pomeridiana

 

Si chiamano sale del commiato, hanno bisogno di una presenza e si riempiono e vuotano dopo i discorsi, ma in realtà non è mai un chiudere, un salutare per davvero. Stamattina la sala era zeppa di persone, moltissime in piedi, con i discorsi, le canzoni rivoluzionarie cantate assieme e infine l’Internazionale. Colpiscono le biografie raccontate, ci conosciamo e sappiamo tutti che non c’è enfatizzazione, che le cose pubbliche fatte in una vita sono veramente tante. Il privato resta pudicamente da parte ed è bene ci sia questa sfera che un tempo non era ostentata come accade ora nei social. Pensate a cosa accadrebbe se il big data mettesse assieme tutto ciò che abbiamo fatto filtrare di noi, lo riassemblasse in un racconto organico fatto di date e momenti, di fotografie, messaggi, mail e telefonate, di racconti, post, musiche, film e chissà quant’altro e poi lo pubblicasse come la nostra storia, mancherebbe la dimensione del fare taciuto, dell’essere noi per davvero nelle cose. Prevarrebbe l’io, un interminabile io che descrive speranze e solitudini personali, una sorta di racconto che è anche un rappresentarsi, mentre sono i gesti, le cose collettive costruite con pazienza che danno una dimensione vera.

Per questo Compagno l’età non è stata una scusa per tirarsi indietro, c’è stato sempre nella storia. Una storia apparentemente piccola, locale, come si usa nelle città medie dove ancora il quartiere fa la differenza, e un tempo la facevano le mura cittadine. Esser nati “sol sasso” aveva la connotazione della prima certificazione di appartenenza: non sulla terra, in campagna, ma nella città. I quartieri erano piccoli borghi con una identità di mestieri e per chi nasceva negli anni’20 una scelta maturava abbastanza presto, tra l’essere fascisti oppure no. Ammetto che le mie frequentazioni, la mia famiglia era di parte, naturalmente antifascista, ma se si vuole leggere quello che accadde nella guerra e dopo di essa si trova la traccia di un noi condiviso più grande, che si rafforzava ed entrava a fare parte delle vite plasmandole in conformità. Non era un perdere qualcosa ma un acquisire, un essere se stessi e insieme un’idea forte di cambiamento. Questo avveniva con i mezzi forti e semplici della parola, del condividere l’anguria d’estate, del prendersi cura di un vicino, del cantare e mangiare assieme, nel fare politica. Un vedere il mondo uscendo dalla porta e mescolandosi ad esso, non guardandolo dalla finestra. Un assommarsi di umanità che convergevano su persone che rappresentavano con la vita, la coerenza trasfusa nell’etica del bene comune, della giustizia, dell’eguaglianza vera e pratica di chi tende la mano, sia per rialzare, sia per chiedere aiuto.

L’umanità di Guerrino era questo, un essere insieme restando caparbiamente fedele a se stesso e a ciò che era importante per tutti. Stamattina un ex sindaco democristiano che l’aveva avuto come avversario politico, ma insieme amico, ha detto che loro, i giovani DC di allora, invidiavano un po’ questa capacità di essere tra la gente ed insieme di essere gente, che il sentimento di una collettività era un noi fatto di tante individualità. A me veniva in mente l’immagine del fiume che porta innanzi e ha una meta più grande, mentre per strada porta benessere ai luoghi che percorre, che si fa rispettare ma insieme unisce e trasporta e ha un prima che non interferisce col poi. Guerrino rappresentava visivamente la generazione di compagni che avevano semplicemente costruito una società, e con le difficoltà di trovare una sintesi, avevano percorso idee forti. Erano rimasti fedeli all’umanità che avevano attorno e che era lo specchio e la sostanza di ciò che volevano mutare. Così sono sorti parchi, messe panchine, piantati alberi, voluti asili nido, aiutati anziani a vivere nella loro casa. E tutto questo cercando di mutare la città e di capire il mondo. Essere in un contesto che ha una lingua propria non significava avere una barriera per il giusto, per l’equo, per la libertà di chi aveva altra lingua e altro colore della pelle.

In questa cerimonia laica c’era anche il parroco ed era una cosa naturale perché la comunità comprende chi crede e chi non crede, ma entrambi si ritrovano in chi è di fronte al loro: l’uomo e i suoi bisogni. Di Guerrino si è sottolineata la schiettezza e la ruvidità che tradotto significa che era vero, senza infingimenti, poco diplomatico e affidabile in ciò che diceva, perché era il suo pensiero. Aveva mani grandi, da artigiano e da liutaio. Aveva fatto entrambe le cose: mobili e strumenti musicali, poi solo strumenti che dovevano essere un miracolo che trasformava il legno in armonia udibile oltre che belli da vedere. Assieme al suo, sono stati evocati molti nomi di donne e uomini che hanno condiviso questo fare comune, questo lottare per un ideale. Si conoscevano tutti, si frequentavano, erano un insieme di vite vere e di famiglie che mettevano assieme quanto di bello e forte genera il privato. Un’umanità irripetibile che ha costruito molto ed è stata molto assieme. Essere assieme era il senso di una politica e di una vita, una condizione che metteva davanti l’uomo, i suoi bisogni, e il cambiare, tutti, insieme. Per questo Guerrino era amato assieme a molti altri che hanno condiviso e sono stati generosi nel vivere. Non so se tutto questo sia finito, essere stato testimone e in piccola parte dentro quella realtà mi sembra una condizione che debba ripetersi, che l’essere uomini lo esiga. Magari in nuove forme ma che non possa essere che così perché solo assieme si va oltre il bisogno, la solitudine, l’ingiustizia.

Si chiama sala del commiato ma non si lascia mai ciò che si è vissuto come importante e vero. E neppure chi l’ha testimoniato, ci lascia mai, perché sennò saremmo soli e senza speranza, ma non è così. Non è mai così.

 

a sé, in disposizione

Un sogno o una malvissuta paura riga il giorno,

prima d’un crocicchio l’ignoto riposa,

silente ancora dorme con l’illusione e la certezza,

dolcezze che solo il cuore ospita serene, 

distratto, intanto, un lavorio di dita segue una piega di carne,

appallottola un pensiero:

c’è l’abbindolarsi che dell’altalena suona il moto tra terra e cielo, mentre immoto resta,

o il desiderio repentino all’alba, poi  dolce naufrago nel meriggio,

che nell’insoluto s’infratta, e inatteso scuote, di senso, i suoi piccoli sonagli.

La nebbia che non cade mai ci avvolge,

e apre,

all’abbraccio più dolce di dolcezza, e all’inverno il cuore,

come la tua mano, fredda prima e poi calda nella mia

che cerca e cerco. 

Ecco a che servo

e servire è mettersi a sé in disposizione.

 

l’intelligenza del filosofo e del chirurgo

Hai l’intelligenza del filosofo e del chirurgo.

?

Vorresti quella del folle?

Qualche volta il dubbio mi è venuto, mi piace quello che ti sorprende perché la sua logica è diversa. Perché ha altre regole.

Magari è perché parla di sé parlando di te?

Nelle parole che esprimono il pensiero profondo, se tagli non resta nulla o quasi: solo pezzettini di carne viva.

Non resta nulla perché sono liberi

Oh si, e non hanno altra logica se non il riunirsi. Ricomporsi nella testa e nel corpo di chi ascolta e condivide. Corpo, mente e sentimento riuniti e interagenti: Spinoza banalizzato e glorificato nella prassi. 

Ti piacerebbe fosse così, vero? 

Certo, anche se in questo scomporre e ricomporre la parte ardua è ricomprendere qualcun altro e sentirlo come parte di sé da sempre. 

Questa è una intelligenza folle, perché si fida, si affida.

Anche l’amore fusione ha questa follia al fondo: ricostituire l’uno. Ricostruire due identità diversamente mescolate e interagenti. Tanto che poi ogni cosa sorprenda perché era conosciuta dapprima però non percepita. Non intuita ma sentita, con la libertà di mettere nell’altro la propria libertà.

Il folle sentirebbe già un tradimento. Però c’è un vantaggio: bisogna essere molto semplici.

Verissimo. La semplicità di cui parli è un punto d’arrivo. Un cammino che vale la vita.

Si, è un percorso. Anche amare è un percorso.

La chimica dell’innamoramento non dice nulla al riguardo, anzi glorifica la corsa.

Certo confonde le idee con l’onnipotenza e l’eternità, poi viene il resto, ossia il crescere comune perché si è investito assieme. Ma se l’amore è profondo, ha una intelligenza incredibile.

Si. Anche io credo nella sua autonomia.

Sembra un’offesa al sentimento ma l’amore ha la grazia del costruire e la forza della passione che vuole. È nel volere che si annodano i destini. E il filosofo e il chirurgo allegramente si parlano.

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=S0PHc7FTakY

 

non ci si merita niente tranne l’amore

” Scrivilo come sei arrivata fin qui. 

Così lo scrivi, e mentre lo scrivi capisci che l’amore non è una tragedia o un fallimento, ma un dono. 

Ti ricordi del primo amore perché ti mostra, ti dimostra che puoi amare ed essere amato, che a questo mondo non ci si merita niente tranne l’amore, che l’amore è come diventi una persona e perché.” pg.332

Tartarughe all’infinito di John Green. Ed. Rizzoli

L’amore a volte biforca, e allora qualcuno chiede se si possano amare due persone. O una persona e una cosa. O un impegno totalizzante e una persona. Dipende perché parliamo di ricomporre ciò che si sta dividendo dentro.  Dipende perché davanti a un bivio comunque si rallenta, poi la strada prosegue, e raramente si intreccia nuovamente, ma aprirà altri bivi più avanti e nei momenti di nulla ci si chiederà cosa sarebbe accaduto se si fosse scelta l’altra strada. Sarebbe accaduto, ma non sarebbe stato di più o di meno perché noi siamo la nostra misura. Comunque. Sempre. Tutto diversamente si eguaglia ed è quel diversamente che ci definisce e alla fine tutto ci ricompone. È vero, quando impariamo che l’amore può essere corrisposto diventiamo persone. Siamo riconosciuti lì dove prima eravamo invisibili. Si palesa qualcosa che voleva crescere. Quando si impara ad amare non lo si dimentica più. Lo si sbaglia, per eccesso o per difetto, ma sarà sempre qualcosa che si conosce e che insieme è nuovo. In attesa di essere riconosciuto, ci aspetta: non è una speranza, è la nostra follia positiva, la certezza che spinge e acquieta.

ciò che ci forma

Ci sono frasi che non si scordano, riemergono improvvise nella vita e sembrano riassumerla perché l’hanno a suo tempo guidata, fornendo scelte e modelli. Sono racchiuse in libri, dischi e film che hanno inciso così tanto nell’immaginazione, allora, da volerli far propri e vivere come nostri.

Cosa accade nella testa di un ragazzo che vuole leggere il mondo oltre la realtà che vive, che vuole alimentare sogni destinati a realizzarsi, che sente desideri nuovi che lo agitano e risposte insufficienti in che lo attornia?
Quando ero giovane, leggevo, libri su libri senza un criterio che non fosse la scoperta e il piacere di leggere, ascoltavo musica che riascoltavo infinite volte, vedevo film che mi parevano così giusti e densi di valori da essere la vita che avrei interpretato.
C’era molto altro attorno, ma una città media per quanto orgogliosa della sua Università con la libertà come motto, è sempre conservatrice. Anzi potremmo dire che le città e la maggioranza dei loro abitanti sono sempre conservatori e così le famiglie nel migliore dei casi lo sono, nelle altre fattispecie cercano di essere differenti e magari confondono e rendono complicata la ribellione dei figli. Così la mia città da un lato mi riempiva di stimoli e dall’altro creava insoddisfazione, era una finestra, neanche tanto ampia che permetteva di vedere, ma non di toccare ciò che sembrava nuovo e urgente. Allora erano i libri a formare, assieme alla musica e al cinema. Leggevo, vedevo, ascoltavo non ciò che piaceva ai miei genitori, agli insegnanti e neppure a molti dei miei compagni, ma a me. L’identità sociale si formava per contrasto e Il compagno di Pavese, Il partigiano Johnny di Fenoglio, o l’ Hemingway di Per chi suona la campana, o ancora i due diversi Levi, con Cristo si è fermato a Eboli e Se questo è un uomo diventavano, insieme a molto altro, la risposta a una voglia di giustizia e di politica da mischiare alla vita. Ma questi autori si affiancavano a Bulgakov o alla irta scoperta  di Joyce, i russi, gli americani della grande depressione e quelli nuovi, da Malamud a Salinger, mescolati alle letture di Freud e di Russel e chissà di quanto altro che ora si è mescolato con la vita e attende di essere richiamato da quei pomeriggi in cui arrivavo a sera con le guance rosse e gli occhi stanchi. Si chiamano ora romanzi o libri di formazione, ma io non lo sapevo e neppure volevo formarmi, ero incuriosito da un mondo che era fuori e di cui nessuno mi parlava. Non era il mondo dei giornali o della televisione fatta di quiz e di sceneggiati televisivi, di tribune politiche e di spettacoli del sabato sera, era un mondo differente che arrivava con la descrizione di ciò che si provava altrove, di cosa si agitava dentro agli uomini che non avrebbero fatto per forza grandi cose, ma sarebbero stati se stessi. E tutto questo si mescolava con il cinema che mostrava l’Italia del malessere e delle periferie, assieme alla Dolce vita, con la musica che aveva i suoni possenti della classica accanto a una nuova generazione di cantanti che si rivolgevano direttamente ai ragazzi con parole mai sentite prima. Tutto parlava e diventava domanda e insieme risposta, sino a trovare qualcosa che si metteva in accordo con quello che c’era dentro e non era ben chiaro però sembrava giusto. Ecco quella era la vita che avrei voluto.

Non so cosa abbiate letto voi, cosa sia stato importante per le vostre idee. Non so se vi tornano le frasi che vi hanno colpito allora, ma sono sicuro che se leggete, siete stati diversi e uguali, anche voi intrisi di sogni e aspettative. Che allora si sono formati caratteri e ideali, desideri e voglie, e che molti dei tempi successivi hanno affinato ciò che allora era da sgrossare, e lo sapevate, ma era così urgente e forte che non si poteva fare altro.

Con timore, trepidazione e spavalderia, non si poteva fare altro e ci avrebbe pensato la vita a togliere quello che era in più.

di certo ci sarà un senso

Di certo ci sarà un senso profondo nel vento di tramontana che porta freddo e limpidezza, nei palazzi e nelle cose che s’avvicinano luminose.

Di certo avrà un senso un guanto rosso abbandonato che nessuno raccoglie, ma anche il fluire tranquillo delle persone sotto i portici e le finestre aperte ad accogliere il sole avranno un senso se per vie misteriose parlano allo sguardo.

Avrà un senso il soffermarsi a parlare con uno sconosciuto che si scusa per il suo camminare lento e racconta che, adesso a ottantotto anni, vede molte più cose d’un tempo, gode di questo sole di settembre e pensa che ciò che ha attorno è bello e merita la sua attenzione alla vita. Avrà un senso desiderare d’incontrarlo ancora per le sue parole cortesi e tranquille che diventano un dono inaspettato.

Avrà un senso tutto questo tempo che non si spezzetta ed è così pieno di nuovo, che posticipa ciò che non è proprio necessario, che chiede di guardare, di accogliere ciò che prima si nascondeva nella fretta.

Avrà un senso profondo il mettere assieme ciò che sembra disparato eppure interroga con la distrazione di chi sa che nulla si perde, tantomeno il tempo, quando esso ci mette in comunicazione con il mondo.

cannelle

Associare un’insalata greca ricca di feta con degli spaghetti al pesto, non è una buona idea. Provoca una sete che non è sete di conoscenza o verità, ma quella sete bambina che induce a bere direttamente in bocca da una cannella. Cosa che contraddice ogni norma di buona creanza ma da una soddisfazione che accresce il potere dissetante dell’acqua. L’acqua è un archetipo con cui facciamo subito i conti nelle nostre vite. Evolviamo i rapporti col bere, ma l’acqua fresca resta una base su cui si costruisce la sensazione di benessere. E l’acqua direttamente in gola è un sottrarsi alla misura, un oltrepassare la soddisfazione in un dilagare di senso.

Ci fu un’estate in cui la ricerca di lavoretti, mi portò a frequentare una azienda che imbottigliava bibite gassate e acqua minerale. Le bottiglie, allora di vetro, correvano su un nastro, si fermavano a blocchi sotto le cannelle che le riempivano, prima d’essere tappate. Noi toglievamo le bottiglie e le mettevamo in casse di legno. Avevamo una pausa ogni tre ore e il lavoro fisico faceva sudare abbondantemente e ci si poteva dissetare. Nel reparto chinotto avveniva una sindrome singolare, che mi fu confermata dall’infermiere a cui ricorsi per un gonfiore intestinale notevole, tutti i nuovi bevevano dalla cannella nell’intervallo e l’associazione dolce/amaro/frizzante anziché togliere la sete l’aumentava, e spingeva a bere ancora fino a generare quel gonfiore associato ad altri disturbi immaginabili. Passava tutto in un giorno, anche la voglia di bere dalle cannelle per cui la direzione non si preoccupava più di tanto e lasciava che il corpo facesse il suo lavoro pedagogico.

Quell’esperienza, che durò poche settimane, mi fece riscoprire il potere dissetante dell’acqua. Meglio se era un po’ gassata, magari con le polverine di allora: Idrolitina e Alberani. Preferivo l’Alberani, che mi pareva avesse più gas e che assomigliasse appena all’acqua di seltz. Questa era un’altra cannella presente nei banconi dei bar del centro, da cui veniva estratta con maestria dal barista che aggiungeva un tumulto di bolle alla bibita confezionata per gli adulti. Li invidiavo tantissimo, come invidiavo i bottiglioni variopinti dei bar di periferia, anch’essi contenenti seltz che sognavo come una ricchezza per l’estate casalinga. I bottiglioni erano allegri, per gli esercizi meno tecnologici e alla buona, li vedevo usati con parsimonia, su sollecitazione di chi ci accompagnava, a volte, allungavano la spremuta che doveva farci bene. Erano quasi una cannella, col loro becco ricurvo e il rubinetto a leva, ed evocavano un erotismo da gole assetate. Tra noi, nei pomeriggi ricchi di polvere e di sudore, si favoleggiava l’effetto di quel getto da cui attingere a piena bocca. Fantasie. In realtà ci restavano le cannelle delle fontane e se si diceva uno schizzo di seltz per sottolinearne la preziosità e il diluire accurato, una ragione ci doveva essere.

Bere a cannella e a garganella, bere lasciando che l’acqua invadesse il viso, impastasse e togliesse la polvere. Bere lasciando che la bocca si riempisse, che l’eccesso corresse giù per la guancia e poi si perdesse bagnando di gocce tutt’attorno. Bere per dire al corpo che poteva essere dissetato finché voleva, che avrebbe avuto ciò che desiderava. E se i grandi ci dissuadevano dall’acqua troppo fredda d’estate, non erano le cannelle a darla quell’acqua ed era lui, il corpo, che stabiliva la misura della violenza. È andata bene, mai una congestione, ma in tempi in cui tutto faceva paura, anche l’eccesso aveva un limite: la soddisfazione. Ancor oggi se vedo una cannella mi viene da piegare la testa e bere, magari solo un sorso, ma libero. Credo sia rimasto quel piacere intatto e connesso all’acqua che sgorga e scorre con dolcezza. Quasi un atto d’amore.

improvviso

Fu come l’amore, qualcosa che non si poteva dire e neppure tacere. Fu una ventana che prese il cuore e il cervello, un segnale che ben altro doveva accadere. Quelli che vissero, partecipando, quei giorni, ne furono presi e segnati per anni. Manifestazioni, voglia di riscatto, speranza, ma anche sconfitte cocenti, arretramenti. E di questo bisognava parlare, bisognava partecipare perché accadesse il buono e non l’epilogo tragico.

Da queste parti il temporale si preannuncia passando dalla lietezza del sole a un cielo che si fa bianco di nubi, e poi grigio, ma sembra ancora tutto in forse e potrebbe accadere che il cielo si liberi lieto oppure che cessi il vento. E allora siamo a un attimo prima che la pioggia cominci violenta a spazzare tutto. Così allora, ed era lontano, in Cile, ci fu un prepararsi di eventi, un confluire di congiure che noi percepivamo da distante. C’arrivava un’ eco di fatti  banali, di situazioni contraddittorie. Il governo e il parlamento nazionalizzavano le miniere di rame e i grandi proprietari stranieri, americani, reagivano con gli embarghi. Si bloccavano i camionisti, nei negozi sparivano i generi di prima necessità, Salvador Allende ribadiva la via della democrazia alla nazione e parlava, come aveva sempre fatto nella sua vita, di socialismo. Non erano i proclami di Fidel, era un medico che aveva vissuto le miserie del suo popolo e le aveva capite, ora proponeva che un Paese con risorse e voglia di lavorare pensasse a se stesso. Credo che anche Berlinguer e altri leader comunisti, fossero poi colti di sorpresa da ciò che accadde l’11 settembre, perché è vero che s’era in epoca post coloniale, che le aree di influenza erano ancora ben salde nelle mani dei potenti, ma si era anche negli anni ’70, la guerra fredda era stata scaldata dai fatti del Viet Nam, c’era stata una sollevazione mondiale di giovani e di speranze che era partita proprio dagli Stati Uniti. Insomma c’era un cielo pieno di nubi ma tutti speravamo nel sole, anzi ne eravamo certi. Poi avvenne tutto in poche ore, certo ci fu una regia, due mesi prima il comandante in capo delle truppe, un vecchio generale fedele alla Costituzione, René Schneider, era stato ucciso in un tentativo di golpe, e il tentativo di coinvolgimento dei militari nel governo non era andato a buon fine. Anche la nomina di Pinochet a capo dell’esercito, ritenuto da Allende persona fedele alla democrazia fu un errore, l’11 settembre i militari attaccarono il palazzo presidenziale con gli aerei. Allende rimase a difendere ciò che aveva sempre affermato, la legittimità e il diritto e morì. Pinochet prese possesso del Cile in nome e per conto, non dei cileni, non della democrazia, ma degli interessi degli Stai Uniti, con la connivenza di gran parte di quello che allora era detto l’occidente democratico. Insomma non avevamo capito che il mondo non era quello che diceva di essere, che la democrazia non funzionava come libertà del popolo di scegliere, che non bastava la coerenza per mutare una nazione se questa era negli interessi geopolitici ed economici di altre ben più grandi, che arrivare per via democratica al cambiamento non aveva alternative, ma era una debolezza non una forza. Ciò che accadde in Cile scosse il mondo, ma non gli impedì di accadere. Berlinguer scrisse i suoi articoli sul compromesso storico partendo proprio dai fatti del Cile, trovò in Moro un ascoltatore attento e partecipe. Qualcosa di nuovo si delineava anche in Italia, poi ci fu il rapimento e la morte di Moro e venne altro.

Improvviso in politica è qualcosa che sembra una contraddizione e lo è se non si osservano bene le forze che si muovono sotto gli interessi contrapposti. Così mi viene da scuotere il capo quando si respingono i profughi economici mentre anche le nostre aziende depredano l’Africa, quando i piani di aiuti finiscono in minima parte a chi ne ha bisogno, quando si mantiene il sottosviluppo perché interessa la manodopera a basso costo. Certo poi qualcosa accade all’improvviso, ma se pensate bene, raramente mantiene la rotta verso una maggiore giustizia ed eguaglianza. E al contrario di allora, oggi c’è molta meno attenzione e passione, così l’indifferenza lascia passare tutto e nulla muta per davvero in meglio. Con tutto il nostro ragionare, con la convinzione del logico e del giusto, se non c’è passione e un noi che davvero prevalga, alla fine altri ci guidano e l’improvviso diviene solo il temporale.

il biglietto da visita

 

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Il biglietto da visita – che cosa antica da porgere sorridendo – ha un lato colorato (è il particolare di un acquerello di Paola, un’amica che sente le persone) con un’ immagine di un uomo in riva al mare assieme a un cane. Mi identifico molto in quell’uomo, penso rappresenti il mio presente e il futuro. Il cane e l’uomo sembra stiano andando, ciascuno seguendo un pensiero e parlando in quella lingua che è un impasto di affetto e libertà. Indicano uno stare e un voler essere che si ricombina con l’altro lato del biglietto dove il nome, il “mestiere” sono in caratteri piccoli. Pur in grassetto restano esili e dispersi in un bianco ruvido che si sente al tatto. I caratteri hanno preso, alla fine, una forma regolare, scacciando l’idea che le lettere avrebbero potuto liberarsi e anziché in file orizzontali avrebbero potuto correre sulla superficie, felici come il cane di tanto spazio e novità di cose.

Il cartoncino spesso del biglietto evoca un bisogno di solidità, così le misure contenute, senza ulteriori stravaganze, portano  una idea di sé che si muove sulla coscienza del limite proprio. È un biglietto che è quasi una figurina, di quelle che un tempo si collezionavano da bambini, ed è forse un inconscio rappresentarsi come persona. Per un po’ di tempo ho accarezzato l’idea di farne diversi di questi biglietti e magari lo faro per il piacere di un dare spazio alla fantasia. Qualcosa che sia libero e pensoso come una carezza sulla testa del cane che è solo piena d’affetto e cammina in riva al mare che tutto contiene e non ha bisogno di spiegarlo. Semplicemente è. Per questo e molto altro, quando lo porgo, non commento più il biglietto e sorrido.

scie

Ciascuno ha seguito una scia, a volte era dentro, macerata da lunghe elucubrazioni, più spesso era fuori. Come la spinta nella folla portava in una certa direzione. Neppure si sapeva bene quale, all’inizio, poi era diventata più precisa, e infine una meta. Si sa che le mete raggiunte lasciano vuoti, risucchiano tutto il tempo dell’attesa. Si sa che dopo una meta non si sa dove andare e che è fatica ricominciare a mettere in ordine pensieri, fatiche, aspirazioni, desideri. E pur sapendo tutto questo, ciascuno non s’accontenta e va da qualche parte con intenzione. Spesso è proprio l’intenzione a non essere sufficiente e la cosa sognata resta poco più d’una curiosità appagata. Mi direte, ma di che stai parlando? Di tutto quello che sta dietro la pazza folla di cui ciascuno di noi fa parte. Anche quella ragazza a cui dissi di non buttarsi via e lei non capiva. E non s’è buttata via, ha vissuto quello che la mia testa rifiutava, posso io giudicare quello che ne è venuto? No, non era la mia scia ma la sua. Ognuno segue qualcosa, si circonda di qualche sicurezza e s’accontenta senza mai accontentarsi davvero. Un detto imbecille dice che è meglio un rimorso di un rimpianto, entrambe le condizioni fanno riferimento al rapporto tra desiderio e colpa, come se non esistesse l’uomo in mezzo e come se ogni felicità non riscattasse, almeno per un poco, una vita fatta di compromessi. Non provare il senso di colpa è necessario per seguire la propria scia, c’è un’etica interiore che parlerà al limite, un chiedere permesso per non perdersi. Forse era questo il senso di quella frase del non buttarsi via: resta te stessa sempre, anche se non sceglierai ciò che a me sarebbe piaciuto. Una libertà insomma, una piccola, grande libertà da spendere, come fa il mio coetaneo nel tavolino a fianco, che si gusta un rosso e non persegue il ridicolo d’essere altro da sé.