come ti vorrei

Vorremmo essere intuiti, capiti nella cura e nel desiderio. La nostra mappa semplice e poco segreta sembra palese. In fondo ciò che vogliamo è solo attenzione. Il correlato del bene.

Per ogni desiderio che si incontra, la misura della delusione oppure della sorpresa felice, è solo in noi stessi. E l’altro non capisce e ne viene sorpreso.

Il tempo giusto, la misura, l’intuizione, come in una scala di definizioni, sono elementi che emergono in quel senso di soddisfazione o di delusione che c’è nel vivere un rapporto. Questo ci dice che il per sempre è soggetto a continua verifica e che, se l’amore o il bene non sono in discussione, lo è la loro misura.

Sull’altro si proietta una grande responsabilità: quella di essere dentro di noi. In continuazione.

Così ogni rapporto è costellato da una infinita serie di piccole mancanze, di disattenzioni non volute.

Un contenitore di infinite solitudini competitive, questo pensavo, mentre guardavo persone compiersi e deludere. Compiersi e deludere sono gli estremi di un arco teso che tiene pronta l’incompiutezza, a scoccare verso il cielo o verso il cuore. A volte l’una e l’altra assieme.

http://https://www.youtube.com/watch?v=ENrRAIzlL1A

marciapiedi puliti e monetine

Un africano, giovane, alto e magro,  sta spazzando il marciapiede in via di Torpignattara. Un cartello dice che è volontario e chiede, se si vuole, una monetina.
Sembra che dietro ci sia un racket che risponde a un problema, la pulizia dei marciapiedi, e raccoglie elemosine. È triste pensare che la pubblica amministrazione non arrivi dove arriva la zona grigia della legalità. Che la stessa amministrazione crei problemi che forse avrebbero soluzioni transitorie e di educazione  prima che di tecnica. Le regole imprigionano l’azione e sono contro l’uomo quando non vedono i suoi problemi. Non voglio dire che ci devono essere trattamenti diversi ma se il lavoro di pulizia a offerta libera lo facesse una onlus, dovrebbe avere i dipendenti in regola, la scopa ergonomica, la paletta approvata da qualche ente di sicurezza. Lo sta facendo qualcun altro, singolo o associato, in modo “abusivo” e irregolare però il marciapiedi adesso  è pulito.
Forse siamo finiti nel paradosso di Buridano e da un lato c’è la legalità e dall’altro i problemi che le persone vivono ogni giorno e non si risolvono. Quando lo Stato non affronta qualcosa accade e una crepa nell’ordinato vivere si allarga.
Più avanti, due negozianti sono usciti con le scope e raccolgono lattine, carte e mozziconi lasciati dall’incuria della notte, il pulito contagia e questa è una buona notizia, magari col tempo ne arriveranno altre.

steso a guardare le nuvole

Quello che sto per scrivere è lungo, chi avrà voglia di arrivare sino in fondo avrà avuto costanza caparbia e una sua opinione. Mi piacerebbe conoscerla perché mi riguarda, anzi riguarda tutti. 

Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere.
Fare il deserto per emergere e distinguersi.
Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto.
Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro… ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di più.
Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali, ma non siete capaci che di costruire soffitte.”

Antonio Gramsci in “Passato e Presente”, 4° dei “Quaderni dal Carcere”.

Queste parole mi hanno colpito spesso per la loro capacità di inquadrare la situazione attuale. Non solo politica, ma quella sociale, economica, relazionale. Il presente è il prodotto di una serie di azioni consapevoli e di eccezioni, ma non è un insieme dato, senza alternative. Si può modificare. Il subirlo o l’utilizzarlo unicamente per quanto di utile può dare implica che non vi sia una visione del futuro proprio e collettivo. Manca il progetto. E questo è tipico dell’eccezionalità quando una guerra, una carestia, un evento disastroso implica nuove scale di valori in cui il quotidiano sopravvivere diventa l’obiettivo, ma non è la normalità. Però si è fatto strada un modo di pensare che confonde il cogliere l’attimo con una cultura del presente come unica immutabile realtà. Il presentismo è nella tecnologia, lo si insegna nell’azione sociale e politica, è coltivato nella scuola e nella cultura della meritocrazia, che non significa il più bravo o il più capace, ma colui che raggiunge in minor tempo gli obiettivi fissati da altri senza chiedersi se questi siano positivi o meno per sé e per tutti. 

Vivere nel presente dovrebbe implicare l’avere una storia e un progetto che da essa nasce, non consumare ciò che c’è senza chiedersi cosa accadrà tra un giorno, tra un mese, tra 5 anni. Si dirà che qualunque progetto viene modificato dalla realtà e non si realizza mai appieno, ma il progetto modifica la realtà, si relaziona con essa, la determina, e attraverso questo processo determina noi. Se soffriamo d’indeterminatezza, di anomia è perché si vive solo nel presente. L’identità viene determinata da altri che lucrano sull’assenza di scelte, sul conformarsi a ciò che viene fatto credere come immodificabile.

Avere la schiena dritta significa avere principi interiori che fanno star bene se sono rispettati. Quello che sento sempre di più attorno, invece, è un piegarsi, un fuggire dalla responsabilità di avere un proprio futuro. Questa del presentismo è una ideologia che sembra avere una radice edonistica ma in realtà segmenta, compartimentizza la società, i gruppi, le stesse famiglie nel momento in cui la responsabilità cade solo su una parte, e non di rado su un solo componente se la famiglia si scinde. La società divisa in classi aveva una stratificazione orizzontale, il presente divide la società in compartimenti verticali mettendo da un lato chi può avere il presente e dall’altro chi non può. Come se fossero i desideri ad essere il collante sociale e non i bisogni.

La politica da tempo ha scelto di lisciare il pelo al gatto e di non dire la verità. Non la dice sul futuro e neppure sulla condizione che vivono le persone nel presente, non la dice sull’ambiente, sui fini che essa persegue, sul vivere e sulla felicità possibile. Non dice la verità sul debito pubblico, sull’illegalità, sui privilegi diffusi. Parla di eguaglianza e di meritocrazia ma non parla di persone, parla di conformi e di capaci. Degli esclusi non si parla perché sarebbero disturbanti in un’idea del presente che non ha futuro. E invece è proprio questo che sta accadendo: crescono gli esclusi dal presente. Un popolo si accalca per vedere le vetrine ma resta fuori, le porte di accesso sono diventate strette e, paradossalmente, il discrimine non è tra legale e illegale, ma tra avere e non avere. Appartengo a una generazione che ha avuto la possibilità di avere un ascensore sociale che ora non esiste più oppure è talmente lento e piccolo da non essere una prospettiva, ma quell’ascensore si fondava su un presente anticamera del futuro, criticava un passato che conosceva e ne teneva la parte che serviva. Insomma il tempo era ricomposto nel suo farsi e con esso le vite. Oggi questo viene scientemente negato e con esso si elide l’idea di progresso.

Spesso si confonde la tecnologia e le sue acquisizioni con il progresso, ma mentre la prima è connaturata al presente e viene di fatto subita (come ogni fattore legato ad un utile economico), il progresso è una macchina lenta, fatta di diritti che si acquisiscono, di vite che costruiscono nuove piattaforme stabili da cui avanzare. Il progresso riguarda tutti, riguarda il futuro e il benessere, quindi i bisogni, la tecnologia riguarda il presente, i desideri ed è destinata eternamente al nuovismo, ad essere vissuta in un crepuscolo di possibilità brevi in cui tutto si esaurisce e tutto può tornare indietro.

Facciamo un esempio, se mi insegnano a fare le quattro operazioni, a estrarre la radice quadrata, se mi danno un lessico sufficiente a mettere in relazione ciò che vedo e penso con le parole posso comunicare e ho un progresso, se imparo a usare uno smartphone, se faccio i conti con la calcolatrice, quando questi si spengono resto privo di possibilità di azione, quindi sono nelle mani di chi ha l’energia e me la fornisce. Questa dipendenza mi può gettare in una privazione assoluta, mentre la mia capacità di relazione acquisita, di progresso personale è per sempre. Badate bene che non sto demonizzando la tecnologia, ma l’asservimento ad essa. Non sto rifiutando il presente, ma il suo culto esclusivo. L’uomo superata la fase della sopravvivenza, ha sempre interagito con l’ambiente e col tempo, ha programmato se stesso in relazione ad un desiderio di eternità. Su questo le religioni possono dire molto. Ma oltre al presente ha considerato che i destini personali e il futuro collettivo avessero una relazione. Finché questo è avvenuto con distorsioni immani e crimini orribili, comunque una connessione nel tempo c’era, ora questa connessione sembra più incerta, ci si affida al caso e alla necessità senza pensare che l’uno e l’altra sono suscettibili di giudizio e di manomissione. Basti pensare a quanto avviene nel distacco tra problemi e soluzioni proposte dalla politica, solo che invece di modificare la politica la si considera un insieme dato e quindi ci si allontana da essa, non pensando che proprio questo facilita il potere e gli interessi di parte che lo sorreggono perché quanti meno cittadini andranno a votare, tanto minore diventerà la possibilità di cambiamento. Poche persone possono essere privilegiate, tante invece fanno emergere l’eguaglianza e il diritto. Quindi anche le vicende di questi giorni esigerebbero il rifiuto di considerare che nulla si può fare perché tanto è così, una manifestazione larga di dissenso agisce sul presente e lo modifica. Se il presente fosse una entità pensante si direbbe che la si costringe a tener conto.

Io credo che quando si dice che il futuro è nelle nostre mani non si parli solo di noi, ma di un insieme di persone che convergono su un futuro comune in cui anche il nostro star bene abbia posto. E questo riguarda il presente che prepara questo futuro, per cui ho il presente nelle mie mani, ho un passato da cui partire e ho un progetto che mi riguarda e che voglio condividere. In questo credo si riassuma la possibilità di cambiare ciò che non ci va, e non è poco, in questo mondo e di dare un senso alle vite.

Riassunto: C’è un culto del presente che toglie il futuro e denigra il passato senza ragioni di progresso. Ci verrà chiesto: ma dove eravate quando accadeva tutto questo?

chissà cos’è passato

In questi giorni, camminando, i pensieri rincorrevano le nubi e mi pareva di aver molte cose da scrivere. Ma le ho perse nel cielo e tra il verde, seppellite sotto molta musica, letture appassionate e soliloqui notturni. Poco male. M’hanno detto, molto tempo fa: quando scrivi sei incommentabile; non si sa con chi parli, alludi, insegui cose tue che dai per scontate.
Già, anche questo nella sua verità è dimostrazione di una ricerca di pochi simili, o forse, più banalmente, è il limite comunicativo che mi porto dietro. Borbotto, curvo parole per far loro seguire l’arco delle idee, mi sospendo a pensare davanti a un bivio. Percorro un po’ di strada in un senso, torno indietro, verifico, scelgo. A volte capisco e spesso no e se un discorso resta sospeso, forse lo finirò, oppure resterà appeso in attesa di qualcosa che trovi un pezzetto di memoria, un’esperienza, anche solo una conseguenza logica che lo porti avanti, ma non di una scusa che motivi un punto fermo.
Se mi annoio dell’ascoltarmi come biasimare gli altri. Potrebbe essere un epitaffio per il tentativo di colmare sempre quei contenitori che chiamiamo parole. E che poi restano quello che sono: mezzi e solo parole.
Vedo che rarefano i passaggi, capisco e non cambierò. Resteranno i curiosi, i passanti. Ci sarà chi chiede al vicino: ma cos’è stato, chi è passato? E a uno scuotere perplesso del capo, se ne andrà pensando ad altro.
Ed è bene così.

appigli

Pur insufficienti le reti basate sull’affetto tentano di funzionare. La famiglia, gli amici, i circoli, l’appartenenza o meno a una fede che comporti uno scambio tra persone, sono reti. E queste precedono la società istituzione che di fatto è diventata la rete più labile.

Un tempo le persone uscivano di casa senza chiudere la porta contando sul fatto che i vicini avrebbero scambiato protezione. E funzionava. C’era anche poco da rubare, allora, ma spesso quel poco faceva la differenza tra la miseria e l’autosufficienza. Mia nonna non chiudeva la porta di casa, più volte fu visitata dai ladri ma erano quasi parenti e in fondo non ci badava troppo.

Tornando alla rete di relazioni, essa diviene il discrimine non tanto della sicurezza ma della solitudine. Una buona rete di affetti permette a una persona che affronta un problema importante di non piombare nella disperazione. Soffermiamoci su questa parola: disperazione è il contrario della speranza ovvero del trovare una via d’uscita alla propria condizione esistenziale. Chi conosce questo tipo di solitudine sa che essa attacca gola e cuore, che annaspa e cerca un appiglio prima dell’assenza di forze e della prostrazione. Se c’è una voce, una presenza nella rete che si è costruita, allora è possibile dare un nome alla paura, raccontarla; già questo ne riduce l’impatto perché la voce sembra parlare di un terzo e permette di vedere/sentire dall’esterno. A questo sentire sé raccontare, s’aggiunge la presenza di una persona in cui è riposta fiducia, da cui si riceve condivisione e tutto questo permette di risolvere il primo problema ovvero l’angoscia disperante della solitudine non scelta.

Quanto funzionano oggi queste reti, quando tutto spinge all’atomizzazione dei rapporti e la loro riduzione al solo presente?

Sono nettamente in crisi e la virtualizzazione delle reti fornisce un’apparente risposta. Ci si racconta nel buio, si ricevono segnali, però si tende a reiterare i comportamenti, non a vedersi e ad ascoltarsi, per cui ciascuno fa i conti con la dimensione fisica del disagio che di virtuale ha ben poco. La solitudine e la paura sono emozioni/condizioni politiche, cioè nascono da una impostazione sociale che non solo non le risolve, ma le utilizza per propri scopi di mantenimento o conquista del potere. Ad esempio sono enfatizzate da una concezione fortemente competitiva della società che investe ogni campo sino ai rapporti di rete più interni ed elitari ovvero quelli amorosi. Lo status economico sociale interferisce con essi e in una situazione di precarietà competitiva, le reti diventano insicure perché la competizione si trasferisce all’interno della stessa rete. E non si tratta solo di competizione economica ma di solitudine ovvero la fiducia diminuisce se il disagio trova anziché l’ascolto l’esibizione di un altro disagio sentito come più importante. Insomma anche nelle reti più strette si introduce la richiesta esclusiva ed egoista che massimizza la propria condizione e la mette in competizione con quella di chi chiede aiuto, fino a banalizzarne la sofferenza. Questo è il danno assoluto per una relazione, ovvero una aggiunta di solitudine da parte di chi doveva dare fiducia. 

Siamo tutti più soli e comunque gridiamo nella notte, perché le nostre reti relazionali degradano per labilità di legame e mancanza di manutenzione.

Ci si dice che gli amici si riconoscono nel momento del bisogno ma quella è una scrematura che dovrebbe essere stata fatta prima perché quando serve, l’amico non è una finzione virtuale ma un punto reale di condivisione. Anche quando allarga le braccia per impossibilità reale è vicino e parte della rete di sostegno mentre chi trova scuse che si sentono fasulle avrebbe dovuto essere lasciato prima. Cosa non facile quando le cose vanno bene.

C’è però un modo per capire chi è vicino da chi non lo è e si basa sulla condivisione e la generosità: una persona che ascolta, che condivide e non sovrasta, che rispetta e chiede rispetto, una persona generosa, è parte sicura della rete che toglie dalla solitudine. Ci si può sbagliare ma accade perché si vogliono ignorare i segnali. Lo sappiamo anche in amore che ciò che non ci va bene sino a non poterne più, l’abbiamo sempre saputo, solo che per onnipotenza si pensava di essere in grado di aggiustare, di modificare l’altro. Però le persone cambiano principalmente per necessità, oppure per apertura e generosità e questo lo sappiamo, a partire da noi stessi, basterebbe tenerne conto e non aver paura della solitudine del dire la verità.

Molto dipende da noi, ma non veniamo aiutati nel mantenere coesione sociale, solidarietà, che è il primo e più importante vincolo di difesa di una comunità non immaginaria.  Per motivi di dominio e controllo troppo ci viene inculcato, imposto sotto vesti fasulle e non rispettose delle persone e ciò che ci viene socialmente offerto è un boccone fintamente appetitoso e avvelenato.

Resistere a tutto questo, creare reti di affetti reali è una risorsa impagabile e se in una vita restano punti di riferimento forti possiamo dire di aver avuto l’unico successo che conta: quello con noi stessi.

http://https://www.youtube.com/watch?v=v2yRJaNEPDE

segni di vita

Crepitano i fuochi di marzo. Mucchi di sterpaglie da cui parte la rinascita, bruciano sulle colline. Sono legni incauti di gemme, che ardono assieme ai tagli d’autunno, che si fondono col marcio che s’era scordato, che cantano in un rumore di schiocchi e ansimi, che soffiano sibili d’umori, finché superato il crinale del primo calore, mormorano, col confuso uniforme di piccole voci delle cose che disfano. Legna attonita nel cambiar di stato, forma, intendimento. Si sarebbe sciolta nella terra e s’inerpica in colonne di fumo verso il cielo. La fiamma generata sospinge, sorregge, mostra nel crepuscolo, il fumo bianco di vapore, fino alla notte. Poi regnerà solo lo sfogonare delle fascine gettate per ultime, col fuoco che pian piano s’ acquieta, borbotta, fino al silenzioso letto di braci, rosso come il cuore della terra che cuoce. C’è ancora un piccolo rumore che permane, d’aria che si sposta e irradia, ma è simile a un vento che pur parla e si confonde con la brezza della notte. E nessuno l’ascolta mentre una forca o un badile disperde la brace. 

Distante chi vede i fuochi capisce che la primavera è annunciata. Lei, di sicuro, ha ordito da tempo, s’è gonfiata sotterra, ha risvegliato orologi di radici, ricominciato a bere liquidi e sali, si è stirata nel buio assoluto e ha capito con i suoi strani sensi, il calore che arriva. Ora ha bisogno di luce, allunga un braccio, una mano che scava, poi rizza le spalle ed inizia una spinta possente incurante del peso, della crosta così dura rispetto alla sua tenerezza bambina. Vincerà.

Lontano dai fuochi, qualcuno si chiede dei presagi, pensa disgiunto, che il cibo porterà bene alle vite. Ma cos’è il suo cibo? Smarrita la fame nell’oscenità della rappresentazione continua di cuochi che non vogliono essere tali, ma bensì capi e creatori. Artisti della serialità che si disfa, sollecitatori di succhi interiori, di sintesi mirabili raccontate, profeti di appagamenti dove il con-vincere è spesso superiore al reale. Consci che nell’artificio, della fama cosa resta se non l’apparenza e l’eccitar dei sensi? Così si muove il gusto che fonde e divide, la vista che s’appaga in geometrie sintoniche di colori (ma diciamocelo, ormai senza fantasia, e sempre uguali dopo la prima sorpresa), e l’odorato, pur in sé sufficiente (ahimè spesso vilipeso dopo la prima ondata di profumo e di calore), araldo contraddetto dal gusto nel discernere il buono dal bello. E tutto questo che c’entra col crescere del grano, con l’erba che ingrasserà animali di pascolo? Chi metterà assieme la semplicità d’una sapienza che ha trasformato l’uomo da raccoglitore senza patria in stanziale geloso di fatica e conoscenza? Nel cibo c’è la certezza della vita, il possesso che sottintende la continuità, in fondo le patrie sono manifestazioni di stagioni favorevoli e di abitudini a mietere e pascolare, di necessità di focolari, di lingue per dirsi e dare nomi alle cose prima che confini, ma la storia è fatta di bulimie più che di necessità soddisfatte.

I fuochi annunciano il tempo del curare se si vorrà raccogliere. Parlano oscuramente a chi non decifra i segni, a chi non legge le faville che seguono l’andar verso. Verso cosa se non noi stessi? Verso chi, se non oltre il limite delle vite che vogliono camminare e sono inchiodate su sedie, metafore di poteri immobili.

I fuochi parlano di fortuna, di correnti che la portano, parlano di cibo ancor vivo, di possibilità che si scontreranno nel caso. Segnano le colline e s’accovacciano nella notte, sono segni che possono diventare porte di significato, curiosità momentanea, ricordi di gesti ormai senza ragione, oppure scrollare di teste che corrono verso altri segni. Sono annunci d’immanenza che comunque avverrà, più forte di chi faticosamente l’interpreta e s’affida a ciò che si è ripetuto. Ma il segno è sempre più inquietante dell’apparenza e quell’oscura radice che preme è perifrasi del profondo che ciascuno contiene. Che rinasce comunque, lo si voglia o meno, in sommesso richiamo di cambiamento. Non ascolta nessuno questa forza, icasticamente rappresentata nei fuochi: ciò che si disfa e sale al cielo, feconda la terra. Così pochi si curano del nuovo che arriva e perdono i significati, eppure basterebbe l’acuta semplicità del connettere la vita col tempo e tutto assumerebbe un senso. 

con stima

La scelta di avere interessi lontani e inutili allo scopo delle “carriere” dona un distacco che permette di assorbire l’amarezza generata dai contrasti aspri con le persone obbligate. E a questo soccorre la disistima che sorpassa il valore, che certamente esiste ma è piccola cosa di fronte al comportamento e così si mette argine alla generosità, si separano i mondi. Questo accade nella vita di ciascuno, a partire dal lavoro dove la stima viene spesso violata e contraddetta in favore di un interesse personale oppure per arroganza o piccineria. Ma la stima è una consapevolezza che investe tutti i rapporti : non stimiamo tutti e di certo veniamo ricambiati. Non occorre neppure farsene una ragione, basta capire che la stima è una costruzione che si riferisce alla persona e non è immediata come la simpatia, l’affinità o un altro moto dell’istinto. La stima la si dà e la si perde, è un sentire dinamico dotato di un consistente intervallo di verifica.

Quando alla alla fine di una lettera si scrive con stima si dovrebbe pensare che quell’atteggiamento non è un obbligo e neppure una forma codificata per finire senza la banalità dei saluti. È un atteggiamento dell’animo che può non condividere, ma riconoscei caratteri positivi dell’altro e ne vede una statura eguale. Non è di necessità un amico ma è un eguale nell’agire, un simile. E questo non si riferisce all’umanità e non è neppure un porsi a qualche altezza vedendo chi ci è accanto, questa sarebbe un’aristocratica coscienza della propria condizione più che un’apertura all’altro. La stima è riferita invece alla dimostrazione del valore. Ovvero tu vali per me per quello che fai e non per quello che dici e questo mi fa pensare che il tuo pensiero coincida con l’azione. Non si stima l’intelligente disonesto, ma chi cerca di tirarsi fuori da una condizione difficile con onestà lo si stima. Quindi in quella stima, che si pone alla fine di un discorso, c’è un’ affinità e un’ eguaglianza nella diversità, per questo non la si dovrebbe disperdere inutilmente, proprio perché è qualcosa che si aggiunge a una relazione. La arricchisce, è la condizione per una sua crescita. Senza stima l’edificio che possiamo costruire sul sentire si sgretolerà e ricostruire una stima violata è sommamente difficile.

modesti silenzi

Rende silenti, raccontare la propria tristezza,

subentra un fastidio per la propria voce,

per le parole che si conficcano nell’aria,

così, per determinazione, si potrebbe narrare la gioia inconsulta, 

le piccole percezioni che riempiono il cuore, 

ma ancora servirebbero troppe usurate parole,

solo eco a chi ascolta.

E ancora il silenzio si farebbe strada, allora

e per respirare assieme si direbbe,

non come si sta, ma come si starebbe.

Quando le parole urgono e non bastano, 

quando trabocca la malinconia, già difendere chi ci è caro

è anch’essa cura.

E i modesti silenzi che contengono la noia di sé, 

piccolo argine all’ingiusta furia d’essere incompresi,

dovrebbero essere, se non capiti,

almeno essere modestamente amati.

Brutta cosa aver troppe parole,

meglio modesti silenzi usati con amore.

extra ecclesiam nulla salus?

La frattura dapprima è impercettibile, una piccola resistenza al conosciuto che diviene pian piano tensione e incrinatura. È un mutare la certezza perché la realtà muta e ciò induce un uscire di abitudine, il porsi domande senza rifugiarsi in risposte non ragionate. Quando non c’è indifferenza è naturale porsi domande, far spazio al dubbio e guardare con occhi diversi, anche se questo produce un piccolo iniziale spaesamento e deriva. Stiamo parlando di persone socialmente attente, che hanno fatto scelte in passato, provato passioni forti, hanno cercato di capire e interpretare la realtà per poi schierarsi senza criteri di convenienza.

Si potrebbe dire che se a dubbi e domande nuove ci fossero risposte convincenti la frattura si ricomporrebbe, ma purtroppo quasi mai è così. Credo avvenga una svolta in chi dovrebbe rispondere, che è ben conosciuta in economia, viene applicata la risk analysis, ovvero si pensa che la fatica che fare per mantenere nello stesso progetto  le persone che pongono domande non giustifichi la fatica del rispondere e magari il mettersi in discussione. La risposta quindi è sempre negativa perché chi ha il potere pensa che questo sia a tempo indeterminato, e resta fermo ai paradigmi che gli hanno consentito di conquistarlo, scivolando in una coazione a ripetere. Così quella che potrebbe essere una evoluzione comune scivola verso la frattura della reciproca disistima. Qui avviene una cosa strana perché mentre l’avversario può godere della stima, colui che era amico attraverso l’insensibilità alle domande e alla non condivisione induce la sensazione del tradimento e quindi perde la stima riservata a chi ha da sempre idee differenti. Sembra che la domanda che nasce in chi condivideva sia : ma come, eravamo assieme, avevamo le stesse priorità, lo stesso modo di vedere il futuro e ora mi cambi tutto senza coinvolgermi, senza discutere con me, senza accettare che anche tu possa sbagliare? Sono solo io che sbaglio? A queste domande non c’è una risposta che sembra veritiera e si ha la sensazione di una comunicazione unidirezionale, puro esercizio di potere che afferma la sua maggioranza. Così si approfondisce la frattura e poco conta che l’esperienza dica che extra ecclesiam nulla salus, chi diventa eretico è stato spinto fuori dalla conservazione che esclude una crescita e una passione comune. Se questo vale per lo spirito, a maggior ragione vale per quell’insieme di volontà senza assiomi ma con molti tabù, che è la società. Finché si capisce che la salus è proprio fuori della chiesa perché consente di rispettare la realtà che si vede e i principi su cui si sono costruite le scelte della vita.

Dicevo che il conto cinico del potere è fatto tra ciò che si perde e ciò che si acquisisce. È un conto conservativo che vale proprio per il potere e per le sue nuove giustificazioni non per la risposta ai problemi di disagio sociale. Neppure tocca le consorterie, i privilegi acquisiti, le tolleranze per l’illegalità, i favori da elargire, perché questi sono funzionali a quel potere che si dice nuovo ma si regge sul vecchio.
Ecco perché la frattura diventa irreparabile, poteva essere mutazione ovvero un cambiare comune ma è stato prima disinteresse e poi scontro, infine impossibilità del proseguire assieme perché l’ambito non era più condivisibile. In fondo resta il riconoscimento di due fallimenti, anche se credo siano sbilanciati, ovvero da una parte c’è l’idea che ciò che si è rotto era parte di sé e dall’altra invece la considerazione che ciò sia un evolvere necessario delle cose. I problemi veri non sono stati toccati, si è spostato l’ago dell’equilibrio da una all’altra parte ma con una variazione che non ha fatto percepire una direzione, un nuovo che finalmente disegnasse ed attuasse una visione differente del vivere comune. Il campo resta lo stesso, diversi i compagni d’avventura, non i problemi che non sono mai semplici ma esigono verità e pazienza. Doti che il potere difficilmente ha se non è davvero nuovo.

super stizioni

È come un annodarsi d’intestino, qualcosa che deve sbrogliarsi dentro per lasciar liberi. E bisogna convincersi del disannodare con leggerezza e arguzia acuminata: vedi non è così, non accade ciò di cui hai paura perché è solo (solo?) una paura. Gli specchi non si rompono quasi più, eppure resta un senso di franto che investe l’anima. Il corpo, lo stesso corpo ne è scisso in più parti, come le membra fossero tirate da coppie di buoi in direzioni opposte e il ritrovarsi a pezzi fosse ricomposto con chirurgie maldestre.

Perché ricomporre e non comporre? Cioè accettare il nuovo che si è creato per rifletterci meglio prima di assemblare nuovamente. Gran parte del tempo lo passiamo a ricostruire, come se il prima fosse stato un tempo intrinsecamente felice e solo il perfido aggregarsi di contrarietà ne avesse determinato la fine. Silenziosa o esplosiva. Nel rompere del mito, ovvero in ciò che ci ha contenuto, lo specchio, c’è la rottura del sé: l’identità franta. In un prima, dove eravamo interi e poi invece, divenuti tanti, più piccoli, incoerenti, taglienti alle dita, ma soprattutto allo spirito. E se fosse proprio il frangere che permette la composizione di un sé a dimensione propria? Dai pezzi che riflettono, rifiutando la geometria di linee ritte e portati su più luoghi trovare una immagine che assomiglia. Non quella che tira indietro la pancia, mostra la rotondità delle labbra, scruta le pieghe del volto, indaga quello sconosciuto che sta guardando verso di noi, ma qualcosa di più piccolo, spigoloso e irregolare, frutto di una rottura paradigmatica che genera o rottami incoerenti, oppure l’alterità misconosciuta. Anche la ricomposizione dell’immagine attraverso i pezzi avrebbe una verità ulteriore, ovvero la dimostrazione che non è l’unità il punto di arrivo, ma il suo riconoscimento nella molteplicità. Io sono questo e anche altro, mi riconosco in ciò che vedo di me e la mia sintesi è apprezzare le diversità, farne un poligono di forze che genera equilibri dinamici.

Il mondo virtual-reale è fatto di miliardi di immagini, scritte o fotografate che continuamente rappresentano, narrano storie, mostrano identità subito cancellate dalla successiva. È stata creata la più grande discarica di sé mai inventata nella storia dell’umanità. Frammenti. Simboli che sanciscono inizi e conclusioni continue. Si strappa la fotografia dell’ex amato, la lettera (la mail) a lui indirizzata e guardandosi allo specchio si pretenderebbe di essere uguali, oppure di riconoscere la tristezza in ciò che viene riflesso. È una rappresentazione, una approssimazione del sentire ciò che ci si para davanti, mentre la tristezza sarebbe ben riconoscibile in ciò che strappiamo e cancelliamo. Lì, in quell’immagine protesa c’era già il germe della rottura, cioè una falsa unità, un assomigliare a un’ immagine non propria per accontentare (rendere contento chi si ama).

E se l’immagine non ha più un oggetto a cui rivolgersi perché non dovrebbe riflettere sulla molteplicità e sulla solitudine che accompagna l’uomo? Noi cerchiamo l’unitarietà perché pensiamo che in essa ci sia un ordine di natura, un’innocenza perduta, una pace in cui il conflitto esteriore non ci sia e con esso il conflitto interiore. La notizia cattiva è che quell’unitarietà e quell’ordine non c’è mai stato, la notizia buona è che con fatica ci si può liberare dal conformismo che ci vuole ad immagine di qualcosa che non siamo noi. Pensiamoci in quest’era di falsità globalizzate, lo specchio che si frange è ora l’immagine buttata e in questo noi possiamo vedere la ricerca di ciò che siamo davvero oppure la nostra irrilevanza quando ci mostriamo. E siamo irrilevanti quando non siamo noi stessi, quando l’immagine è quella unitaria di uno specchio che distrattamente non ci trattiene per carenza di dialogo. Gli specchi rotti li abbiamo dentro e su questo possiamo decidere se essere o assomigliare ad altri, se comporre o ricomporre. Un insegnamento viene dal mito, ciò che si rompe non è più come prima, comporta un passo avanti, mai indietro. E l’essere differenti è un male se si è in un mondo in cui tutti si conformano oppure diviene la spinta verso il cammino, la solitudine di chi cerca un luogo in cui riconoscersi.

C’è un mito ulteriore su cui vorrei attirare l’attenzione. Qualche giorno fa parlavo di architettura e di un progetto di una casa che a suo tempo mi colpì, E-1027, di Eileen Gray. L’autrice, che di scomposizioni interiori se ne intendeva e le mostrava nel proprio creare, diceva che in quella casa era possibile trovare la solitudine pur restando tra altri. Provate a pensarci quanto questo archetipo dell’essere soli e socievoli, ci accompagni, come bisogno del comporsi a fronte di una scissione esterna, una sorta di non io obbligato. La stanza tutta per sé di Virginia Woolf, le solitudini dell’uomo senza qualità di Musil, il mondo di Orwell, la musica dal ‘600 in poi, la poesia come liason tra il dentro e l’universale, tra l’additare e il sentire. Insomma c’è un bisogno di essere con sé che si esprime attraverso desideri, e questi sono i pezzi di quell’unitarietà che può essere composta solo accettando che ci siano più immagini, che questa sia la condizione per vedersi davvero. Poi come ci vedono gli altri importerà meno, ma almeno non sarà la costrizione a non assomigliarci.

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