pedemontana

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Potrebbe essere un film di Germi, la partenza è da un centro commerciale. Quelli che si mettono fuori dei caselli autostradali e che hanno tanti negozi dentro oltre al supermercato. Negozi che aprono e chiudono, perché, prima che merce, contengono speranze e illusioni. Chi apre s’indebita, tenta e poi se sbaglia prodotto o c’è la crisi, si mangia tutto e chiude. Così nel centro commerciale le serrande sembrano chiuse per ferie, ma in realtà sono chiuse e basta. Una bocca cariata, ecco cos’è diventato il ventre opimo del nord est. Seduto su una panca, aspetto. E guardo. Entrano uomini con i calzoni corti e i sandali, le donne hanno vestiti leggeri e trasparenti, caricano i carrelli di offerte. Si avvicinano alla cassa, tolgono qualcosa, poi dell’altro, tacitano i bambini che protestano. Promettono. Poi escono. Dietro alla mia panca c’è un bar pizza e coca cola, ma nessuno mangia e le ragazze puliscono i tavolini per ingannare il tempo. Fuori fa finalmente caldo. L’autostrada era meno affollata del solito, il parcheggio è quasi mezzo pieno. Fa speranza dirlo, ma con gli occhi bisogna pur vedere che c’è ripresa. Di cosa? Cosa riprenderà? Conosco bene le zone industriali che non si fermavano mai, qui ci sono ancora molte imprese, tra qualche capannone vuoto, ma adesso sono ferme. E’ agosto. Speriamo su settembre, così m’hanno detto. Quando cala il lavoro, spariscono i sogni. Era un sogno, abbiamo sognato tutti, ma poi ci siamo svegliati. Qui c’era benessere e piena occupazione, adesso no e allora comprano il necessario al supermercato e scelgono le marche e i costi più bassi.

Attraverso il piazzale, entro in un altro edificio commerciale, qui c’è anche una palestra per fare free climbing, ci sono ragazzi che arrivano con la loro borsa, si mettono la tuta, e cominciano ad arrampicare. Ci sono anche ragazze che arrampicano, snelle nelle loro tutine, si parlano finché sono in parete, scherzano, ridono. Sotto c’è un bar, ma siamo solo noi a consumare. I ragazzi vengono, arrampicano, si rivestono e ripartono. A fianco del bar c’è un negozio specializzato in attrezzature e alimenti dietetici da palestra. Qualcuno entra, guarda i bottiglioni, poi saluta ed esce. E’ importante essere educati sempre. Noi intanto parliamo, diciamo, prevediamo. Troviamo un accordo, ci salutiamo. Ognuno va verso un punto cardinale diverso. Punto ad ovest. Fa caldo e me lo godo, apro il finestrino. E’ mezzo pomeriggio, il piazzale è ancora mezzo pieno. Comincio una sequenza di strade statali e provinciali. Sullo fondo c’è l’azzurro delle prealpi. Azzurri tenui, nostalgia. Quando cammino a lungo in montagna, mi sorprende sempre la distanza che si riesce a fare a piedi:. Si vede una montagna lontana e si comincia a camminare. Poi pian piano si sale e si arriva in cima, si guarda e si vede lontana la pianura, il posto da cui siamo partiti, neppure si scorge. Poi si ridiscende e si torna dov’era rimasta l’auto o la casa, e in mezzo alla stanchezza ogni volta capisco la percezione fasulla che ci portiamo dietro. Distanze, luoghi, oggetti, tutto alterato. Non credo sia solo un mio problema, è proprio che non sappiamo dove saremo, come fa un corpo che porta se stesso a spostarsi così tanto e restare se stesso. A me meraviglia sempre, magari per gli altri è normale.

La pianura è un susseguirsi di alberi ai lati delle strade, case, capannoni, e più dietro campi. La pioggia insistente ha reso tutto verde. Inopinatamente così verde d’agosto quando il giallo e il marrone erano ben presenti. Alla radio, Molesini parla del suo ultimo libro. E’ ambientato al Lido, allo scoppio della prima guerra mondiale, al grand Hotel Excelsior. Mi torna a mente il gran ballo con lo stesso nome, il positivismo, la nascita di tutto quello che oggi conosciamo. Einstein con quattro articoli cambiava la fisica e la percezione del tempo e dello spazio e così ci consegnava in luoghi che ancor oggi non capiamo bene per le loro conseguenze. Freud cercava di dare ordine logico alla mente e alle sue manifestazioni, la pittura, l’arte faceva esplodere la percezione e tutto prendeva il volo o velocità. Su terra, mare, aria. Facile dire adesso, piroscafo, transatlantico, ma allora c’erano ancora navi di legno e vele. Tutto ribolliva e il mondo sembrava un’ immensa femminilità feconda che forniva piacere e nuovi figli. Poi i padri avrebbero sacrificato i figli in un immenso massacro. Ben presenti da queste parti le tracce di allora. Ogni uomo contiene una meraviglia: i suoi anni, bisognerebbe dargli modo di viverli, sia quelli passati che quelli futuri, ma pare sia difficile viverli davvero bene. Anche da giovani. Forse di più da giovani adesso.

Strade, rotatorie, pubblicità, altri centri commerciali, città piccole che per chi ci abita sembrano grandi e minuscole allo stesso tempo. L’attività umana non è solo cose, oggetti costruiti, simboli, denaro, successo con tutti i loro opposti. Attività umana sono anche questi campi di grano ceroso che alimentano la più grande pianura per animali da carne d’Europa, sono questi fossati mal tenuti, i canali, la gora di un mulino che gira una ruota di un ristorante, gli infiniti filari di prosecco che rigano le colline. Attività è il dubbio, l’indecisione tra un amore per il proprio lavoro, la terra, il guadagno, la contraddizione di tutte queste case, villette, giardini e aree industriali che sono ingresso e arrivederci dei paesi.

La strada è quasi una schioppettata e sino a Bassano non ha dubbi. Lì poi dovrà scegliere, o puntare su Trento inerpicandosi per la Valsugana, oppure continuare a lambire i monti per andare a Vicenza e poi a Verona. Altrimenti si sale sull’altopiano, ma questa è un’altra storia. Quelle montagne che erano azzurre ora sono verdi e grigie di rocce, schermano la luce, la ricevono dalle nubi che riflettono. Tutto si corruga, si semplifica e si addensa. I prati, le case, i capitelli, le strade che perdono le intersezioni. Nella mappa dell’andare in quest’arco sotto le prealpi, emana pensiero, cura dell’esistente, stravolgimento, ferita, violenza, riordino, ipotesi mal riuscite e slanci d’ingegno. Poi qualcuno si ricorderà il nome di un ristorante famoso, ma non saprà nulla della gipsoteca del Canova a Possagno, né della bellezza di Feltre, però calzerà scarponi iper tecnologici, senza dolersi di non sapere che da queste parti è nata la stampa a caratteri mobili. Ci saranno evidenze che lo colpiscono, ci passo in mezzo, qui si vende la cultura di un fare antico, sia esso un formaggio o una ceramica, un vino, un assale, un liquore, che qui è nato, anche se poi non sempre viene fatto qui. Però spesso lo è, ci provano. Andrea Molesini parla di un tempo sospeso: è il 28 luglio 1914 e in un grande albergo, la notizia che il mondo entra in guerra dev’essere filtrata, ricondotta alla normalità. Anche qui il tempo è sospeso, pare anche normale lo sia, ma per fortuna non c’è nessuna guerra, solo che non si sa più dove andare. Cosa accadrà. Per questo rallento e guardo attorno, come per apprendere risposte da ciò che mi circonda. E che non dev’essere muto. Sono io che non capisco. Deve pur significare qualcosa tutto questo dimostrare d’essere, costruire, fare, mutare. Ascolto e cerco di recuperare un senso, ricucire uno strappo, trovare un nuovo futuro, ché quello vecchio ormai non ha più risposte. Così penso mentre vado e viene sera.

eccessi e finte virtù

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Camminando, dove non ci sono strade, ci si accorge della semplicità e rarefazione dei simboli rimasti. Le cose perdono ambiguità e ridiventano ciò che sono. Si semplificano, apparentemente, acquistando identità e profondità. Non o che effetto abbia tutto ciò sul corpo, magari qualche neuro scienziato lo spiegherebbe con i flussi, stimoli elettrici e quant’altro, ma sarebbe leggere una mappa, non sentire un territorio. La mia sensazione è che il corpo si accordi e forse da questo -e dalla fatica antica e nuova- si svuota la mente e subentra una serenità legata al luogo. Anche per questo dovrei spegnere il cellulare e casomai raccontare dopo.

Decodificare in continuazione stimoli e simboli affatica, anche se è in automatico. Riempie di semplicità apparenti, perché molti simboli contengono divieti. Lavora la testa e non il corpo. Nella natura, e non occorre che fatichi, le cose per me s’invertono, è il corpo che sente e comunica.

Ho l’impressione che si sia confusa la razionalità con l’intelligenza e l’efficienza con il benessere. Ciò che mi consente di comunicare mi rende più difficile sentire, come agisse costantemente un giudizio di valore che mi dice ciò che è buono e ciò che non lo è, e che tutto questo confliggesse con il piacere, ma per analogia non per esperienza. Una cultura edonista che ghettizza il piacere nel momento in cui lo esibisce in forma di eccessi o lo sottopone a finte virtù, ha ben poco di naturale, al più è un altro sistema di regole che si aggiunge ai precedenti. I limiti, in natura, sono più sinceri. Si può frequentare il pericolo, ma non a lungo perché la natura non lo tollera ed espelle, quindi il cammino è più piacevole , meno adrenalinico. Il corpo ascolta e dice, stabilisce ciò che fa bene. Anche sui pensieri lavora. E quando non libera mostra almeno una strada, e la lascia al nostro arbitrio. Finalmente libero.

lettera di ferragosto

Mia cara, 

in questa estate che si spegne, l’acqua percuote il tetto, riga i vetri, si unisce in rivoli gagliardi e gorgoglia intrepida verso i chiusini. L’auto, è sotto i faggi del confine e si riempie di foglie. Stanotte il vento ha scosso a lungo i rami e anticipato l’autunno. Tornerà il bel tempo, il sole, il caldo, com’è da te credo. Pensavo prima al mare, al suo calore indolente, alla bellezza del lasciare che il tempo ci percorra stesi, ai pensieri e ai sensi pigri, i desideri senza fretta, le cose che non urgono. Anche qui non urge nulla, ma i pensieri non si sciolgono e penso che a volte siamo troppo densi di significati. Per natura, forse, come attendessimo qualcosa che riveli l’arcano di nascoste connessioni e trovi il legame profondo con chi vorremmo e con quello che ci sta attorno. Ma,troppo immerse nel divario tra attesa e presenza, le cose s’annodano come capelli ricci. Se volessimo dare un nome a questo sentire, incongruo a noi e al tempo, dove per uso l’utile soverchia i progetti e le vite si consegnano all’ immediato, dovremmo concludere che questa persistenza del sentire profondo, è una lingua della terra del romanticismo. Una piccola penisola, spesso flagellata dal mal tempo della fretta, ma splendente nei giorni di sole e che si stacca lieta dal continente dei luoghi comuni e della conformità di pensiero.

Sarà per questo essere fuori tempo,e nel sentire la malinconia che a volte t’invade, che mi prende la voglia dell’abbracciare muto, del silenzio al posto del racconto. Ascoltare e basta, mentre il respiro si accorda, come un avvolgere e tenere. Dei tanti abbracci possibili questo mi viene, partecipe e senz’altro scopo che non sia l’esserci. Come si può e meno di come si vorrebbe. Poi le vite serpeggiano, trovano la loro strada, ma al contrario dell’acqua che si raggruppa e sceglie il percorso più facile e breve per la sua forza, chi ha densità di pensiero, ondeggia, torna sui propri passi, ristà. Mi torna in mente l’infinito dibattito sulla memoria delle cose, e mentre loro, per qualche sensitivo, conservano i desideri nostri , ciò che le ha tenute, toccate, volute, e per altri sono solo oggetti, per noi la memoria indugia sull’impalpabile che ci ha deluso, su ciò che ci ha lasciato monchi di una possibilità. Era, a noi grande, e su di essa, si era generosamente investito, così luoghi e cose, diventano i testimoni di quello che non è riuscito a essere e sembrano avere la nostra impronta di tristezza. Mi pare allora che da questa memoria togliamo ciò che siamo diventati, la crescita che è seguita al dolore e così la possibilità futura ci pare tanto distante e piccola, da giustificare la malinconia dell’assenza di ciò che non è stato. Mi verrebbero, parole inutili, così è meglio il silenzio che avvolge e rincuora chi abbraccia e condivide. Di questo ci si rende poco conto, ovvero come la malinconia scavi in chi nell’altro l’avverte, e che quel vuoto chieda d’essere colmato. C’è chi fa l’indifferente, chi semplicemente non si cura, chi vorrebbe, per una volta, essere un guaritore che cancella le ferite. E per chi non è nessuno di questi uomini, che resta? Resta il partecipare, il mettere assieme, il sentire.

La pioggia ancora cade, morbida e fitta. Nella casa vicina, qualcuno ha acceso il camino, alla finestra s’avvicina una donna che fuma e tiene i vetri socchiusi. Mi guarda e non mi vede, chissà a che pensa. Forse alla stagione. Preferirei pensasse a sé, a come scorre la vita e se la imbeve oppure se le scivola addosso. In paese stamattina, rincuoravano i villeggianti raccontando di antiche nevi d’agosto, come a dire che al peggio c’è sempre qualcosa da aggiungere, mi veniva da sorridere e pure gliel’ho detto che bisognerebbe ricordarsi di quando siamo stati bene e felici non dei momenti bui. Ma questo pare non dia speranza nel futuro e così, attorno il verde, che non lo sa, cresce a dismisura e nessuno lo guarda con meraviglia. Eppure mostra, in piccola parte, cosa sarebbe questo piccolo angolo di monti senza le nostre strade e case di villeggiatura, senza i recinti e i boschi limitati dall’interesse di chi costruisce.

Sulla strada corrono auto verso qualcosa. Ci sono molti posti e luoghi per dimenticare le domande utili che il tempo ci pone. Mangiare ad esempio. Oggi i ristoranti saranno pieni, più del solito ferragosto in cui anche i prati facevano la loro parte. Le pasticcerie saranno state prese d’assalto stamattina, e molti, riempiendosi di sapore, cercheranno la conferma del momento buono, del benessere raggiunto, del futuro quieto e positivo, oppure solo di scordare il presente poco amico. Una tranquillità del non pensare e del trovar conferma nelle cose, quelle tangibili e che hanno ricordi di possesso. In fondo l’esser pieni ha molti significati e per fortuna, qualcuno positivo e felice.

In questi giorni avrei voluto parlarti di ciò che penso di me, dei libri che leggo e soprattutto di quelli che non leggo, delle ultime musiche che mi hanno dato gioia, di ciò che m’ha annoiato. Ci sarà tempo, per chi scrive il tempo non manca. E in quell’abbraccio che ti ho mandato, ti stringo e t’ascolto. Ti sento nella pioggia che nutre e parla del suo andare senza voglia, ti sento vicina e questo è più che abbastanza.

palliativi

Ho bisogno d’aggiustar qualcosa,

un orologio, una penna, un libro,

anche una cornice potrebbe bastare.

Ho bisogno di piccole cose che corrano per il tavolo,

di vitine da stringere a fatica tra le dita,

della necessità di mettere a fuoco, 

e aguzzando gli occhi, intanto pensare

perduto in problemi che hanno soluzioni.

Si potrebbe pensare che ciò sia metafora di qualcosa,

che altra sia la pena o il disagio

ma che conta se dalle risposte ingegnose,

verrà poi una strana pace

senza guerra né oggetto?

.

bradipo

Corro, divoro vita.

Io no, aspetto che mi venga addosso. Ho esaurito da tempo l’idea che la corsa mi dia di più del capire, che l’esperienza abbia un valore se non mi da nulla e non mi rende almeno per poco felice. Ho anche l’impressione che non sia la corsa ma la leggerezza il vero modo di andare innanzi. Che nella leggerezza ci sia un puntare all’essenza, un trovarla e poterla scambiare con chi ha tempo per condividerla.

Magari sono gli anni che si accumulano, ma la stagione delle corse ormai non mi attrae più. Ciò non significa che rinuncio ad andare incontro al nuovo, anche se mi attrae più la bellezza della novità. E la bellezza ha bisogno di tempo e leggerezza. Per accoglierla e per darle spazio dentro di noi.

Credo ci sia generosità nella bellezza, che sia un uscire da sé che non ha equivalenti se non nell’amore. Eppure è difficile trovare categorie morali nel fruire della bellezza. In una astrazione immemore di limiti  è davanti a noi e si propone, basta coglierla. Sì credo ci sia generosità e semplicità nella bellezza. Se c‘è una cosa che il pidocchioso non potrà mai fare è innamorarsi della bellezza, perché vorrà possederla. Ma la bellezza è qualcosa che oltrepassa i mezzi, stabilisce un rapporto dove l’impossibile non è il possedere ma il non esserne posseduti e prigionieri. E dopo tutto diventerà più opaco e privo di luce, se la si perderà come cognizione. Per questo nella velocità e nel nuovo mi chiedo se c’è bellezza, e quando c’è non è né veloce né nuova, al più lo è a me che la scopro. 

8 agosto: nasce la categoria politica del dissidente

Non vorrei scrivere così tanto e spesso di politica. E neppure sono sereno ed equanime al riguardo. Oggi si è approvata una riforma costituzionale importante, spero che chi l’ha fatta non voglia dirsi padre costituente al pari di chi scrisse la Carta nel 1947. L’Italia esce nei suoi equilibri più sbilanciata e fragile, da questa prima lettura parlamentare e purtroppo difficilmente questa legge verrà modificata nei successivi passaggi. Resterà il referendum. In futuro, con l’italicum, la legge elettorale già approvata alla Camera, che assegna gran parte del futuro parlamento, ovvero del potere legislativo (ed elettivo degli organi di garanzia) ad una minoranza del corpo elettorale, chi vince potrà vincere tutto. Essere controllato e controllore. Era questo che il Paese voleva?

Non ho apprezzato il modo con cui la maggioranza del mio partitto ha condotto il dibattito e il confronto, neppure l’opposizione del m5s e di sel, mi è piaciuta. L’una e l’altra più rivolte alla stampa che alla sostanza delle cose, entrambe accomunate dal calcolo politico a futura memoria più che al risultato in aula.  Ringrazio invece i ‘dissidenti‘ per aver rappresentato chi, come me, vuole modificare le cose e dire la propria opinione, lottando fattivamente. A Felice Casson, Vannino Chiti, Walter Tocci, Corradino Mineo e gli altri liberi dissidenti, va la mia gratitudine per la battaglia combattuta anche in mio nome. Da oggi essere dissidente assume una nuova dignità, diventa categoria politica e qualifica chi pervicacemente ribadisce una visione, una alternativa,  senza sentirsi minoranza, perché la ragione non può sentirsi tale. Essere dissidente oggi travalica la questione di coscienza, il sentire personale, diventa una possibilità collettiva e libera di far politica, di modificare la società. Un modo per impegnarsi e lottare senza per forza uscire dalla politica e mettersi in disparte o cambiare bandiera. Praticare il dissenso come coerenza a sé e alle proprie idee, praticarlo ovunque, senza pretestuosità e attese personali, andare in direzione contraria per far emergere le contraddizioni e la ragione, diventa categoria collettiva e quindi politica.

In questo giorni ascolto e penso a quanto sta accadendo in Italia e altrove. Non sono pessimista, spero solo che ciò che è sbagliato non sia irrimediabile. Capisco però che continuando a questo modo, non si risolverà molto: il tempo verrà perso su questioni importanti sì, ma non urgenti né centrali per la vita sociale. Come a Bisanzio si disquisisce e il turco scorrazza dentro i confini. Vorrei astrarmi ma non riesco a non pensare a ciò che capisco, Renzi, ieri sera, invitava ad andare in vacanza tranquilli che tanto ci pensa lui, è una idea che sotto intende che le cose non ci debbano coinvolgere poi tanto. Ci penserà qualcun altro. Una variante del non disturbare il manovratore. Mi spiace non condividere, è così semplice assentire, ma la vacanza aiuta a vedere più chiaro, e così non sono affatto tranquillo. Mi viene in mente l’ashtag per Letta, lo stai tranquillo di pochi mesi fa e anche se parlo poco, sento il peso di ciò che accade. Penso e cerco di capire, se parlo, parlo troppo, ed è come se si desse stura a un contenitore in pressione. Si è accumulato troppo in questi anni e non vedo chiarezza fuori. Ho idee semplici, distinguere tra amici e avversari, tra equità e mercato, tra solidarietà e carità. Vedo un’economia che non viene scomposta dai suoi veleni, vedo sopraffazione e iniquità. Tutto uguale? no, non lo è. Quindi le priorità per me diventano chiare: il lavoro, la giustizia, il falso in bilancio, l’evasione fiscale, i privilegi, la tutela dei giovani e delle parti più deboli della società. Non so quanti sentano le stesse cose, l’impressione è che si seppelliscano i dubbi perché implicano il coinvolgimento e in fondo, vacanza o meno, si vorrebbe che qualcuno risolvesse i problemi senza che fossimo obbligati ad occuparcene, non è mai stato così e quindi non c’è alternativa, o chiudersi in casa e quello che sarà sarà oppure essere dissidenti. Basta scegliere.

la necessaria attenzione

La vogliamo quando parliamo, quando siamo in compagnia con gli amici o con gli estranei. La vogliamo facendo all’amore e quando ci arrabbiamo. La vogliamo persino quando siamo soli e non per prenderci sul serio, ma per essere unici. Quali noi siamo. Di tutte queste affermazioni di noi, del bisogno che abbiamo sin da quando abbiamo pensato di essere indipendenti. Sin dal momento in cui ci siamo distaccati, non dall’amore che ci avvolgeva, ma dalla sua dipendenza. L’abbiamo sperimentata, per poi tornare le prime volte piangenti e poi man mano più sicuri e spacconi. E abbiamo sempre pensato, anche da disperati,  che comunque l’amore non se ne va. L’abbiamo imparato allora, già in mezzo alla paura di perderlo, l’abbiamo trasposto in ogni amore successivo. Abbiamo sentito che come uno specchio si poteva infrangere, perdere la sua forma perfetta eppure continuare a rifletterci in mille immagini parziali. Ma non era quello che volevamo. Una voglia d’assoluto, di cose che restano. Per questo in ogni situazione che ci coinvolge vogliamo, vorremmo, ci serve, la necessaria attenzione Per esserci all’altro, per stabilire che in una forma spuria di bene, noi siamo accolti e tenuti. Questo in fondo sempre vorremmo, essere riconosciuti, tenuti per ciò che siamo, mai ignorati.

il migliore dei mondi possibili

Non interesserà poi molto quello che sto per dire, ma oggi un articolo su Repubblica avvalorava qualche mia intuizione (si intuisce ciò che non ha una base ragionata di dati) e i timori conseguenti sulla formazione di nuovi regimi illiberali e non democratici in occidente. Orban, il leader democraticamente eletto in Ungheria, e che in forza del consenso sta sopprimendo non poche libertà di dissenso, dice che il benessere degli Stati (e naturalmente sott’intende che questo coincida con quello dei cittadini) prescinde dalla democrazia liberale. Per cui ci possono essere governi illiberali, non democratici, financo non eletti, purché perseguano il benessere dello stato. L’Ungheria è un paese dell’Unione Europea e solo il calcolo politico e la debolezza politica dell’idea di Europa, hanno permesso che fossero più importanti l’euro e i parametri economici per far parte dell’Unione rispetto alla precondizione del rispetto dei diritti individuali e collettivi. Questo comporta che si possano dire e praticare teorie illiberali in Europa senza che vi sia alcuna sanzione e reprimenda. La democrazia non è un sistema perfetto, anzi il connubio democrazia/capitalismo ha elementi forti di perversione, ma da questo dire che si vive meglio in India o in Cina o in Turchia, ne passa. Di certo le democrazie capitalistiche non hanno risolto i problemi dei conflitti regionali negli ultimi 20 anni, spesso li hanno alimentati, ma la democrazia consente ai cittadini non solo di parlare e di dire ciò che pensano, ma di tramutarlo in indirizzo di governo. E la democrazia funziona come meccanismo che evolve il sistema anche quando le idee positive non sono maggioritarie, agendo con il controllo e con la proposta, per cui chi è minoranza può influire sulle decisioni. Per questo i segnali centralisti e forieri di poteri forti che ci sono in Europa e anche in Italia, sono gravi in quanto tolgono la possibilità che idee giuste possano farsi strada. Il fatto è che in questi anni, i governanti, i filosofi politici, gli economisti, non hanno ragionato molto sui limiti e sull’evoluzione necessaria per la democrazia, ma si sono crogiolati nei loro angoli di potere ben remunerato pensando che questo comunque fosse il migliore dei mondi possibili. Il problema è che hanno convinto anche i cittadini (parola bellissima che evoca responsabilità, coscienza e forza), che così si sono disinteressati dando per scontato che crescita economica e welfare fossero assiomi della politica e che la crescita economica fosse direttamente correlata all’esercizio dei diritti individuali e collettivi. Siccome non è così e Orban che comunista non è, indica in alcuni paesi l’esempio per cui le cose possono andar bene per i cittadini senza tanti orpelli democratici ( nei suoi esempi ci sono la Russia, la Turchia, l’Egitto, la Cina, ecc.) forse sarebbe bene che cominciassimo a preoccuparci. E preoccuparci significa capire ciò che accade ed agire di conseguenza. Se le cose hanno una storia, basti ricordare che Hitler fu eletto democraticamente, che Mussolini usò la maggioranza per modificare la legge elettorale e togliere, di fatto, il voto.  Basti ricordare che le ragioni di rifiuto della democrazia di allora non erano dissimili da quelle odierne e che attraverso un benessere presunto si ignorò tutto quello che era contro i diritti individuali, non solo in Germania e in Italia, e le conseguenze furono immani. 

romanticismo di ritorno

Dopo la grande ubriacatura delle immagini, il progressivo analfabetismo che rendeva la parola scritta residuale rispetto al linguaggio verbale, personale e asintattico, da qualche anno la scrittura ha ripreso il sopravvento. Milioni di sms, di post, di twitt, ogni ora, in un ciarlare continuo, che percorre il mondo e chi ci sta a fianco. E all’interno di questo immenso dire mi sembra che la scrittura stia diventando una grande autoanalisi di massa. Niente di nuovo, il romanticismo aveva esaltato la parola come elemento che spiegava e rendeva rinnovatore il gesto. E così faceva emergere l’uomo e lo rendeva protagonista della storia. La letteratura in fondo è sempre stata una grande terapia che quasi mai guariva, ma che induceva guarigioni nei simili. Ora, grazie alla rete, la rappresentazione di sé è uno specchio continuo raccontato, un farsi che attende verifiche. Il mi piace è la ricerca di approvazione e anche il commento (seppure già indice di una comunicazione virtuale) lo è. Forse questo è il limite terapeutico della scrittura pubblicata sui blog, cioè il fatto che si fermi ad una impressione. Come un guardarsi allo specchio e non vedersi oltre il primo sguardo.

La scrittura come terapia e bisogno dovrebbe anzitutto essere rivolta a sé, andare verso un chiarirsi. Se scrivo per qualcuno ho l’obbligo della chiarezza, se lo faccio per me aspiro a una chiarezza diversa, ovvero non fermarmi alla superficie. Per questo restano i diari, le forme private di autoanalisi, quello che è chiaro è che se scrivo su un blog, dovrò trovare una forma intermedia che mi consenta di essere esplicito quanto basta e al tempo stesso consentirmi di riflettere, di scavare in me. Per farlo si usano tutti i mezzi che consentono una condivisione, la parola scritta in forma di prosa o di poesia, la fotografia, la musica, l’elaborazione grafica, il video, il collage. Quello che si sott’intende è un mostrarsi che viene regolato, chi in maniera evidente, chi in forma più criptica, ciò che in fondo differenzia è il mezzo non il fine. E il mostrarsi è molto romantico nell’affermazione di sé come paradigma. Perché questa possibilità abbia preso così tanto e in così poco tempo, dimostra che essa risponde ad un bisogno, ovvero quello di essere e trovare propri simili. E’ in fondo strano che nell’era dell’anomia, dell’incomunicabilità, quando si è usciti dal riserbo che l’educazione imponeva ai sani, ché il mostrarsi senza ritegno era peculiare per chi non aveva freni, ovvero i folli, emerga una sorta di antidoto che consente una comunicazione mediata. Come ci fosse una zona protetta, molto simile al reale, ma senza le stesse regole. E in fondo quello che si è creato con la rete è una doppia realtà, quella comunicativa tra sensibili e l’altra, fattuale, più mascherata, ordinaria e piena di banalità. Il reale è banale e il virtuale è interessante e l’entrare e l’uscire dall’uno e dall’altro è una nuova abilità mentale. Non una schizofrenia, ma il coesistere di più piani poco interagenti. Non siamo più espliciti su di noi al bar, non facciamo discorsi troppo personali se non in cerchie ristrette eppure sui blog si raccontano disperazioni, difficoltà, analisi spietate, fatti che non sono così evidenti a chi ci è vicino se non vengono esplicitati. E’ emerso un gigantesco bisogno di comunicazione e di condivisione che era tenuto a freno ed ora si fa strada nel reale. La ricerca dell’affinità, il bisogno di non essere soli sono sintomi della solitudine del mondo, e non sono terapia, ma consolazione. Poi sono i fatti che si incaricano di verificare la nostra adeguatezza e l’attitudine alla felicità. La dittatura dei fatti, però, forse viene in parte modificata dalle piccole sicurezze dell’autocoscienza, di sicuro si sta creando del nuovo che riscrive delle regole. E al solito la norma prende atto di ciò che avviene, non lo precede. Questo fa sperare che si sia messo in moto qualcosa che farà bene, che metterà più in luce i sentimenti e il sentire. Forse è per questo che sento la rete come un prodotto del romanticismo che riprende quota nella società. E il romanticismo avrà pur fatto disastri, ma ha dato un senso al vivere che nessuna tecnologia è stata in grado di surrogare.

2 agosto

2 agosto. Bombe a Gaza. Nessuna tregua, interessi inconciliabili. Servirrebbe una azione di forza dell’occidente, della democrazia per imporre la paca. Ma la democrazia non contraddice se stessa, soprattutto se gli interessi economici e di potere non sono evidenti. E’ assurdo pensare che la democrazia violi se stessa in nome della pace, dell’equità, del diritto a vivere dei popoli, dei più deboli tra essi, eppure è così. Da tempo si parla di democrazia mitigata, da tempo essa è operante, senza che nessuno lo affermi apertamente. Quindi lacrime virtuali, ciascuno sta dove è sicuro, il pilastro del valore della vita è una finzione che vale al più vicino a casa. Non inquietiamoci troppo questo è un mondo riservato a chi può goderlo e lasciamo che le paure restino virtuali. Ieri ricordavo il racconto di Brecht su chi veniva cercato e chi si disinteressava, credo che l’abitudine alla pace in casa ci abbia reso più sordi sulla sventura di chi la pace non ce l’ha. Così semplicemente, non c’è ricordo.

2 agosto. Ero a Rovigo, quando sentii per radio la notizia della strage a Bologna. Che fare? Mi chiesi allora. Speravo nella verità e nella sua funzione risanatrice. Così, assieme a molti altri, chiedemmo la verità, ripetutamente, senza stancarci. Chi non ha vissuto quegli anni, non ricorda che c’erano le stragi in Italia. Ripetute. Bologna fu ancora più grave, fu una pugnalata, e generò ancora più paura. Quando andavo a Roma in treno, la notte, nelle gallerie, dovevo forzarmi di dormire, di non pensare, di sperare. Cosa sperare? Che non sarebbe accaduto a me. E non cadere nella voragine della paura. Fare quello che era giusto fare, andare in piazza, fare il proprio lavoro. Poi senza sapere la verità, le stragi scomparvero dalle paure. Non c’è ancora un mandante per quanto successe, ma chi non ha vissuto in quegli anni non sa e non può ricordare e forse non gli interessa più di tanto. Interessa a me e molti altri e questo rende le commemorazioni un fatto di allora, ma dimenticare non fa mai bene, non aiuta lo Stato, né la democrazia.

2 agosto. Il primo grande esodo dell’estate. Bollino rosso. Code chilometriche. Così dicono le notizie, e sono le solite di ogni anno, anche se osservano che non è come gli altri anni. C’è crisi. Qui i villeggianti sono arrivati. Riempiono i bar, i mercatini, le piazzette.  Parlano tutti assieme, di cibo, di politica, di sport, di gite, del tempo. Stanotte l’acqua scrosciava dolce sul tetto, sembrava una piccola cascata, ma questa mattina il sole filtrava tra le persiane. Fuori le nubi erano gonfie e bianchissime, su un’altopiano il cielo mutevole fa parte dell’arredo atmosferico. 21 gradi. Quest’anno verrà ricordato a lungo, lo dicono tutti, sto zitto perché so che non sarà così, se ne parlerà il giusto poi basterà un po’ di sole e una nuova estate in cui sperare, per archiviare tutto. Si lamenteranno più a lungo gli albergatori, ma un po’ ci siamo abituati e negli anni in cui la crisi non c’era i prezzi non calavano. Passerà.

2agosto. Una quiete da stagione estiva senza estate e da vacanza. Lettura, passeggiate, scrittura e pensieri. Va in vacanza la testa? Difficile. In altri anni sarei stato altrove, ma rompere le abitudini fa bene. Chi si rassegna alla dittatura del tempo resta prigioniero. E il tempo non fa prigionieri.