la felicità può entrare o meno.
C’è una notizia buona e una meno buona. Quella meno buona ci dice che le occasioni (e quindi le scelte) per quel futuro, proprio quello, ci sono solo una volta. Quella buona ci dice che si presentano in continuazione. Non sono le stesse, magari si assomigliano, ma saranno altre, comunque nuove. Chi preferisce aspettare indefinitamente è un indeciso o un perfezionista, entrambi condannati all’insoddisfazione. Chi prende tutto quello che passa è un bulimico che non gusta più nulla e non discerne. Chi a volte prende e a volte se lascia scappare l’occasione, è normale. Ma tutti siamo sollecitati da questo miracolo dell’essere sorpresi. La scelta è tra un essere presi da qualcosa che è un futuro concreto (sia esso immediato, prossimo o lontano) e comunque possibile, oppure rifiutarlo. La scelta è sempre binaria, le scelte a mezzo sono piccoli rifiuti. Poi le cose non vanno come si pensa, deviano perché altre scelte vengono fatte, perché le sorprese non necessariamente saturano il desiderio, al più rispondono al bisogno, ma ciò che accade è qualcosa, anche quando è stato favorito, che è in sostanza inaspettato. Chi non è meravigliato dalla possibilità ha già scelto, e di fatto non ha creato nulla di nuovo per sé. E questa è un’altra parte della scelta, ovvero la novità, ciò che ci può cambiare. Si dice che i treni non passano due volte, se così fosse gli orari ferroviari sarebbero inutili, ci sarebbe qualche scontro inevitabile, anche se sarebbe interessante andare in stazione e prendere il primo treno che incontra il nostro favore o desiderio. E il desiderio d’essere altri e il bisogno di nuovo, di viaggio dentro e fuori di sé, in misura diversa sarebbero soddisfatti. Se guardiamo bene, nessuno davvero è in grado di vietarci questa esperienza che confiniamo nel sogno. Pensateci e scartate una per una le impossibilità trovando soluzioni, vedrete che non è impossibile. Ma questo ci riporta al fatto che se quel treno, quell’occasione, non passeranno più epperò altri ne passano, cosicché la vita può essere intesa come rimpianto di ciò che poteva accadere e non è successo oppure come possibilità che succeda qualcosa che ci muta perché corrisponde alla nostra scelta e quindi a noi. Se vado in un centro commerciale, le scelte mi stancano, sono sollecitazioni multiple a desideri poco strutturati, sollecito il desiderio che non avevo, attraverso un essere attraverso le cose o l’apparenza. Se parto da casa e acquisto ciò che già desidero, una soddisfazione intrinseca mi prende. Non sono stanco, sono contento perché ho già un possibile mio futuro in mano. Uscendo dalla banalità dell’esempio, ciò che penso è che in realtà è l’uso del mio tempo che in fondo è in gioco e quanto di questo tempo corrisponde a ciò che faccio e scelgo. La scelta, il prendere quel treno è un uso forte del mio tempo che diventa vissuto, non un tempo che mi è fatto vivere da altro che non sento mio. Poi anche il nuovo diventerà abitudine, comunque non è più tale se non ha la capacità di rinnovarsi, di ricrearsi, di essere vivo, insomma. Però se considero che io uso il mio tempo attraverso le mie scelte e lo determino e da esso mi lascio determinare perché si conforma a me, anche attraverso il contrasto a ciò che non mi piace, che non mi si confà, comunque lo vivo. E’ allora che mi accorgo che il tempo cronologico conta poco, che il mio tempo è ciò che scelgo, che le occasioni continueranno a presentarsi e che io potrò vederle e scegliere se esserci o meno. Ecco questo mi pare che sia davvero una meraviglia e che che nella sua gratuità, ci chieda unicamente di vivere approssimandoci a quello che davvero siamo, a coincidere e a godere di noi, del molto che abbiamo e riceviamo in continuazione.

piccola patria

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Molti, quasi tutti, vanno in bicicletta o a piedi: studenti, avvocati, professori universitari, professionisti, artigiani e massaie. Altri in suv. Ma quelli sono commercianti, persone in cerca di evidenza facile, nobili più o meno decaduti con palazzo in centro,  personaggi con capitali strani, foresti. La città storica è piccola, si percorre in mezz’ora, ed è un gusto andarci tra portici, piazzette, caffetterie e tavoli all’aperto, monumenti e palazzi. Molti palazzi e monumenti, che si sovrappongono come nei dipinti del ‘300, che trovi nella basilica o nel Salone, ce n’è uno di Altichieri da Zevio, bellissimo, nella cappella del beato Luca Belludi, che mostra il Santo e la città zeppa di case, con quella prospettiva piatta che dà un senso di folla curiosa e un po’ meravigliata, solo che non ci sono persone ma palazzi, strade, piazze e torri che si accalcano entro mura turrite. Una sorta d’isola in mezzo a una campagna che accoglie e converge come un abbraccio. Dentro le mura del ‘500 è un addensarsi di case e se si vedono dall’alto, a malapena si indovina il cardum e il decumanum romano, perché la città c’era prima di Roma e perché non fu mai un accampamento, e così le strade si muovono a raggiera, a ellissi larghe, ristrette dai portici, ma anche allargate da essi per chi cammina. Ci sono strade in cui pedoni e biciclette si mischiano allegramente, altre in cui c’è un caotico flusso che dipende dalle ore e dagli spostamenti, le auto sembrano in più, servono per tornare a casa quando si è andati distanti, ma poi il piacere è muoversi con la fretta che consente un corpo. Non sono mai sufficienti le rastrelliere per le bici e le piste ciclabili stanno decadendo da quando è arrivato un sindaco che non capisce perché foresto, che sente le ragioni dei commercianti e molto meno quelle di chi non vota, come gli studenti. Qualche anno fa proposi al rettore di fare un campus per la facoltà di medicina fuori città, mi rispose che non era il caso e che l’università era un campus urbano come accade ad Oxford o Cambridge. Aveva ragione lui sul campus, del resto quasi 70.000 studenti non sono pochi in una città che ha 200.000 abitanti, ma aveva torto pensando che fosse come nelle città inglesi dove è l’università la principale struttura urbana e il centro di pensiero anche economico. Qui, come a Bologna, ci si vanta dell’università, ma poi si pensa ad altro, spesso la si sfrutta. L’alma mater è al più matrigna per l’ industria e indifferente alla tradizione commerciale millenaria. Una economia miope e spesso arrogante oltre che lagnosa, fatta di parole e poca generosità. Non è un caso che gli ultimi benefattori si siano estinti nei primi anni del secolo scorso, questo ci dice che dopo lo splendore degli anni della repubblica e del principato, la lunga dominazione veneziana non ha generato una stirpe di munifici ricchi, ma circoli chiusi e gelosie. Eppure c’è un’aria che altrove non si trova. Non quella inquinata che si respira, ma l’idea che possa accadere qualcosa di grande, di bello, di adeguato a un destino che punta in alto. Questo non vedere l’alto è tipico di chi guarda con troppa attenzione ciò che vende e più per il guadagno che per la sostanza, ma mi ostino a pensare che in un qualche momento ci sia chi comincia a guardare innanzi e vede che la civitas è un insieme unico se ne facciamo parte non se si vive di rendita. E’ chiaro che sono di parte, amo troppo questa città, ne ho la sensazione tangibile quando ci cammino, quando vedo luoghi in cui sono cresciuto e che hanno acquistato la giusta dimensione capendo col tempo, cosa si è pensato e cosa c’è stato tra queste mura, ma non è solo un amore fatto di appartenenza, è il piacere di tornarci, unito alla capacità di vedere difetti e limiti. Da molto tempo l’industria delle lapidi per gli uomini illustri langue, con fatica si trovano qualità importanti per dedicare una strada, le stesse glorie accademiche si sono rarefatte. Come per gli uomini, le città vivono se si aprono, se guardano lontano, ora il periodo è indeciso tra una micragnosità di piccole ricchezze tenute strette e il volo di chi vorrebbe un respiro possente che indichi al mondo che di cultura, di ricerca, di saperi, di scoperte ci si alimenta e vive. Quando ci penso mi dico che finché ci saranno biciclette e persone che vanno a piedi c’è speranza che questo vedere prenda il sopravvento. Lo so che è così, perché chi cammina ha tempo per pensare e chi pensa riesce a vedere oltre, ha una meta, che è non solo la strada su cui cammina.

fuori tempo

Insegnavano a non chiedere più di quello che veniva detto, a non fare domande dirette. Così la curiosità pian piano, prendeva un’altra forma rispetto a quella immediata. Si nutriva di particolari e si temperava nella pazienza. Anche parlare secondo un ordine veniva insegnato, anzi si imparava più il silenzio che la parola, sopratutto quella impetuosa, se si era con i “grandi”, però si notava che, pur in una gerarchia d’interesse, chi parlava aveva attenzione. Non sempre, ma certamente più di quanto oggi si pratichi.  Si parlava molto poco di sé e troppo spesso d’altri, anche se sfumando e lasciando intuire. A certi discorsi i bambini venivano allontanati. Non credo per particolari pudori, ma perché “putei e colombi smerda ‘e case” Cioè bambini e colombi…ecc. Andava bene così? No, non tutto almeno, però s’imparava ad ascoltare e a dare importanza a ciò che veniva detto. E sopratutto taciuto. E il momento vero dell’iniziazione era quando i “grandi” non erano più tali perché ti ascoltavano. Non accadeva di colpo, c’era un periodo in cui si scopriva che l’attenzione non era più distratta, che diventavi interlocutore. Un riconoscimento d’importanza, insomma, che aumentava molto l’autostima e il ruolo.

Forse per questo mi suona sempre strano, il dove sei, cosa fai, con chi sei?  Non perché abbia reticenze, ma perché penso ancora che dire di sé sia una facoltà che si dona all’altro, un gesto libero e quindi senza bisogno di richieste. Ma mi rendo conto che sono il prodotto, neppure ben riuscito, di un’altra era, e quindi chiedete pure, al più non rispondo.

l’uomo della pioggia

Ha cominciato a lavare la camicia come facevano le lavandaie di un tempo, solo che non aveva un fiume a disposizione, ma una piccola bacinella di plastica e la rastrelliera delle biciclette davanti alla chiesa dei Cappuccini. E intanto pioveva a raffiche mentre lui lavava immergendo nella bacinella e sbattendo sulla rastrelliera. Era a capo scoperto e cantava in una lingua che sembrava chiusa in gola, fatta di vocali buttate in mezzo a consonanti di saliva. Cantava strascicando le parole, come ad ascoltarne il suono, e lavava sotto la pioggia. Nessuno chiedeva. Il piazzale era vuoto. Tutti giravano al largo sotto i loro ombrelli. Vedevo che molti di questi ombrelli erano variopinti, come a ingraziarsi quel cielo grigio e forte di vento che strattonava le tele e faceva procedere di sghimbescio. I cestini erano pieni di ombrelli rotti, di stecche piegate, di molle ormai senza senso, di manici nuovi su aste spezzate. Poi ha preso da un sacchetto giallo, ch’era dentro a una cassetta da frutta messa a mò di cestino su una bicicletta, una coperta, l’ha stesa sul selciato tirandola bene, in modo che non facesse pieghe. Come un tappeto. La coperta era consunta, di quel colore nocciola che andava di moda un tempo, ed aveva qualche strappo che lui accostava per coprire la pietra sottostante. Poi, sempre sotto la pioggia s’è accoccolato sui talloni continuando a cantare. Allora ho visto due cose distinte e notevoli: il volto, che era abbastanza giovane, con una barba nera più da carenza di cura mattutina che di scelta, e gli occhi che guardavano ostinatamente verso il basso. Il viso forte, poteva essere di chiunque, solo che questo era bagnato fradicio, rigato in continuazione di gocce e chiuso al modo circostante, ma, pareva, non a sé e al suo pensiero. L’altra cosa che ho notato era la direzione della coperta. Era rivolta verso sud sud est, la stessa direzione del vento ch’ era girato. Poi dalla posizione accoccolata ha posato le ginocchia, e allora ho pensato che si sarebbe allungato in avanti con le braccia tese fino a posare la fronte, e invece ha preso il sacchetto giallo e in ginocchio, sempre sotto la pioggia, con cura ha cominciato a piegare le poche cose che aveva. Come a metterle dentro un cassetto che profumasse di lavanda, di legno, di casa. Per ultima ha piegato la camicia lavata e poi col palmo ha preso la pila delle sue povere cose infilandola in quel sacchetto giallo. Solo allora si è alzato e ha ripiegato la coperta, ancora cantando tra sé e sempre con le persone che giravano al largo. Potrei raccontarvi il resto, ma non avrebbe molto significato. Però vi dico un pensiero che, brevissimo, mi ha attraversato allora: quello era un uomo come me, con una sua solitudine grande. Si teneva a galla con qualcosa. Come facciamo tutti. E non lo meritava. Nessuno merita la solitudine. Ho ripensato ad altri luoghi, ad altre solitudini e mi sono sentito più solo.

inadatto

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Ho preso un pennino largo, non troppo però, un inchiostro comprato a Praga in anni senza luce. Ho arginato i ricordi, eppure ce ne sarebbe da dire, ed ora guardo il tratto che prende possesso della pagina, la scia che asciuga rapida, l’azzurro “brillant” che ne resta. Per essere efficaci bisogna scrivere cose brevi, frasi icastiche, sapere che qui tutti possono leggere. Per avere l’attenzione bisogna sollecitare ciò che è conosciuto oppure sonnecchia e s’agita dentro. Il dubbio deve restare generico, la domanda personale mai troppo intima. Rispettare le regole dell’immateriale dove vanno bene gli stati d’animo, non le anime, che al più, occhieggiano. Come stai? Cosa pensi? E il resto? Non conta, davvero non conta, nello storytelling tutto si consuma subito, anche crudo, ma al banco, non con candele e atmosfera, sguardi negli occhi, comunicazione multi canale, quella è altra cosa.

Non stai scrivendo un romanzo, perdio, e neppure un diario. La comunicazione è una scienza, beh magari proprio una scienza in senso galileiano no, però ha delle regole. E delle eccezioni, vuoi lavorare solo sulle eccezioni, bah…

Se penso che le parole sono nate per descrivere il simbolo e ciò che lo genera. Che oltre ad essere più rapide della paura hanno la lentezza del fuoco governato. Che hanno la pazienza dell’estrarre, del confacere, perché i gomitoli non s’aggrovigliano per caso e c’è un ordine interiore. Se penso a tutto questo, allora capisco che l’utilità è facile e il piacere è difficile. Che questo si può condividere con fatica perché in sé inutile. Che ciò che facciamo, apre o chiude. Tutto. E’ semplice no? Cosa apro e cosa chiudo? Mi isolo o accolgo? Capisco che la “sequela mundi” non è solo il conformarsi, oppure il guardare, l’apprendere, il fare nostro, ma mettere in discussione ciò che lo muove per permettergli di aprire, di procedere. Però se questo è un mondo apparentemente aperto e in realtà chiuso, capisco d’essere inadatto, ma l’essere inadatto ha significati differenti e, a volte, si traduce nel piacere dell’inutile, nel non assomigliare, nel dire che chi capisce è nel cuore.  Per quanto, vale, nel mio cuore, ma v’assicuro che per me vale molto e tanto basta. 

l’entomologo

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Se la pelle è di vetro, si impara a difenderla bene, mai abbastanza però. Ci si applica come si può, chi è fragile è spesso anche ingenuo e non diventerà mai furbo. Però impara ad occultare quel tanto che consente la vita. Se si è fragili è facile essere feriti, è una banalità. Ed è pure banalmente indifferente pensare che a chi accade si sviluppi una sorta di abitudine. No, al più nasce la difesa del ritrarsi e lasciar trasparire poco. Oppure si può scivolare nel cinismo, ma quella è una malattia che uccide anzitempo e chi è fragile non ha voglia davvero di non sentir più nulla. Almeno il pessimismo  ancora conserva la capacità d’essere stupiti dal contrario di ciò che si prevede, no, il cinismo è proprio l’incapacità che qualcosa sia positiva e riattivi lo stupore del mondo, insomma non è cosa da fragilità di sentire.

C’è però una similitudine che attrae chi per noncuranza viene maltrattato ed è quella dell’entomologo che osserva, classifica, mette sotto teca e ragiona sulla meraviglia inanimata. Affascina il guardare le cose da distante, l’ordine e il ragionare per classi e sottospecie. E’ apparentemente freddo il mondo dell’entomologo, però attrae come liberazione dal soffrire. Si pensa che il rischio si distribuisca nell’attimo dell’etere e poi della formalina, poi tutto è fermo. Ma poi non resta nulla di ciò che prima palpitava, l’attrazione e il pensiero che essa suscitava. Solo la bellezza dei colori, la finezza delle ali, l’immaginazione che tutto questo era leggero e volava. Per questo chi conosce la fragilità del volo, pur nella tentazione, rifiuta d’essere entomologo di altri, sa che per difendersi non bastano le classificazioni, ma casomai volare altrove e più alto. Siamo così imperfetti nel fidarci che nessuna esperienza può davvero far da guida e il prezzo della vita è un compromesso tra una corazza e una leggerezza che consentano di essere liberi nell’universo. Se la pelle è di vetro rafforzare la libertà di dir di no è già un buon compromesso per discernere ciò che poi conta davvero.