Si alzava all’alba. A nord il sole, già a settembre faceva fatica a svegliarsi e i monti attorno ne custodivano la luce a lungo prima di lasciarlo sorgere. Un caffè, del pane e burro, le poche parole possibili da scambiare con il marito, il saluto e poi scendeva verso il lago. Qui il racconto si interrompeva, forse rivedendo i luoghi, ascoltando il ricordo di quelle parole nella lingua sconosciuta, ripensando al tempo e a ciò che ne era venuto. La sollecitavo. Ancora. Sorrideva e mi guardava, riprendendo la narrazione da una umidità che si sovrapponeva sui vestiti e che veniva tenuta a bada dal mantello e dallo scialle. Camminava in fretta fino al piccolo molo. Acqua e nebbia. La barca lunga, di legno, su cui saliva e se trovava posto sedeva, ma più spesso restava in piedi. Lo preferiva per vedere quello che accadeva e come le sponde si riempivano di colore quando la nebbia si alzava.
Iniziava la traversata e la barca scivolava in un’acqua scura, densa di profondità e di umori, era raro che vi fosse troppo vento, ma la pioggia era frequente e gli scialli si alzavano sulle teste mentre i mantelli assorbivano l’acqua. Una sera le mostrai una illustrazione dei promessi sposi dove c’era la barca su cui salgono Lucia ed Agnese, e lei la guardò con attenzione. Si, assomigliava. C’era una sorta di copertura su parte della barca, ma la sua barca era molto più lunga e grande. Tra sedute e in piedi, c’erano almeno una ventina di donne e due uomini al remo. Uno davanti che spingeva e uno dietro, che indirizzava la prua con il remo. Non si stupiva più di tanto, a Venezia si remava così. La traversata durava quasi un’ora e poi scendevano parlando e ridendo nel sole di settembre. Sarebbero tornate nel tardo pomeriggio con la stessa barca, contente di avere una casa che le attendeva. Lavoravano tutte nella stessa fabbrica e alle sette erano già al lavoro. Prima c’era la vestizione, accurata, con grandi camici bianchi da indossare. Lavavano le mani, più volte e poi indossavano guanti di filo, i capelli venivano raccolti in una cuffia che lasciava solo il viso scoperto. Poi avrebbero messo una mascherina di garza fitta su bocca e naso. Restavano fuori gli occhi. Non si parlava e gli occhi sorridevano solo nelle pause. Era una fabbrica di medicinali, esigente per la pulizia, che controllava salute e modo di lavorare, la precisione e la costanza nei gesti. Alla precisione e alla sua costanza nelle mani, era abituata da quando aveva lavorato a dipingere ceramiche fin da ragazzina. La pazienza di fare cose complicate e l’abitudine al nuovo erano venute col tempo. Credo abbia lavorato per almeno tre anni in quella fabbrica, prima di passare dalla Svizzera alla Germania. Ricordava quegli anni con il piacere di aver fatto un lavoro inusuale e bello. Si capiva dal sorriso che emergeva riandando a quando era ragazza e aveva un marito che la amava. Attraverso il suo narrare parco e legato ai sentimenti vedevo il mondo di famiglia dell’inizio secolo che si dipanava davanti a me. Ed era semplice come le sue parole che descrivevano con dolcezza cose grandi e piccole. Attraversare un lago all’alba per andare a lavorare e poi tornare la sera era un gioco e un’avventura, mentre era una certezza l’amore che l’attendeva e la casa calda.
Era mia nonna e l’amo come allora. Nella sera mi sembra di sentirla narrare e guardo il buio che si cala, ascoltando la sua voce.





