Non parlo spesso di politica in questo luogo, se non tra le righe. Ne scrivo altrove, con la consapevolezza di avere una età diversa, storie diverse da quelle attuali. A suo tempo mi sono tolto di torno senza essere accompagnato alla porta. Insomma un vecchio arnese che però non smette di pensare ed agire per quello che considera una passione civile. Non saprei fare altrimenti perché di politica è stata intessuta non poca parte della mia vita, ha determinato scelte che hanno riguardato la famiglia, il lavoro, ha condizionato (nel senso che ha discriminato) tra ciò che era compatibile con quello che pensavo e quello che non lo era. Ma non voglio fare un ritrattino di ciò che è stato, anche perché penso che la mia generazione abbia fatto cose buone e non pochi errori e i secondi meritano di essere almeno in parte, compensati, nei confronti delle giovani generazioni. Penso in particolare a questa generazione che avrà meno dei loro padri, penso a quello che si è determinato come sentire medio del Paese e che ha permutato il privilegio con la meritocrazia, ma non si è occupato, e non si occupa, dell’eguaglianza, delle pari opportunità. Che non riflette sul lavoro e su i suoi contenuti sociali, che accetta un esodo imponente di giovano formati verso l’estero e non attira un equivalente flusso di competenze da altri paese. Basterebbe questo per dire che non siamo un Paese attrattivo, che bisogna intervenire con progetti che riguardino la sostanza della crescita, che bisogna creare condizioni amichevoli perché chi si è formato resti e chi ci vede dall’estero sia invogliato a venire a vivere in Italia.
Ma per fare questo bisogna investire in ricerca e formazione, bisogna essere costanti nelle destinazioni dei fondi e fare in modo che non siano offensivi della dignità del ricercatore, bisogna capire che è il futuro perseguito con lucidità che può cambiare il presente. Un laureato alla comunità costa 125.000 euro, e a questi si devono sommare i costi della famiglia. Ogni anno regaliamo miliardi di euro e intelligenze a chi ci farà concorrenza sul piano dell’innovazione, per questo e molto d’altro, le mancette ai diciottenni fatte di 500 euro non dovrebbero esserci e quei soldi, assieme a molti altri, dovrebbero andare alla scuola e alla formazione.
Quindi esiste un problema di attrattività del Paese che non riguarda solo l’estero, ma i suoi stessi abitanti. Questo problema è stato “affrontato” in una sfida tra nuovo e vecchio, tra nuova visione della politica e vecchio modo di procedere. Se il nuovo si auto certifica come tale è difficile discutere se non in base a ciò che accade, cioè emerge il primato della realtà che parla solo dei risultati e non delle promesse. Se il Paese non cresce significa che le politiche economiche sono sbagliate, cioè saranno nuove ma non efficaci. Se diminuiscono i diritti collettivi, il lavoro continua ad essere fortemente precario significa che la fiducia di chi dovrebbe investire, credere nel futuro del Paese non c’è e che si vive sul presente. Potrei continuare, ma mi voglio soffermare su questa parola e su ciò che contiene in politica: presente. Il presente consente di avere consensi o di perderli ma non genera una coscienza collettiva di un futuro, non sostiene idee forti, non contiene ideali (usiamo anche questa, che a torto è definita ormai una parolaccia), per il semplice motivo che il presente consuma l’attimo e si esaurisce in esso. È un divoratore di futuro, il presente, ma non lo determina se non in piccola parte e in perdita. Diciamo che il presente esalta il potere vero, e lo fa subire anche quando dà l’impressione di poter autodeterminare il proprio destino. La dittatura del presente è la dimensione più piccola della politica che deve provvedere all’oggi di chi amministra, ma anche indicare dove si va, usare la verità per rafforzare la volontà di chi poi determina il successo o meno di un Paese.
Noi, e intendo anche la mia generazione, abbiamo vissuto a credito, per creare benessere presente abbiamo divorato risorse che ancora non c’erano e ci sono, e allora il minimo da fare è che queste risorse ci siano davvero, che lo sviluppo sia reale e condiviso, ma soprattutto che ci sia una idea di crescita e di Paese attrattiva e innovativa. In questo metto le nostre responsabilità generazionali, abbiamo pensato che fosse possibile creare una comunità di persone che avevano al proprio interno possibilità di attuare vite felici. Ci sfuggiva che quella condizione non era data, ma bisognava crearla, attraverso l’economia, il pensiero sociale, l’inclusione, la valorizzazione della differenza come forza creativa. Serviva sì una scuola più libera, ma insieme ad una formazione certa, serviva un’ impresa che cresceva sull’auto imprenditorialità ma nel rispetto delle regole comuni sul fisco, sull’uso delle risorse, del territorio, serviva un diritto che garantisse la legalità e non l’eccezione, il censo, la possibilità di difendersi. Serviva una burocrazia al servizio del cittadino e non di se stessa. Questo non è stato un problema di leggi, ma di politica, per seguire il consenso si sono alimentati i privilegi, si è lisciato il pelo al gatto e intanto il mondo mutava.
Di questo la mia generazione pur nata con buone intenzioni, porta non poca responsabilità. Ma il nuovo che la sostituisce incide su questi problemi? È rigoroso? Non guarda in faccia nessuno? Oppure è solo una sostituzione di gestori del potere. Ecco, io propendo per questa seconda impressione perché la casta resta tale, i poteri veri sono intoccati, cresce l’antipolitica come delegittimazione delle regole, e lo fa la politica stessa salvo poi lamentarsi che la protesta prende strade strane. Cioè il gattopardo trionfa. Qualcuno potrebbe dirmi che noi non abbiamo fatto di meglio, che è solo astio, ripicca per essere stati messi da parte, ma non sono i fatti che dimostrano la bontà o meno di ciò che accade? La mia generazione deve farsi da parte, subito, e dare per quanto può, un contributo senza chiedere nulla in cambio, quello che invece non può accadere è che il nuovo non sia tale, che non affronti i problemi reali: la durata dei processi, la burocrazia, la legalità precaria in molte parti del Paese, il lavoro dei giovani (e di chi giovane non è visto i tempi della pensione), la ricerca orientata allo sviluppo e all’eccellenza. E voi credete che la cosa più urgente da riformare fosse la Costituzione, portandola in senso centralista e più liberista? Io non credo, ma di questo avremo modo e tempo di parlare.