felici di non negare la felicità

 

Una generazione dopo l’altra porta il peso delle vite e delle guerre, di quelle vissute vicino a noi e di quelle distanti in cui l’indifferenza ha generato l’oblio prima che accadesse.

Come nel piccolo, così grande delle vite, un amore porta le unghiate di ciò che l’ha preceduto.

Qual è stata la nostra fortuna? E come l’abbiamo usata?

E quella nuova, perché l’abbiamo negata?

Non farsi sopraffare dal passato, dalla sua assoluta relatività che fa perdere la visione dell’insieme, del nostro posto nel tempo comune e nell’universo. Attorno e dentro, schegge di realtà che non meritano mai la disperazione perenne degli errori, che si negano il nuovo nel nome di una visione stereotipata di ciò che è stato. Hanno agito innumerevoli forze e si è creduto di cavalcarle indomiti e nuovi, dovremmo ammettere di non aver capito e che l’errore è nato da questo.

 

Dovremmo dirci che non capiremo ancora e che, senza doveri, sbaglieremo liberi, felici di non negarci nuove felicità.

https://www.youtube.com/watch?v=wzMD—rmtk

 

 

Passerà

Passerà la breve rabbia, il dispetto che prende quando ciò che prometteva non mantiene.
Passerà deviando percorsi immaginati,  ripiegando attese.
Servirà giusta distanza e tempo.
Il tempo livella, è galantuomo, sistema con grande attenzione le cose nei cassetti dei ricordi.
Quindi passerà e l’attenzione si sposterà altrove, troverà nuovi motivi, ricombinerà i percorsi e indagando con la lucidità che viene dal guardarsi indietro, troverà le ragioni, i piccoli errori, per ciò che sembrava evidente e non lo era.
Una parte degli uomini crede che ciò che offre, che la capacità espressa e in nuce possano essere di per sé riconosciute; sono persone che non si mettono davanti, che non dicono io alzando la mano. Sono destinati ad essere sottovalutati e se hanno raziocinio vedranno che magari ciò che viene poi fatto, loro, l’avrebbero fatto meglio o più convenientemente. E sbagliano nel non proporsi, ma non è nella loro natura e quindi come biasimarli?
Del presente si può dire sempre molto, ma è così carico di passato da impedire un approccio sereno.
Meglio attendere e nel frattempo fare ciò che viene, esserci, guardare innanzi e immaginare il futuro che piacerebbe o almeno quello che sembra migliore di ciò che si presenta.
Si parla di cose, di fatti, di sentimenti molto meno, eppure in essi si accendono e si spengono umori. Qualche volta il cielo li accompagna, più spesso è un navigar di nuvole e potrebbe essere diverso. E qui il passerà e l’essere riconosciuti funziona molto meno e davvero il tempo dell’occasione rifulge per fatalità e potenza. Passerà lo si dice ad altri, ma noi sappiamo che quel verbo così duplice non farà davvero passare nuovamente ciò che si perde in lontanza.

la parola

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La parola volteggiava,

era farfalla d’infinitesimi pulviscoli,

scia di colore che non s’ afferrava.

Era lieta dello scorrere tra labbra, 

del preannuncio d’un pensiero,

dell’altro in cui sorridendo galleggiava.

E mandava luce, susseguiva:

sentiva in sé tensione d’atomi,

scorrer di molecole, distillar di senso, 

così, libera, generava.

Pronunciata e attesa,

era arcano maggiore

voltato e sussurrante mentre l’indeterminato raccontava,

così preciso, attento, che

filtrando tra gli occhi chiusi nel sole

dipingeva mare e cielo assieme.

Forse lo stesso colore, 

ma diverso eppure, come l’anima che ascoltava

e ondeggiava e mutava per un detto , forse sfuggito,

però voluto,

confermato nel muoversi di ciglia.

così il cuore si stendeva, e abbracciando accoglieva 

o fuggiva, rintanando nel sé impaurito,

ma ancora cercava quella farfalla,

quel lampo che scappava tra le dita,

perché dell’anima non si sopporta il grigio 

e neppure la notte

senza del colore la luce e il suono.

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=uj3SQbz-DaQ&index=7&list=RDAO-ij4NZ788

allora, e adesso?

Mentre raccontava di politica degli anni ’60, di un’economia che cresceva, di officine e piazze piene, dalle parole  emergeva la spinta di molte persone con un progetto personale e comune. Era diffuso ovunque, nelle città e nei paesi. -pensavo- E dalle considerazioni, mi astraevo e veniva  l’odore che ha l’acqua del fiume, quello della pelle scurita dal sole, la sensazione di fresco e di brivido che portava un tuffo sfrontato di paura. Avvertivo l’odore dell’erba che dissecca al sole di luglio, quello della terra che si spacca e quello dell’ombra degli alberi di greto. Percepivo  lo scorrere fatto di tanti momenti immobili delle stagioni e quello veloce della strada. Il puzzo della benzina e dell’olio delle auto della provinciale, il fischio del locale che affrontava  la curva prima della stazione, la polvere di certi sentieri che sarebbe stato meglio non fare. E dal mutare del tempo veniva l’aria densa di vapore e legna secca delle cucine con la stufa economica. C’era il profumo del legno delle tavole corrose, delle sedie impagliate, dei pavimenti delle case della bassa fatti di cotto e d’abete. E veniva il profumo che la minestra dispensava prima del primo cucchiaio, il caldo pesante delle coperte d’inverno e il ruvido abbraccio delle lenzuola di canapa, d’estate.

Questo pensavo, mentre continuava a parlare di dispute tra avversari politici  che finivano nelle osterie della piazza grande. E lì, il sabato si contrattava vino e carne da macellare. Parlava di discussioni infinite nei consigli comunali,  sul Viet Nam, sullo Scià di Persia e sull’Africa che era luogo di massacri e prime indipendenze. Citava le partecipazioni silenti dei cittadini che affollavano la sala e i battimani per un intervento che sembrava riassumere tutti i pensieri mai fatti, ma che c’erano, solo che chi parlava aveva le parole per dirli.

Sentivo in quello che diceva e in quello che pensavo, un dentro/fuori che guardava la casa e il mondo, la crescita e il cammino, l’orgoglio d’essere parte di una storia comune e quello di avere idee forti e proprie.

Capivo la città che saliva verso il cielo e la pianura, la fatica del viaggiare e la meraviglia attesa. C’era un rispetto per il sapere che veniva da secoli infiniti d’analfabetismo, ma era anche la coscienza che dietro il ragionare c’era la fatica fatta  nell’apprendere e un uso del silenzio che forse proveniva da notti insonni in cui i pensieri s’attorcigliavano  alle cose importanti che il giorno avrebbe portato. Sapere era verbo e sostantivo che s’appiccicava alla persona, poteva essere trasmesso, ma comunque faceva parte del mondo in cui la fatica era più forte se esso mancava.

Il racconto continuava e si sentivano le difficoltà collettive, la scelta che veniva fatta nel votare, si percepiva l’affidarsi che includeva un patto reciproco. Grandi ideologie erano commiste alle vite, scrivevano futuri comprensibili. Ascoltare diventava naturale, si andava ad un comizio perché qualcuno spiegava la realtà, ma lo facevano anche i padri ai figli, i vecchi all’osteria, il prete nella predica. E se non era tutto buono, però anche la ribellione si mescolava agli odori di casa, avere un’altra idea poteva portare ad andare via, ma non ad uscire dalla realtà. Raccontava e chi aveva vissuto in quegli anni, sentiva un’acuta nostalgia di cose ancora da fare, di possibilità da spendere, e non era la malinconia dei vecchi ma la coscienza che una tela di sensi s’era strappata e ricucirla era impossibile.

Una parola si è infine sposata con un’altra, entrambe sembravano lontane eppure indicavano una via d’uscita: dignità ed ironia, ovvero conoscere la propria importanza ed usarla per smussare il rumore acuto che offende le idee, il sapere, le vite. 

ripensando a lettera a una professoressa

Qualche giorno fa era il 50°anniversario della pubblicazione del libro dei ragazzi di Barbiana: Lettera a una professoressa. C’era molta forza nelle parole di quello scritto e fece cambiare modo di vedere di una intera generazione perché interpretava con pensieri semplici quello che era sotto gli occhi di tutti.

Si disse che diceva quello che molti pensavano eppure non dicevano. Dovrebbe essere naturale ma non è così e non si sa per quale vergogna si occulti l’evidenza. Non sto parlando di verità profonde, ma di ciò che si vede e del perché lo si dia per scontato contribuendo così in modo determinante a non cambiare le cose che non vanno.  Siamo attorniati di banalità, di modi di dire e non c’è alcun pudore nel ripeterli, ma se qualcuno mette in relazione l’ingiustizia con qualche pratica sociale, con l’agire di chi ha potere, spesso subentra l’imbarazzo. Sono i momenti in cui la parola, così abusata, distorta, inoculata nelle teste fino a condizionarne il vedere diventa fastidiosa. Controcorrente rispetto ad una immagine in cui il positivo deve prevalere anche se viene solo raccontato e non praticato.

Lettera a una professoressa parlava della parola, della scuola, della società e metteva tutto in modo così consequenziale e logico che chi leggeva capiva la ragione della sua posizione sociale. Inutile dire che quel libro divenne il testo su cui si fondò una rivoluzione della scuola che da  verticale voleva essere orizzontale.  Pier Paolo Pasolini lo definì il libro più bello dei miei tempi e forse è inutile chiosare questa affermazione se non dicendo che in esso c’era molta verità.

Don Milani collegava la parola, il suo significato, alla diseguaglianza, all’ingiustizia, alla sopraffazione sociale. Pensava che la scuola avrebbe dovuto essere lo strumento per la comprensione e per l’inclusione.

La scuola non come riproduttrice ma come generatrice di una nuova società che cambiava partendo dalla comprensione della sua condizione. Non esistevano i bocciati nella scuola di Barbiana, esisteva un sapere che interconnetteva le acquisizioni dotte con quelle popolari. Il teorema di Pitagora non cessava di esistere, ma diventava un modo per misurare la realtà. Lavorare sulla parola significava darle peso, significato e nobiltà. Si poneva il problema più arduo per chi capisce ovvero la semplicità in modo che ciò che si era acquisito fosse disponibile a tutti. Così i maestri erano intercambiabili e chi capiva spiegava. Questo è stato il procedere della storia sociale dell’umanità dove il sapere si è trasmesso per verifica del reale e ha generato lavoro, cambiamento dell’ambiente, cibo, rispetto. Il sapere esoterico, iniziatico ha alimentato la credenza ossia la risposta con parole incomprensibili all’incomprensibile. Il contrario della scienza, la base per il potere.

Barbiana e i suoi ragazzi erano una congiunzione favorevole degli astri, del caso che aveva portato un prete scomodo in un posto impossibile. Ma era un buon maestro per chi stava attorno a quella pieve, e con i suoi scritti, parlava al mondo. Raccontava l’evidenza e lo diceva con la cognizione delle parole che hanno significato e così mostravano una verità e una realtà.

Si potrà dire che non era l’unica verità, ma la realtà coincideva con il vissuto.

Pilato chiede a Gesù: Cos’è la verità? È una domanda fatta da un procuratore, da una persona che conosce la legge e giudica, ma diviene un pensiero a voce alta e si allontana senza attendere la risposta. Eppure avrebbe a disposizione un Rabbi, un conoscitore delle scritture, un maestro. Pilato si allontana perché sa che la verità è personale e che poi, quando diviene patrimonio di molti diventa eversiva, cambia l’ordine delle cose, dice ciò che è giusto e ciò che non lo è, e costringe l’uomo a scegliere. Meglio il relativismo che lascia tutto come sta. Don Milani chiedeva di capire, riflettere e scegliere. Non gli andava il relativismo ed era un Maestro.

Mi chiedo perché non esistano oggi i buoni maestri, perché si sia affievolita la volontà di spiegare l’evidenza. Forse perché nessuno li ascolta? Se così fosse questa generazione sarebbe perduta e la speranza dovrebbe passare al futuro.

Lettera a una professoressa insegnava che la pazienza che subisce non è una virtù, ed è un insegnamento che non ha perso neppure un atomo del suo valore.

 

 

 

 

 

la razionalità del male

La cronaca e le ricorrenze non risparmiano nulla. Se è vero che nulla si ripete uguale, ci sono delle costanti nel male che dovrebbero essere indagate. La strage di Capaci, la morte di Falcone e della sua scorta e quella che seguì con Borsellino, la strage di oggi a Manchester con le prime 22 vittime, tra cui giovani e bambini, sono tra le molte stragi che continuano, con matrici diverse e motivazioni diverse, in questo mondo che usa la distanza per emozionarsi e per sancire le solidarietà. Noi ci sentiamo male, ci immedesimiamo, partecipiamo e poi dimentichiamo, sino alla prossima volta. Basta affidarsi alla speranza, al caso, oppure serve altro ?

C’è una razionalità nel male. La mafia è razionale come lo è un terrorista dell’isis o un trafficante di droga sudamericano, e allora ci si chiede come mai non sia possibile prevenire, smontare i ragionamenti, controbattere. 

È il bene ad essere irrazionale in questo mondo, e pur essendo prevalente, ci sorprende anche quando lo attendiamo. Lo consideriamo scontato solo in cerchie sicure, molto vicine a noi e legate da affetti. È strano che per estensione si associ la sicurezza con l’impossibilità del male e che solo in essa si pensi la condizione del bene perché ben poco è sicuro. I drammi in famiglia infatti dimostrano il contrario, la violenza sulle donne dimostra il contrario.

Ma restiamo alla razionalità del male. Nella sua semplice geometria esso agisce con rapporti di causa effetto, ha un obiettivo e lo raggiunge. Dovrebbe essere prevedibile ma per la complessità del mondo e per la stessa libertà degli uomini, non lo è. Però la sua razionalità pesca in una parte sottostante l’evidenza, come vi fossero regole che valgono solo in superficie. Per ogni assassino stragista ci sono molti altri che non fanno ma condividono, quindi esiste una platea a cui il male si rivolge e non è piccola, ma soprattutto è tra gli altri uomini e ne condivide gran parte dei tratti, delle abitudini, persino delle leggi. Quindi c’è una scissione di razionalità che motiva alcuni a considerare razionale e giustificata l’efferatezza e questa è presente ovunque, ciò che ci salva è che per molti ciò è abominevole. Gli animali non hanno questo substrato che consente loro le stragi, agiscono per motivi evidenti, l’uomo no, ha un simbolismo che vuole mettere sull’atto, che ne esalti l’efferatezza e la sproporzione con un richiamo all’intelligenza. Il male vuole insegnare ad altri e così agisce nella mente razionale e perversa di chi lo compie. Per questo bisognerebbe che l’indagine sul male e sulla sua modalità si spingesse nel profondo, non lo considerasse eccezione ma un fantasma che dorme, e che i risultati di questo indagare contaminassero l’agire sociale. Lo includessero. Invece la società attraverso la legge e l’etica pensa di arginarlo e lo esclude, ma si vede che questo non basta. È necessario uno sforzo per togliere le ragioni del male, modificando la comprensione e il comportamento sociale. Credo che in questo momento sia ancora più necessaria un’indagine sulla razionalità del male nella società, e non perché vi sia più male di un tempo. L’efferatezza umana ha raggiunto livelli indicibili nella storia, anche recente. Ma oggi c’è una fragilità e una sensibilità che possono aiutare ad affrontare il problema del male, la sua diffusione, il suo essere strumento per affermare altro. Insomma si può affrontare il cinismo di massa e la solitudine dell’individuo indagando, espungendo le radici della malvagità, non negando i problemi, affrontando la difficoltà delle ragioni e delle diversità. Credo che non sia possibile, come in passato, opporre al male una simmetria di stragi, risolvere il male col male. E neppure è possibile nascondere il male sotto il tappeto delle notizie che si susseguono: se la mafia è un problema ed è il male, quella bisogna capire, affrontare e risolvere. E questo vale per l’isis e per qualsiasi altra espressione organizzata che contempla la razionalità del male come modalità dell’agire. Se vogliamo un mondo aperto e libero dobbiamo indagare sul lato nero dell’uomo, su come combatterlo e renderlo irrazionale, questo sinora è stato rinviato ma pare che ora non si possa più. Essere più sicuri significa non avere paura dell’altro, È tutto in questa semplice considerazione, ma ciò che ci sta dietro è in gran parte da scoprire.

le donne

Le donne sono diverse dagli uomini, spesso parlano di loro stesse riconoscendo peculiarità che agli uomini sfuggono. Usano il genere per riconoscersi vicine oltre l’apparenza. Manifestano solidarietà impensabili e piangono quando sono ferite. In non pochi casi riescono a sciogliere grumi di solitudine in nuova vicinanza, se scelgono di essere sole è dopo aver attraversato un deserto, un mare, una foresta.
Le donne usano una parola che non descrive nulla oltre la biologia: il genere e con essa elevano un vetro oltre al quale gli uomini guardano, vedono, cercano di capire e a volte capiscono: la loro diversità e differenza. E come accade davanti a una vetrina che espone i desideri e non si hanno i mezzi per renderli un po’ propri, resta, agli uomini, una sconfinata ammirazione e tristezza. Solo quando riescono a mettere assieme una complementarietà, che qualcuno chiama amore, la meraviglia degli uomini e la loro insufficienza nel sentire si scioglie in un abbraccio. Non importa quando esso è fisico e quando resta nel pensiero, è un abbraccio che continua e tiene assieme. E lì, finalmente, il genere prende significato e scompare.

nodo e gropo

Un nodo. Come quelli che mia nonna mi insegnava a sciogliere.

(In realtà lei mi insegnava la pazienza e il nodo lo chiamava gropo. Che era cosa meno raffinata e suscettibile di analisi, ma la sua ruvidezza lo rendeva scioglibile. Sciogliere è riportare le cose in un ordine accettabile.)

Solo che questo nodo è dentro e riassume altro.

Cosa include la topologia di un nodo oltre all’evidenza ?

La complessità.

Cioè tutto quello che non si riesce a maneggiare: il futuro, i ricordi, le cose non fatte e quelle, purtroppo, fatte, i no non detti a tempo, il muro dei sì, ciò che si è tenuto a forza e ciò che si è tagliato. Beh, tagliato è una parolona visto che dentro al nodo c’è anche quel legame.

Un nodo tiene assieme e impedisce di andare dove si vorrebbe. Come i cani a catena. E questo nodo non si scioglie. Non con la sufficiente velocità, almeno. E non va né su né giù. È lì a ricordare che solo con le dita che portano al cervello si può agire per non aggiungere complessità.

Il contrario della complessità non è semplicità, ma scelta, errore, pazienza.

Ecco, tutto qui.

Semplice essere complessi, molto meno trasformare i nodi in gropi per scioglierli davvero. 

http://https://www.youtube.com/watch?v=UjWYw-w9rKg

blu

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Hanno scoperto un nuovo colore. Un blu così intenso che mai si è visto prima. Per caso, come accade spesso per i colori sintetici, mescolando indio, manganese e chissà cosa. Cercavano una fibra conduttrice e dall’imperizia di uno studente è venuta fuori questa nuova frequenza d’onda. Naturalmente l’hanno brevettato, sia il colore che il procedimento, e visto che gli americani sanno cos’è il marketing, adesso c’è un concorso per il nome. Solo giovani. Attempati e perditempo, astenersi. Magari non hanno pensato che il blu appartiene proprio alle generazioni più agé e che i giovani frequentano con molta libertà altri colori. Quello che mi ha fatto pensare è che il blu della cappella degli Scrovegni era fatto di lapislazzuli mescolato con chissà quali resine organiche ed è venuto il blu di Giotto. Oppure osservando i maggiori abitanti del pianeta, gli insetti, si scoprono variazioni infinite nel pantone della natura. Che se ne frega dei brevetti e continua imperterrita a produrre variazioni d’onda utili. A che? Alla salute, all’accoppiamento, all’allegria e alla vanità, al mimetismo e chissà a quanti altri usi pratici. Mi piace l’idea del caso che inventa e ancor di più quella del caso che si diverte. Tanto che alla fine mi sembra che di caso abbia ben poco. 

Fruà

Strette strade fuori dalle antiche mura, tra siepi e case
il regno del libero gatto
e dell’indifferente beffa ai costretti cani.
L’aria corre e s’imbeve di rose: a sera faranno gara coi gelsomini di minuscoli giardini.
Qui c’è quiete e grandi storie
un tempo fatte di cura e di centrini,
d’edicole devote a madonne e santi
e di rosari a maggio.
Adesso tra voci incerte e negozi chiusi
si trattiene un vicinato di piccole notizie e stagioni dispettose.
Son passati i grandi amori:
le luci a lungo accese,
le diaspore, gli obblighi affogati nei silenzi,
si sono scrostate le passioni come i muri che mostrano le argille della bassa,
e si son fusi, mattoni e vite, un tempo state
e più spesso consumate.
Fruà usa la mia lingua antica per l’ abito troppo a lungo adoperato,
però ancor comodo come nessuna nuova vita sembra poter fare,
e così nella scelta del mattino tornano al vecchio abito pulito,
come un’abitudine che tiene assieme il giorno
con la notte appena consumata.