Mi rendo conto che può sembrare una sciocchezza, che ci saranno mille cose più importanti e mille motivi per giustificarla, ma il fatto che uno dei più grandi direttori d’orchestra del ‘900, non ci sia nella serie di Repubblica e che assieme a lui ne manchino molti altri, che non ci sia un criterio di scelta, insomma una sporca ragione, la dice lunga su come si muove l’industria che vuol essere culturale. Chissà che problemi di diritti ci saranno che non sono compatibili con i due euro di vendita. Chissà chi ha scelto e quali limiti gli sono stati dati, visto che in quei due euro ci deve stare pure il guadagno oltre al costo. Chissà che sia così, perché se fosse una dimenticanza sarebbe peggio. Ma per favore, lasciamo stare l’idea che ogni cosa fatta da un grande gruppo sia oggettiva, rappresentativa o assoluta. Lasciamo stare perché come ci si accontenta di molta informazione senza approfondire, così si prende per buona la rimasticatura d’altri. Nel bisogno contemporaneo d’assoluto, che pure sembra inarrestabile, si trascura e si espunge, semplicemente perché l’assoluto vero costa troppo. Fosse solo il tempo di leggere e capire, farsi una propria opinione motivata, discuterla e imparare, costa troppo.
n.b. Il direttore è Carlos Kleiber, riconosciuto come tra i più grandi direttori del ‘900. Ma mancano ad esempio, Toscanini, Walter, Ormandy, Ansermet, Stokowsky, Mengelberg, Klemperer, Harnoncourt, ecc. ecc.
Ci sono conversazioni in cui prevale la ricerca di dire qualcosa di neutro che riempia l’aria. Questi non rapporti veri sono continue piccole apprensioni seguite da momentanei sollievi. Si spera che detto qualcosa altri continuino, come quando si spinge un auto con la batteria scarica e si spera che dopo resti in moto, ma invece dopo pochi passi questa si ferma e allora si ricomincia. Il sollievo è che finisca una situazione che ci fa chiedere cosa ci facciamo lì. Insomma che accada qualcosa: il decollare della conversazione, il silenzio, un imprevisto. E fino al commiato, qualsiasi di questi futuri possibili racconta che il proprio tempo è stato mal speso. Ma in quest’epoca, l’arte della conversazione leggera è ora destinata ad altri luoghi che non sono il parlare tra un divano e una poltrona. Facebook e i tanti posti virtuali sono a disposizione, per dire del nulla che si vuole trasmettere per ottenere che qualcuno ci ascolti. Eppure non siamo nulla. Dev’essere che nessuno ascolta più e vorremmo avere l’attenzione sempre e comunque. Un tempo non era così, l’attenzione arrivava con un po’ di autorevolezza, alle cose futili, al tempo, si riservava il non voler mostrarsi. Adesso nei salotti virtuali ci si mostra senza ritegno e la futilità diviene una qualità. Per fortuna le eccezioni sono molte, ognuno si sceglie e semplicemente basta andarsene, non occorre neppure salutare. Però non c’è dubbio che la leggerezza stia diventando un modo d’essere, come fossimo tutti in un gigantesco salotto e tutti parlassero con tutti. Contemporaneamente. Almeno la fisicità faceva argine al futile, mentre ora pare non conti l’essere esposti ad un giudizio. E a questo nessuno si può sottrarre solo che la solitudine che dilaga è disposta a perdonare assai. Allora il problema non sono i mezzi, i salotti globali o la futilità del dire, ma la solitudine che cresce e ci mangia le relazioni vere, le vite.
Pensiero un po’ greve del lunedì, poi si migliora.
Viviamo in un mondo imperfetto, conduciamo la vita attraverso l’approssimazione e l’errore, impariamo da esso eppure lo rifiutiamo nei pensieri. E’ difficile pensare di sbagliare, molto più facile pensare in termini di perfezione. La perfezione fa perdere la nozione del reale, lo idealizza e visto che questo è lontano dall’uomo, lo porta verso quell’età dell’oro e dell’innocenza, che magari non è mai esistita, ma è quantomai necessaria per pensare alla perfezione. Quasi un liberarsi dalla fatica del percorso delle vite per essere migliori, ma che restano pur sempre umane. La perfezione elimina la contraddizione, quella che ci portiamo appresso con l’errore insito nel fare e che sembra non riguardare il mondo pensato, desiderato. Ma il mondo che genera questa perfezione sarebbe un mondo vuoto, privo delle imperfezioni degli altri uomini, un mondo in cui saremmo soli, persi nella contemplazione della perfezione. Un mondo francamente noioso.
Questo è un mio pensiero imperfetto, ma che ha conseguenze pratiche. Se penso alla minaccia alla pace di questi giorni, all’Ucraina, capisco che categorie ideali vengono applicate a un paese reale. Chi conosce quel paese, sa che è una pentola in cui sta bollendo di tutto, eppure come per l’Egitto, la Siria, la Libia, la Tunisia si accoglie l’idea che la rivolta di popolo sia la palingenesi della politica: dalla dittatura alla democrazia senza passare dal via. Salvo poi accorgersi che la democrazia è essa stessa imperfetta, che non genera automaticamente quello che vorremmo e allora si accettano le violazioni delle regole se esse sono convenienti. Così in Egitto un presidente, democraticamente eletto viene deposto e l’occidente, Stati Uniti in testa, riconoscono il regime che lo sostituisce. In Libia (chi si ricorda più della Libia?), milizie armate si muovono indisturbate, parlamentari e cittadini vengono uccisi, il governo non è in grado di controllare il paese, nulla o quasi di quanto sembrava possibile, ovvero una democrazia che assicurasse diritti, benessere, tolleranza, accade, ma in fondo basta che arrivi il petrolio. In Siria, ci si accorge troppo tardi che il cambiamento può portare verso la creazione di uno stato islamico, jiadista, quindi ancora più privo di freni, antidemocratico e antisemita del regime di Hassad e non lo stato libero favoleggiato. E’ possibile continuare, quasi ogni teatro di conflitti genera risultati diversi da quelli ipotizzati: è questo il mondo perfetto che si evoca nell’immaginario? Accettare l’imperfezione a livello collettivo, non significa rinunciare ai diritti, a un mondo migliore, ma partire dal mondo che c’è e chiedersi come esso possa essere mutato dicendo la verità. In Ucraina, ad esempio, la diplomazia occidentale si è mossa più con l’intenzione di creare difficoltà a Putin e creando attese difficili da esaudire piuttosto che dire la verità agli ucraini, ossia che l’Europa non ha soldi per loro, che se vengono in un sistema capitalistico la casa e il gas dovranno pagarli, che l’occidente non è un prestatore di denaro a fondo perduto mentre una parte importante del 45 milioni di abitanti vive di assistenza e di rimesse dall’estero. Ma si sa quant’è la pensione di un professore universitario in Ucraina? (0 dollari al mese, gli stipendi sono poco oltre i 150/170 dollari, come si pensa che questa realtà sia immediatamente integrabile con l’Europa? Non a caso la Polonia preme per una soluzione, perché ci saranno masse di profughi verso l’occidente, da accogliere, a cui dare lavoro, se il cambiamento sarà repentino. La Germania considera, da sempre, il territorio ucraino almeno un proprio mercato e si comporta di conseguenza, ma qualsiasi azione che non sia solo commerciale, troverà per forza la reazione di Mosca, e non solo per la Crimea. E la Russia è un mercato ben più grande e ricco dell’Ucraina. Per questo non si comprende, se non in termini di strategia militare perché l’azione dell’occidente e degli Stati Uniti, non sia stata quella di favorire passsaggi che fossero contrattati tra i veri attori della vicenda, ovvero l’occidente e la Russia. Difficile dire in un mondo perfetto che le sovranità nazionali e le democrazie contano fino a un certo punto, ma non è forse così anche per le economie, tra cui la nostra, dove trattati e diktat contano molto più dei parlamenti eletti? Se si parte dalla realtà e dall’imperfezione si possono trovare compromessi imperfetti che portano avanti, che approssimano le soluzioni e creano un mondo possibile dove le varie spinte vengono contemperate, altrimenti si gioca, come sempre si è fatto da secoli, agli aprendisti stregoni. Si è citato spesso l’esempio della Finlandia, un paese che aveva, ed ha, problemi non dissimili da quelli dell’Ucraina, neutralità e funzione antifrizione ne hanno fatto una regione tranquilla. Gli stati cuscinetto hanno una funzione per la pace, ma gli strumenti attuali sono troppo ideologici e rozzi per renderli politicamente assimilabili alle nostre concezioni di governo democratico. Questa è una delle tante imperfezioni insite anche nella democrazia, che non evolve se non è applicata alle situazioni e che non è libera se non attenua il suo essere funzionale all’economia capitalista. Capire che c’è un problema non significa avere una soluzione, ma agire per trovarla. Ecco, sinora questo approccio è sotto traccia e così ci si muove dicendo una cosa, che magari eccita gli animi, ma non ha la struttura e la forza per essere vera, e poi se ne pratica un’altra. La verità è imperfetta, per questo bisogna dirla, a partire da se stessi.
Rischio Kiev sul rally delle borse, così titolava il Sole24ore di ieri. Come al solito salgono i titoli dell’industria e delle armi, ci si stupisce che l’oro non abbia già fatto un balzo e si valutano le esposizioni delle banche occidentali su quelle ucraine. La finanza non ha principi, solo pulsioni.
Ci risiamo. Quattro regioni a rischio. Sott’acqua i soliti noti e qualche new entry. Solo che non è novembre, è febbraio e di solito in questi mesi gela, ma non piove. Ciechi col bel tempo e non anfibi. L’amara constatazione è che non siamo gechi, anche se qualcuno comincia a sperarlo. I titoli dei giornali sono, al solito, privi di influenza, narrano di cause e di realtà che assumono i contorni dei telegiornali, realtà gridata, quindi irreale se non ci riguarda. Passiamo alla prossima notizia. Se questo paese è preda della natura non è mica un caso, solo che tra due giorni non farà più notizia e si tornerà alla legge elettorale. La stampa che è riuscita a far dimettere un presidente della Repubblica non riesce a far emergere la necessità di curare il giardino di casa.
La pioggia spruzza il vetro. Sotto il ponte, un’acqua marrone, carica di terra, sommerge gli alberi e le erbe delle golene. Gli occhi misurano la scala altimetrica, mancano almeno 4 metri. Qui. L’ondata di piena, la seconda, arriverà stasera e gli argini non hanno mica sempre la stessa altezza. L’acqua scorre, lo scirocco ci sta graziando. E’ un moto lento che trascina con insistenza. Un tirare irresistibile. Oltre ci sono gli sbarramenti aperti, l’acqua defluisce. Gli uomini sugli argini guardano il cielo e l’acqua. Le cose si congiungono, non c’è alcuna fatalità, e tutto ha una relazione. Penso. Come quelle villette così carine e addosso all’argine. Com’è che le vendevano? Vista fiume, tra l’acqua e il verde. E quei condomini anonimi di 2o anni fa, riempiti quando tutto cresceva, pieni di garage sottoterra dove non occorre la piena per tirar fuori le auto. Han sempre avuto problemi, ma i costruttori si sono dileguati, sciolti nei fallimenti. Bisognerebbe spostare le cose dagli scantinati, oppure si rischia, andranno a letto con la solita apprensione, gli abitanti, frustrati dal fatto che con il sole nessuno li ascolterà.
C’è qualcosa di malsano in tutto questo. Questa è terra di fiumi, sempre si è andati sotto fino a metà’800, poi non più. Bastava fare e regolare i fiumi pensili, pulire i fossi, far sgrondare i campi. La baulatura, parola bellissima, serviva non poco perché si sapeva cosa c’era sotto e quanta acqua riceveva. Poi i campi sono spariti e quello che è rimasto ha coltivazioni stanche e violente che poco si curano delle baulature. Fare opere grandi e piccole, non si fanno né le une né le altre, ci si affida alle idrovore. Poi qualcosa accade altrove, un muovere d’aria, mai casuale, uno scaldare di co2 in eccesso, e i terreni impermeabili, i fiumi tombinati, i fossi interrotti sfiottano in una forza indifferente e tranquilla d’acqua che ci riporta a noi, all’insipienza, all’incapacità di porre le priorità. Non impariamo, insisti pure acqua marrone, rifaranno gli argini, il minimo che serve per un po’. Non impariamo, aspettiamo che ci vada bene o tocchi a qualcun altro. E’ la logica della bomba d’acqua, un caso che non è un caso, che colpisce e poi si spera non ritorni.
Prendetelo per uno sfogo, quindi con tutti i limiti che hanno le cose che vogliono uscire e che trascinano tutto, malmostosità comprese. Mi manca Altman, Fellini, Monicelli, mi mancano molto Calvino, la Morante, Carlos Kleiber, anche Moretti mi manca, assieme a Flaiano, Roth. Mi manca tantissimo Borges, adesso Abbado, prima Sinopoli, ma mi manca anche la produzione di musica leggera degli anni ’60 e ’70 e qui mi fermo perché non è un elenco e neppure un amarcord. E non è neppure una mancanza vera, nel senso che questi autori sono disponibili e rileggibili, ascoltabili, vedibili, ma è la temperie culturale che rappresentano che non c’è più. C’è un vago color di lillà, nessun colore deciso, il pensiero che qualcosa sia successo e che la mia generazione ne sia in qualche modo responsabile.
Ho letto un paio di settimane fa, l’ultimo libro di Andrea Scanzi: non è tempo per noi quarantenni. Mi è sembrato utile all’autore, quindi poco utile a me, come fosse una serie di post che, cuciti da un filo temporale di senso, si sommavano e si rappresentavano in quella rassegna di miti generazionali deboli che testimoniavano (per lui) più indolenza che spinta a fare, a essere. Poi c’ho ripensato, non tanto sul giudizio sul libro, ma sulla descrizione di una stagione in cui c’è stata l’ eclisse di qualcosa. Scanzi ha ragione quando dice che il prodotto massimo della generazione degli anni ’70, forse è Sorrentino, e pur piacendomi Sorrentino come autore di libri e di film, mi pare sia un po’ poco per provvedere a coprire tutto il bisogno di cultura di una stagione.
Adesso a molti di voi verranno in testa altri nomi: confutatis maledictis, che non riescono a vedere il buono che hanno attorno. Disperdete il mio ragionare leggero, che vede sfumare i colori e le passioni. Perdonate ma a me impressionano gli elenchi delle Book Rewiew americane o inglesi dei libri dell’anno, con ai primi posti molti titoli che qui non ci sono ancora e tutti definiti capolavori. Quando li leggeremo ci saranno già altri capolavori in circolazione e così via all’infinito, come si fosse abbassata l’asticella e che il capolavoro fosse un prodotto di consumo. E’ la generazione del ’68, la mia, ad aver prodotto questa indolenza ? In fondo ha risucchiato tutto all’interno di un narcisismo che guardava l’immagine di sé e se ne beava, piuttosto che spingere ad osare, a cercare, e insegnare il rigore e la fatica ai propri figli. E non è che per far vivere meglio abbiamo creato una serie di rimandi e poi di vuoti? L’inadeguatezza che si respira è anche frutto della mancanza di maestri veri, di persone e idee di cui discutere per gli anni, non per un paio di settimane. E’ la sensazione che il giovanilismo sessantottino si sia combinato con una maturazione ritardata perché troppo protetta. Faceva comodo ad entrambi, i padri e i figli, solo che ora il terreno su cui camminare è fragile, ci sono vuoti che si colmeranno da soli, ma non gratuitamente.
Eccolo, le solite previsioni catastrofiche E’ solo la tua incapacità di vedere, ma il buono c’è, la stagione culturale ribolle, sei tu che ormai sei miope e perso nella cultura lenta da cui provieni. Adesso è tutto veloce, è la velocità, non la lentezza Calviniana, a dettare il tempo. La gassosità e la pervasività, la cultura e il tempo, si respirano, si è superata la leggerezza. Oggi il giorno contiene già il mattino successivo e tanto dovrebbe bastarti per capire che non capisci. Sei perso altrove, la tua generazione sfuma.
Già, forse. Avevo preso il libro di Scanzi per capire la generazione dei figli, quello che non ho capito in corso d’opera illudendomi di capire e ora scopro che sono vecchio: bastava guardare la data di nascita. O quella di scadenza? Come uno youghurt.
p.s. Vedo che Repubblica da domani venderà una serie di cd di Abbado, neanche a basso prezzo, e sono sicuro che tra poco la Deutsche Grammophonfarà un cofanetto, magari con tutta l’attività registrata con i Berliner e questo mi lascia un sapore strano, come ci fosse qualcosa di sbagliato in tutto ciò, che il nuovo viva su ciò che non ha prodotto e quindi non si consolidi.
Se in politica ha funzionato prima Berlusconi, poi Renzi e Grillo, come se al posto della nave per andare in crociera si usasse la zattera, un motivo ci sarà. E magari Scanzi ha pure ragione, la sua generazione non ha mai perso perché non ha mai giocato, ma adesso cosa vincerà? Continuano a mancarmi Altman e gli altri.
Poi alla fine ci si stanca un po’ di tutto, o quasi. Dello stesso bar, della stessa strada, dei colori di un negozio, del giornale quotidiano, delle amicizie che sono rimaste in superficie. Ciò che era nuovo, promettente, invecchia, acquista una patina che è unto di tempo, smog di parole e pensieri, e risa e solitudini usate, vita che si è svolta e scivolata oltre. E’ stato scritto un tema (a proposito di vite letterarie) tra gli oggetti e le cose che riconosciamo, non di rado sugli stessi corpi, e alla fine è sembrato che non ci fosse più nulla da dire. Può sembrare una considerazione amara, invece è solo il crivello di sé che trattiene ciò che davvero conta e il resto lo tiene come passato. Ed è pure la spinta del vivere che agisce, oltre alle abitudini, alle ricerche che erano desideri da raggiungere, mostrandoci altro che si apre e si offre a noi. Nel cercare non è la stessa strada che percorriamo che ci porta al nuovo, ma quello scarto della testa che ci fa vedere vecchio tutto quello che abbiamo fatto fino a quel momento e ci spinge ad uscirne, ad imboccare un cammino che sia conforme a noi, come siamo adesso. E’ un progresso di quell’indagare profondo che ci ha fatto capire qualcosa in più di quello che ci riguarda. Non sono forse i superficiali, i supponenti che non vogliono mai mutare il loro modo di guardare il mondo? E quella stanchezza di cui parlavo all’inizio, non è forse il disvelamento che altro attendiamo da noi, che le felicità non si sono consumate e che neppure la vita si ripete, se non quando vuole sottrarci il tempo con il suo scandire di pendolo.
Omnia vulnera ultima nexit vale per quanti seguono i riti che sembrano scorciatoie, i modi di pensare e di cercare che non evolvono, il guardare privo di vedere. Sembra una questione di sensi, di cose da provare, una ricerca del nuovo come inaudito, e invece accanto a queste modalità che si esauriscono con la facilità d’un fuoco d’artificio, ci sono tracce nuove che esigono pazienza e uscire dal tempo cronologico. Magari non si concluderanno, il tema non avrà una frase che lo finisca, e non sarà perché il tempo ci ha rubato qualcosa, magari una sensazione in più, perché una fine che doveva pur essere scritta e vissuta. No, sarà perché era davvero il percorrere la strada il vivere e il suo gioirne per il nuovo che si depositava in noi camminando. In questo essere in cammino, che non è andare, la stanchezza per i percorsi che si ripetono è salutare, spinge a verificare dentro una direzione. E allora tutto quello che sembrava necessario per tenere in piedi una giornata, non regge a una domanda: perché lo faccio? Così diventa accessorio e marginale. Resta ciò che conta, e ciò che saremo, non quello che siamo stati. Per questo il tempo cronologico diventa finzione, un limite che ci si pone per dire che è tardi e così arginare la voglia di esplorare, di percorrere, di vivere. Altra stanchezza, altro modo di generare una noia da cui non si esce. Non a caso quel tempo, non il kairos o altri concetti di tempo, è stato scelto dalla civiltà dei consumi, dal possedere, dall’essere in quanto numero di ciò che si vale in un mercato dove tutto si compra. Per quel tempo è sempre troppo tardi, e tutto deve essere superficiale, combusto non assaporato, gettato per essere sostituito e non superato. Non dobbiamo coincidere con il tempo, ma con noi stessi, sembra facile, eppure non lo è, costa la fatica delle domande, del mutare. Ci si può provare.
Non per fare d’ogni erba un fascio, ma l’impotenza del parlamento di fronte alla legge elettorale è la dimostrazione di una classe dirigente specchio del Paese. Sono i nostri rappresentanti, li abbiamo votati noi, rappresentano la nostra incapacità e impotenza a governarci. Perché per governare qualcosa bisogna interagire, partecipare, cambiare, avere coraggio. Noi e loro che dovrebbero rappresentarci. Rinviare i problemi ci porta in uno stagno di illegalità che prende tutto, dal lavoro alla gestione della cosa pubblica, passando attraverso la vita quotidiana. L’illegalità è permanente, conclamata, diventa interesse comune a fronte delle grandi parole, dello stigmatizzare, dello stupirsi, dell’auspicare. Le regole, i principi, le linee invalicabili del diritto sono violate in continuazione e lo sanno tutti. Ma per chi e per quanto questo accada, la misura del correo è diversificata, certo che un interesse alla connivenza c’è, non si spiega altrimenti questo costante voltarsi altrove, rimandare ad altri ciò che è compito di ciascuno. Diventiamo così un paese di furbi gabbati, dove l’etica non solo rende ridicoli, ma marginalizza le persone che la praticano. Tra le soluzioni, non è il pagliaccismo che risolve le cose, in Italia non è mai mancata la vena comica, noi solo noi possiamo riprendere il governo dei nostri rappresentanti, della gestione della vita collettiva che non va. Le indecisioni dei partiti sono la rappresentazione esplicita degli interessi, sottaciuti, ma evidenti, la vicenda della legge elettorale è lì a dimostrarlo, non si cerca il buono e il giusto, ma il vantaggio di parte, la rielezione, il potere da mantenere che non ha più fine collettivo, ma solo effetto collettivo. Il problema dell’essere governati torna a noi, dobbiamo chiederlo, imporre che ciò che si dice venga fatto, di essere difesi come individui e come collettività, perché lo stare assieme, la societas, ha questo significato. Non stanchiamoci, chiediamolo con forza, è nostro diritto, e pretendiamolo facendo il nostro dovere, perseguendo la legalità.
Non voglio parlare delle primarie del PD, non ero partito da questo fine, ma già da questa occasione, domenica verrà un segnale, tra la vecchia e la nuova espressione del potere, oppure può emergere una diversa maniera di intendere il protagonismo dei cittadini. Scegliamo e se possibile, scegliamo il diverso, quello che rompe con chiarezza questo stato di cose, le manda in frantumi per etica e necessità, perché così non si va avanti.
L’altra settimana c’è stata un’ispezione al centro Cina della mia città. Ne fanno spesso e oltre ai soliti quintali di merce contraffatta e pericolosa, hanno sequestrato dei locali di magazzino, perché c’era un asilo per bambini tra vestiti ed elettronica. Se avessero cercato in altri magazzini avrebbero trovato anche qualche dormitorio, speriamo senza sbarre. E’ così da anni e quando la guardia di finanza insiste troppo, interviene il console Cinese, ci ricorda l’interscambio e i capitali investiti in Italia, assicura il rispetto delle regole e dopo un mese tutto riprende come prima.
Nero, iva non versata, condizioni di lavoro inumane, mica sono solo alcuni cinesi a praticarle, da questo punto di vista l’Italia è un paese unito, dal nord al sud. Lo fanno tutti, senza distinzione di provenienza, lingua o cittadinanza, cambia solo il settore merceologico, da una parte l’agricoltura, altrove il tessile o le calzature o i pellami o la contraffazione dei grandi marchi, i servizi, la logistica, la ristorazione, ecc. ecc.. Anche il manifatturiero, comincia a sentire l’ingresso della manodopera senza diritti. E il bello è che tutti sanno, tollerano, si girano altrove. Mi spiace che il presidente della Repubblica non si renda conto che questo è il paese in cui viviamo, che non è il paese accanto con un’altra realtà. Il problema della legalità è problema più importante dell’Italia. Quello che attira investimenti cattivi e respinge investimenti buoni, quello che impedisce a chi rispetta le regole di fare bene il suo mestiere, quello che riempie i luoghi di lavoro di morti bianche. Questo Paese è il nostro, signor Presidente, non si stupisca, prenda informazioni e capirà che non servono i lutti cittadini e le cerimonie ufficiali, serve legalità, rispetto delle regole, non guardare in faccia nessuno per applicare la legge. Dalla legalità viene fuori un Paese migliore, rispettoso della dignità delle persone. Si continuerà a morire sul lavoro, ma se questo non accadrà per motivi di profitto, le parole tragica fatalità, riacquisteranno senso e si morirà di sicuro di meno.
Mi turbano inezie, l’insipienza verso i disastri dell’agire quotidiano nei confronti del mondo in cui viviamo, il debito pubblico che toglie ogni prospettiva a tutti fuorché ai furbi, il tirare avanti sperando che qualcosa risolva tutto, il girarsi dall’altra parte, il dire sono tutti uguali, la politica e la sua incapacità a reagire, la difficoltà a perseguire il possibile come alternativa all’obbligato. Mi turba l’inerzia che accompagna gran parte delle passioni collettive, l’incapacità a vedere oltre il proprio interesse, l’esposizione delle persone in mondi fasulli, l’illusione degli amici che si possono cancellare, la difficoltà a sentirsi parte di un insieme vero, di un popolo. Mi turba l’incapacità di legare esterno e interno, la mia vita con le vite degli altri, la scelta di una dimensione piccola perché quella grande si fa fatica a capire, il rifugiarsi in ciò che si ha, il chiudere gli occhi e gli orecchi, il rifiutare ciò che sta fuori delle nostre vite. In definitiva il non capire. E tutte queste sono inezie perché gran parte delle persone cercano ogni giorno di affrontare i problemi del quotidiano, cercano di salvarsi oppure rifugio nella soddisfazione dei desideri, non si pongono più il problema del mutare, casomai se sono giovani, pensano di andarsene. E allora temo che stiamo tutti invecchiando velocemente, che abbiamo rotto gli specchi per non vederci, che nel difendere la nostra casa non ci accorgiamo che la città cade. Tutto questo pensare oltre è sciocchezza se non è pensiero collettivo, è solo dolore personale, incapacità che rende inani di fronte a ciò che è troppo grande per uno o pochi, ma che sarebbe risolvibile da molti. Ecco quel sentirsi soli o pochi traccia il limite della sciocchezza, la porta a colpa individuale, irrisolvibile e quindi senza speranza di soluzione personale. La sensibilità quando prevale l’egoismo è sciocchezza e purtroppo il turbamento nasce da lì.
Poi le cose si sistemano, in un modo o nell’altro l’ordine torna. Dovremmo tenerlo a mente.
In fondo bisogna esercitare la pazienza e la speranza, non scivolare nell’ansia che impedisce alle cose di avere un loro senso.
Che significa vivere nel giorno? Rincorrere l’attimo, la sensazione, l’emozione, oppure trovare il proprio tempo interiore, il battito profondo della nostra vita che accompagna il presente? In questa freccia positiva del divenire, trovo un senso all’ansia, e riconduco la fretta al suo posto: attraversare le strade, inseguire un amore che parte, cercare una cosa che serve davvero subito. E per il resto mi occupo e mi affido; bisogna avere fiducia nelle cose, nelle persone, nel caso, fare ciò che si può (e non significa tutto il possibile) e lasciare che qualcosa di buono accada anche senza il nostro decisivo intervento.