ritorno all’Etna, o quasi

La mattina portò con sé la luce, così forte che gonfiava le tende. Sotto casa c’erano voci che contrattavano verdura fresca da un carretto, poco oltre la spiaggia e già gli strilli dei bimbi per la voglia di fare il bagno. A noi portò la colazione, la consapevolezza di dover recuperare la Flavia, e l’assoluta ignoranza di dove fosse. Avevamo perduto un ‘auto in allegria e in allegria l’avremmo ritrovata insieme a quel votaBianco scritto sul muro. L’auto era lì che ci aspettava, bastava partire. Ne venne una contrattazione a bocca piena di pane e burro e caffelatte: noi saremmo andati a recuperare l’auto perché eravamo i detentori della memoria e le ragazze con i bimbi sarebbero andate al mare. Non ci aspettassero per pranzo perché oltre a trovarla la si sarebbe dovuta riparare: saremmo stati insieme a cena. Devo dire che forse la logica, forse l’autorevolezza nel porre le argomentazioni, forse la giornata bellissima e il mare blu, insomma non ci fu resistenza, sia le ragazze che i bimbi sembravano felici della proposta. Così partimmo verso Catania, in due navigatori, la peggiore combinazione per trovare qualcosa che esista dal tempo delle esplorazioni. I navigatori possono essere due, ma non assieme, il secondo deve trovare il primo e dirgli la frase magica: Mr. Livingstone I suppose… E così l’universo si ricompone. No, noi partimmo in due ed eravamo ricchi di ricordi e certezze. Mr. Livingstone se era per noi starebbe ancora aspettando. Superata Catania puntammo su Mascalucia, il nome suonava bene e ci avevamo pure cantato una canzone, la sera prima.

Quello che di notte era certo, di giorno diventava incerto, l’unica costante era quel VotaBianco che era dipinto ovunque ci fosse un muro. Qui ci assalì un dubbio, ovvero che quel riferimento era fallace e mentre puntavamo verso Nicolosi, ci tornò a mente la corsa ciclistica. Quella era stata l’origine dei nostri labirintici percorsi e dovevamo trovare tracce di quella gara. Qualche manifesto c’era e indicava un circuito che passava per Nicolosi. Riconoscemmo il punto di deviazione, non eravamo entrati in Nicolosi, ma eravamo stati deviati, ci eravamo persi fino a che un signore ci aveva indicato la provinciale e l’indicazione per Trecastagni. Questa era la nostra meta perché di là eravamo andati in due auto e tornati con una.

Continuammo discutendo a ogni incrocio e a ogni VotaBianco scritto in caratteri adeguati, trovando le giuste mediazioni, arrivammo a Monterosso. Non so quanto grande sia ora Monterosso, ma allora era un paese che all’apparenza sembrava allungarsi su due strade parallele, noi percorremmo una via Roma, girammo in fondo al paese e ci trovammo sulla parallela, forse una via Garibaldi. Posso ricordare i nomi perché tutta Italia, eccettuata la Val D’Aosta e l’Alto Adige, ha una via centrale che si chiama via Roma e una strada o una piazza parallela che è intitolata a Garibaldi. Arrivati in fondo a via Garibaldi svoltammo a destra e ci ritrovammo in via Roma. Praticamente avevamo fatto un giro di pista che potevamo ripetere quante volte volevamo senza trovare nulla. Anche in questo caso ci soccorse un samaritano siciliano. Una delle cose che raramente fanno gli uomini che hanno una meta, è chiedere informazioni. Forse è un poca di presunzione (un uomo vero non si perde mai), forse è timidezza, comunque il nostro benefattore seduto fuori di un bar, ci fece un cenno e noi ci fermammo. Sembra una scena manzoniana, la sventurata rispose e si risolve la cosa, no, in questo caso la narrazione che era complicata quanto la domanda, non c’era un Egidio che proponeva un piacevole intermezzo e una Geltrude che poteva accettare o meno, qui c’erano due giovani padri di famiglia che erano riusciti a perdere un auto sull’Etna e la cosa sembrava così assurda che chiedere se aveva visto una Flavia berlina abbandonata sembrava da allocchi.

Spiegammo, chiedemmo, e il samaritano disse sì, proprio come Geltrude. L’auto era appena fuori paese e già dalla mattina al bar ci si era chiesto di chi fosse un’auto targata con una città del Veneto, abbandonata. Sorrisi, sospiri di sollievo, possiamo offrire un caffè, una limonata, un cannolo? Il samaritano offrì lui ristoro e così iniziammo a parlare, la narrazione del guasto, l’abbandono dell’auto, il ritorno a Brucoli, le famiglie al mare, insomma un breve riassunto delle due giornate. E ora come fare a riparare il guasto? Caso volle che il nostro benefattore fosse un elettrauto e che si sarebbe incaricato lui della riparazione, ma prima bisognava capire il danno.

Era mezzogiorno passato e ci invitò a pranzo. Le solite ritrosie, non deve, non può, ci basta un panino, eccetera. Resistemmo tre, forse quattro minuti e poi ci avviammo insieme verso casa sua. La mia auto venne parcheggiata in cortile e facendo conoscenza con moglie e figli, mangiammo la pasta con le melanzane più buona che ricordi, seguita da secondo e contorni che sembrava fossero per il dì di festa. Una ospitalità memorabile per noi, usuale per il padrone di casa. Dopo pranzo andammo a ritrovare la Flavia che era appena fuori paese, davanti al muro con il votaBianco ( ma poi questo Bianco, l’hanno eletto?) e appena visto il motore e ascoltato l’avviamento, il nostro samaritano elettrauto fece la diagnosi: qualcuno aveva manomesso il collegamento tra spinterogeno e candele e forse anche la batteria non era indenne. Due ore ed era a posto. Portò l’auto in officina sotto casa e noi seguivamo. A questo punto ci disse che potevamo passare l’indomani mattina, lui andava a riposare perché il giorno precedente aveva diretto una gara ciclistica, era il presidente del comitato organizzatore, e si era stancato un po’. A pranzo avevamo parlato delle deviazioni subite, ma avevamo anche lodato l’organizzazione, quella che era carente era la segnaletica verticale e su questo eravamo tutti d’accordo, ma spettava alla provincia e quindi chissà quando mai si sarebbe adeguata. Criticare le colpe altrui induce alla fratellanza e con grandi assensi si era passati ad altro. Il nord, il lavoro, cosa facevamo, quanti bimbi, le notizie che fanno conversazione e affratellano. Poi il mio amico lavorava in Sicilia, Ah sì e dove? Allo stabilimento Anic, chissà quante richieste di assunzione. Eh sì, molte, le ultime le aveva selezionate la settimana prima ma non aveva assunto tutti. Chissà come ci sono rimasti male quelli scartati, disse la signora. Già, ma non erano proprio adatti, e lì era subentrato un silenzio prima di passare ad altro.

Siamo rimasti al riposino del samaritano elettrauto, noi ci offrimmo di attendere al bar, ma anche quello chiudeva per le prime ore del pomeriggio, ci venne offerto di stare il divano e in poltrona, ma ci pareva troppo. Così, accertato che per sera l’auto sarebbe stata pronta, ci dividemmo, il mio amico restava ad attendere la riparazione e io tornavo a Brucoli e mi occupavo della cena (ultimo pensiero dopo quello che avevamo mangiato).

Con questo accordo, dopo molti ringraziamenti e con una gratitudine evidente, cominciai il ritorno. Dopo Trecastagni trovai un albero che faceva onore al nome del paese e parcheggiai all’ombra, dormii un paio d’ore e rinfrancato potevo tornare. La sera ci riunimmo tutti, la riparazione era costata pochissimo, i racconti affascinavano i bimbi che volevano tutte le cose buone che avevamo mangiato, se non quella sera, di sicuro l’indomani. Dalle finestre aperte veniva una corrente d’aria tiepida che odorava di salso, di erbe aromatiche e di cespugli che cedevano alla notte essenze per profumarla. Voci nella strada e in spiaggia, risate e qualche accordo di chitarra. Mi sembrava ci fosse una pace fatta di tranquille avventure, del profumo della pelle che aveva preso molto sole, dei giochi da tavolo in cui tutti vincevano, ma i bimbi di più. Si era conclusa un’avventura che il caso aveva resa bella e memorabile, la si sarebbe potuta raccontare insieme, dabbenaggine compresa, per sorridere d’inverno con altri amici. Quello che non si sarebbe potuto rendere era la sensazione che ciascuno aveva provato sull’Etna o meglio sul Mongibello, dal Gebel arabo che significa monte, ripetuto due volte, ad attestarne la primazia e l’unicità. A me era rimasto il mistero e la forza della terra che ignorava gli uomini, eppure parlava con loro e se non capivo, mi insegnava a rimettere a posto le dimensioni. Bastava e avanzava per guardare diversamente il mondo.

6 pensieri su “ritorno all’Etna, o quasi

  1. Grazie, Willy. Con i nomi dei paesi (te ne sono infinitamente grato!!) mi hai accompagnato in uno splendido giro della memoria. Visioni indimenticabili. Grazie🤗💙🙏

  2. Quello che genera il Mongibello è un suono profondo, che si interrompe e sospende l’udito e lo mette in attesa. Non posso dire perché ma mi ha lasciato un fascino più ripetuto eguale. E non è stato l’unico vulcano in cui sono stato. Ma tu queste sensazioni le conosci bene.

  3. Grazie Marina, è stata una vacanza memorabile anche per noi, dopo abbiamo percorso tutte la province siciliane fino a Palermo dove ci siamo imbarcati per Napoli e per un altro vulcano.

  4. Che bei racconti Willy ! Sembra che il tempo non abbia scalfito niente in te . È tutto integro e limpido ,molto di piu che un semplice ricordo . Che bello ! Non ho mai fatto escursioni sull’ Etna . Grazie di cuore per l’opportunità che ci hai dato di vivere questa singolare e gioiosa esperienza , anche da lontano …

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