Quello che sto per scrivere è lungo, chi avrà voglia di arrivare sino in fondo avrà avuto costanza caparbia e una sua opinione. Mi piacerebbe conoscerla perché mi riguarda, anzi riguarda tutti.
Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere.
Fare il deserto per emergere e distinguersi.
Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto.
Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro… ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di più.
Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali, ma non siete capaci che di costruire soffitte.”
Antonio Gramsci in “Passato e Presente”, 4° dei “Quaderni dal Carcere”.
Queste parole mi hanno colpito spesso per la loro capacità di inquadrare la situazione attuale. Non solo politica, ma quella sociale, economica, relazionale. Il presente è il prodotto di una serie di azioni consapevoli e di eccezioni, ma non è un insieme dato, senza alternative. Si può modificare. Il subirlo o l’utilizzarlo unicamente per quanto di utile può dare implica che non vi sia una visione del futuro proprio e collettivo. Manca il progetto. E questo è tipico dell’eccezionalità quando una guerra, una carestia, un evento disastroso implica nuove scale di valori in cui il quotidiano sopravvivere diventa l’obiettivo, ma non è la normalità. Però si è fatto strada un modo di pensare che confonde il cogliere l’attimo con una cultura del presente come unica immutabile realtà. Il presentismo è nella tecnologia, lo si insegna nell’azione sociale e politica, è coltivato nella scuola e nella cultura della meritocrazia, che non significa il più bravo o il più capace, ma colui che raggiunge in minor tempo gli obiettivi fissati da altri senza chiedersi se questi siano positivi o meno per sé e per tutti.
Vivere nel presente dovrebbe implicare l’avere una storia e un progetto che da essa nasce, non consumare ciò che c’è senza chiedersi cosa accadrà tra un giorno, tra un mese, tra 5 anni. Si dirà che qualunque progetto viene modificato dalla realtà e non si realizza mai appieno, ma il progetto modifica la realtà, si relaziona con essa, la determina, e attraverso questo processo determina noi. Se soffriamo d’indeterminatezza, di anomia è perché si vive solo nel presente. L’identità viene determinata da altri che lucrano sull’assenza di scelte, sul conformarsi a ciò che viene fatto credere come immodificabile.
Avere la schiena dritta significa avere principi interiori che fanno star bene se sono rispettati. Quello che sento sempre di più attorno, invece, è un piegarsi, un fuggire dalla responsabilità di avere un proprio futuro. Questa del presentismo è una ideologia che sembra avere una radice edonistica ma in realtà segmenta, compartimentizza la società, i gruppi, le stesse famiglie nel momento in cui la responsabilità cade solo su una parte, e non di rado su un solo componente se la famiglia si scinde. La società divisa in classi aveva una stratificazione orizzontale, il presente divide la società in compartimenti verticali mettendo da un lato chi può avere il presente e dall’altro chi non può. Come se fossero i desideri ad essere il collante sociale e non i bisogni.
La politica da tempo ha scelto di lisciare il pelo al gatto e di non dire la verità. Non la dice sul futuro e neppure sulla condizione che vivono le persone nel presente, non la dice sull’ambiente, sui fini che essa persegue, sul vivere e sulla felicità possibile. Non dice la verità sul debito pubblico, sull’illegalità, sui privilegi diffusi. Parla di eguaglianza e di meritocrazia ma non parla di persone, parla di conformi e di capaci. Degli esclusi non si parla perché sarebbero disturbanti in un’idea del presente che non ha futuro. E invece è proprio questo che sta accadendo: crescono gli esclusi dal presente. Un popolo si accalca per vedere le vetrine ma resta fuori, le porte di accesso sono diventate strette e, paradossalmente, il discrimine non è tra legale e illegale, ma tra avere e non avere. Appartengo a una generazione che ha avuto la possibilità di avere un ascensore sociale che ora non esiste più oppure è talmente lento e piccolo da non essere una prospettiva, ma quell’ascensore si fondava su un presente anticamera del futuro, criticava un passato che conosceva e ne teneva la parte che serviva. Insomma il tempo era ricomposto nel suo farsi e con esso le vite. Oggi questo viene scientemente negato e con esso si elide l’idea di progresso.
Spesso si confonde la tecnologia e le sue acquisizioni con il progresso, ma mentre la prima è connaturata al presente e viene di fatto subita (come ogni fattore legato ad un utile economico), il progresso è una macchina lenta, fatta di diritti che si acquisiscono, di vite che costruiscono nuove piattaforme stabili da cui avanzare. Il progresso riguarda tutti, riguarda il futuro e il benessere, quindi i bisogni, la tecnologia riguarda il presente, i desideri ed è destinata eternamente al nuovismo, ad essere vissuta in un crepuscolo di possibilità brevi in cui tutto si esaurisce e tutto può tornare indietro.
Facciamo un esempio, se mi insegnano a fare le quattro operazioni, a estrarre la radice quadrata, se mi danno un lessico sufficiente a mettere in relazione ciò che vedo e penso con le parole posso comunicare e ho un progresso, se imparo a usare uno smartphone, se faccio i conti con la calcolatrice, quando questi si spengono resto privo di possibilità di azione, quindi sono nelle mani di chi ha l’energia e me la fornisce. Questa dipendenza mi può gettare in una privazione assoluta, mentre la mia capacità di relazione acquisita, di progresso personale è per sempre. Badate bene che non sto demonizzando la tecnologia, ma l’asservimento ad essa. Non sto rifiutando il presente, ma il suo culto esclusivo. L’uomo superata la fase della sopravvivenza, ha sempre interagito con l’ambiente e col tempo, ha programmato se stesso in relazione ad un desiderio di eternità. Su questo le religioni possono dire molto. Ma oltre al presente ha considerato che i destini personali e il futuro collettivo avessero una relazione. Finché questo è avvenuto con distorsioni immani e crimini orribili, comunque una connessione nel tempo c’era, ora questa connessione sembra più incerta, ci si affida al caso e alla necessità senza pensare che l’uno e l’altra sono suscettibili di giudizio e di manomissione. Basti pensare a quanto avviene nel distacco tra problemi e soluzioni proposte dalla politica, solo che invece di modificare la politica la si considera un insieme dato e quindi ci si allontana da essa, non pensando che proprio questo facilita il potere e gli interessi di parte che lo sorreggono perché quanti meno cittadini andranno a votare, tanto minore diventerà la possibilità di cambiamento. Poche persone possono essere privilegiate, tante invece fanno emergere l’eguaglianza e il diritto. Quindi anche le vicende di questi giorni esigerebbero il rifiuto di considerare che nulla si può fare perché tanto è così, una manifestazione larga di dissenso agisce sul presente e lo modifica. Se il presente fosse una entità pensante si direbbe che la si costringe a tener conto.
Io credo che quando si dice che il futuro è nelle nostre mani non si parli solo di noi, ma di un insieme di persone che convergono su un futuro comune in cui anche il nostro star bene abbia posto. E questo riguarda il presente che prepara questo futuro, per cui ho il presente nelle mie mani, ho un passato da cui partire e ho un progetto che mi riguarda e che voglio condividere. In questo credo si riassuma la possibilità di cambiare ciò che non ci va, e non è poco, in questo mondo e di dare un senso alle vite.
Riassunto: C’è un culto del presente che toglie il futuro e denigra il passato senza ragioni di progresso. Ci verrà chiesto: ma dove eravate quando accadeva tutto questo?
Sono arrivata in fondo, una gran bel post, un’analisi lucida di tutto, in particolar modo della politica che non bada più alla polis…ma a se stessa, a cavalcare l’onda. Il passato ci ha preparati (non so) al presente e questo presente a che futuro ci preparerà.
@lali1605, anzitutto grazie per la pazienza. A volte spiego troppo, ma questa sensazione del presente come motore e senza riflessione mi colpisce perché è un arretramento che riguarda molto l’Occidente e rende debole l’idea della comprensione della realtà. Subentra una rassegnazione in cui ci sono solo scampoli di esistenza.
A leggerti mi è venuto in mente Zygmunt Bauman e il suo concetto di società liquida. Hai mai letto i suoi libri? Ti lascio qui un passaggio del suo libro “amore liquido”:
“La soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede, coraggio ma in una cultura in cui queste qualità sono rare, l’acquisizione della capacità di amare è condannata a restare un successo raro. (…)
In una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”, quella di imparare ad amare è la promessa di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi.
Quando è pilotata dalla voglia, la relazione tra due persone segue il modello dello shopping e non chiede altro che le capacità di un consumatore medio, moderatamente esperto. Al pari di altri prodotti di consumo, è fatta per essere consumata sul posto ed essere usata una sola volta. Innanzitutto, la sua essenza è quella di potersene disfare senza problemi. Se ritenute scadenti o non di piena soddisfazione le merci possono essere sostituite con altri prodotti che si spera più soddisfacenti (…) ma anche se mantengono le promesse, nessuno si aspetta da esse che durino a lungo; dopo tutto, automobili, computer o telefoni cellulari in perfetto stato e ancora funzionanti vengono gettati via senza troppo rammarico nel momento stesso in cui le loro versioni nuove e aggiornate giungono nei negozi e divengono l’ultimo grido. Perché mai le relazioni dovrebbero fare eccezione alla regola?”
Siamo la società dell’usa e getta, i progetti non ci sono e non se ne fanno.
Ho letto Bauman e il suo concetto di liquidità, seppure abusato, è molto efficace nella descrizione dei fenomeni in cui l’economia del consumo di massa ha messo l’intera umanità. Di quanto dici, a proposito dei sentimenti, e dell’amore in particolare, condivido tutto fuorché la conclusione. Cerco di spiegarmi, nella soddisfazione del desiderio non è che scompare il bisogno, questo può diventare latente, riversarsi in altro ma continua ad esistere e a generare insoddisfazione, per cui se tu chiedi a una qualsiasi coppia se desidera l’amore eterno, la risposta sarà imbarazzata, puntualizzerà, ma non negherà la necessità di legami che non siano fondati solo sull’usa e getta. In fisica, e in sociologia non si fa eccezione, i legami deboli sono quelli che tengono assieme la materia, e ho la convinzione che questa parte della comunicazione sentimentale non sia sta sufficientemente indagata. In fondo agli esperti si chiedono soluzioni immediate non analisi e dubbi, e allora c’è una stereotipizzazione della realtà che in fondo serve a dimostrare che essa sia immutabile. questo diceva Gramsci e questo diceva anche, non è vero. Io sono convinto che sia così. Ho lette due autrici recentemente, Elena Stancanelli e Valeria Parrella che descrivono da termini di sconfitta/ potere il rapporto con il sesso come relazione, non come progetto. La mia impressione è che ci siano giudizi moralistici sottostanti che agiscono al contrario, come se la loro negazione li rendesse inefficaci. Dico questo partendo da una semplice constatazione: chi si ricorda come fondamentale per la propria vita una scopata, e molti sensazioni diverse in situazioni di prova, di sfida a se stessi, quanto vengono ricordate come fondamentali? Lascio a chi legge la risposta, ma la mia è che si ricordano gli amori non il sesso, si ricordano le difficoltà e non gli orgasmi. Hoellebeque nelle sue particelle elementari, fa un ritratto non da poco dell’anomia nel sesso, tanto che alla fine mi sono chiesto, ma davvero è così disperante se esso non corrisponde a una identità, ovvero se non lo si colloca dentro un sentire che si prolunga, che ci riguarda? Ancora una volta ho pensato che in fase evolutiva c’è la liberazione dal paradigma, ma al tempo stesso se ne crea uno successivo che evolve il precedente e crea un nuovo benessere. Questo avviene se c’è un progetto, se le cose non si chiudono nel momento. Anche nello shopping le cose durano, si butta via la paccottiglia ma i diamanti si tengono, e questo lo lascio come riflessione perché non tutto è determinato, perduto e non si deve neppure tornare indietro, ma andare avanti ha un costo: quello della scelta e della durabilità di essa.
Io non riesco ad essere del tutto concorde con te, mi spiego meglio.
Tutti, ad un livello teorico, diciamo di volere l’amore, la serenità, gli affetti, un lavoro che ci piace, ecc…
Questo è qualcosa di innegabile. Però la cosa che secondo me ci “frega” è che c’è un differente piano teorico e pratico. Non siamo capaci di muoverci nel pratico. Non riusciamo ad impegnarci, a creare e seguire un progetto.
Tu parli di edonismo, io lo chiamo ego smisurato. Il punto secondo me è proprio lì. La colpa dei nostri fallimenti è sempre degli altri e mai nostra o al massimo “eh ma sai la vita va così”. No, secondo me la vita non va così, siamo noi a vivere quella vita e se “è andata così” noi abbiamo avuto delle responsabilità. Da qui discende anche il fatto che secondo me non siamo in grado di prenderci le responsabilità per i nostri successi, insuccessi e per il nostro essere inadeguati a volte.
Sull’amore, seguiamo un ideale romantico. Viviamo nel mondo delle idee di Platone senza scendere ad un livello pratico delle cose. L’amore quello vero, non è solo romanticismo, anzi. L’amore è quotidianità, impegno, fatica, a volte insofferenza.
Ma noi vogliamo solo l’ideale romantico e se questo viene a mancare, “avanti il prossimo”.
Poi si, ricordiamo gli amori e non le scopate. Ma per la nostra inadeguatezza poi spesso ci capita di vivere nel rimpianto. Alla fine di tutto, mi sembra di vivere in un epoca che manca completamente di coraggio. Coraggio nel parlare sinceramente, nell’esporsi, nel prendersi dei rischi, nel dichiarare un progetto e portarlo avanti.
Io nel concetto di “società liquida” mi ci ritrovo molto, forse perché appartengo ai trentenni di oggi e purtroppo non vedo la durabilità dei rapporti umani.
Perdonami E. ma non capisco il punto di disaccordo. La mia tesi è che il presentismo porta a vivere come non ci fosse un futuro che dipende da noi e quindi neppure un progetto sul presente. Questo riguarda i vari aspetti in cui l’uomo si esprime e si relaziona. L’amore è uno di questi. La relativizzazione dei sentimenti potrebbe essere interpretata come una liberazione dal senso di colpa, non è così perché ciò che si cerca ripetutamente testimonia che il prevalere del principio di piacere comunque non è evoluto in una maturazione della capacità di relazione e che neppure ci sia liberati dai vari divieti per confluire in una consapevolezza che mette assieme gli individui e li fa coppia. Piuttosto penso che questo particolare aspetto sia l’irrisolta libertà sessuale degli anni 70 che non ha portato a una nuova stabile evoluzione del modello di amore/famiglia nucleare che la precedeva.
Batman descrive ma non fornisce soluzioni che diventino prassi generale, purtroppo è un difetto dei sociologi, lo sono per formazione anch’io, che nel vedere ed interpretare la società curano più l’aspetto storico che il divenire. Si tratta di rispettare il libero arbitrio, ovvero se ti mostro la realtà tu agisci di conseguenza e la successiva osservazione dirà cosa è mutato o meno. Tornando all’amore e alla sua precarietà, al tempo della società liquida spetta all’individuo correlare bisogni, desideri in progetti di vita. La grande acquisizione di questi anni è che l’istituto giuridico non è eterno ma dal punto di vista sociale è intatto il bisogno che a partire dalla coppia ci sia un progetto che comprenda la felicità come componente di un rapporto, non solo la soddisfazione, ma la comunicazione profonda, la fiducia, gli obiettivi, le cose comuni che tolgono dalla condizione di solitudine e di possesso. Il presentismo non impedisce ma rende precario tutto questo. Hai ragione sul fatto che per età capisco poco mancando dell’ausilio dell’esperienza però pratico il dubbio è mi faccio domande, così quanto dici mi fa riflettere e cercherò risposte o ancor meglio ti farò domande. 🙂