il bandolo e la matassa

estivo salmo laico

Libera i nostri occhi dal calzino bianco nella scarpa nera, dai sandali col fantasmino, dai calzoncini al ginocchio e dalle loro gambe bianchicce e magre.

Suggerisci agli spiriti estivi la libertà della noncuranza elegante che allieta l’anima e il suo trasparire.

Fa che i corpi siano liberi dove possono rifulgere e stiano bene negli abiti che li accompagnano tra gli altri, senza voler loro dimostrare nulla.

Lascia che i colori riposino nel pantone, che gli abiti lascino guardare i visi, che la bellezza trovi se stessa senza voler assomigliare a chi non è.

Difendici dai pois e dai quadri scozzesi messi nei posti sbagliati dai cervelli dei corpi indifesi.

Tieni a bada i forti colori nelle città che si sciolgono al calore delle nuove torride estati e portali in vacanza verso il mare.

Fa che i cappelli siano sbarazzini e sobri, che esaltino i visi, portando la loro luce a chi li guarda.

Fa che non incontriamo persone in costume da bagno nei sentieri di montagna come non incontreremmo bagnanti con scarponi in spiaggia.

Difendi l’estate dei nostri corpi dal cattivo gusto e toglici dal suscitar ridicolo in chi ci vede.

Fa che siamo uomini di scarso giudizio e di grande tolleranza, che gli occhi siano allegri come i pensieri, che il sorriso accompagni ogni sguardo, il silenzio ciò che non si condivide e l’ironia il dir di sé.

Il tempo muta gli uomini e ciò che essi fanno, il sole abbronza la pelle, scolora le cose, decompone la plastica, accartoccia la carta e ciò che essa contiene, rende inutile ciò che prima era importante alla vanità mentre esalta l’ombra e il vento fresco di una finestra che parla con un’altra in tramontana. Rendici consapevoli che ciò che cambia il mondo in peggio deve suscitare ripulsa e non supina accettazione.

Fa che lasciamo tracce leggere con le nostre parole, perché esse, come alito, se profumano di menta e di fresco, rendono più bella la vicinanza e dolce il comunicare.

la tua estate

L’estate la desideravi negli acquazzoni di giugno, la trovavi nell’odore di cloro dell’acqua della piscina, nella sera quando i muri emettevano calore e ci si sedeva sugli scalini di fresca trachite, a parlare di ciò che mancava nelle nostre vite. L’estate era nei pranzi che facevi da solo, nelle scatolette di tonno con salsa e piselli, nel loro pessimo sapore di unto e di latta, nella fame che s’era accumulata in una infinita nuotata. L’estate era l’ombra dei portici alle quattro del pomeriggio, era l’alito di muffa e di fresco che veniva dalle grate delle cantine, era suonare un campanello per cercare qualcuno che era già andato via.

L’estate ti prendeva a tradimento, sembrava che fosse lenta ed era un fulmine di caldo, ti faceva domande a cui non sapevi rispondere. I giorni correvano pregni di sudore, desiderando il buio, le camminate nella notte, le sedie di legno dei bar già chiusi, da solo o in compagnia, ad attendere qualcosa che doveva farsi esatto, una scia nel cielo, un segno, un presagio. Era estate e non s’era sentito il suo passo lento, il vestito leggero, il profumo di pelle sudata, la sequenza d’ombre e sole che spingeva verso i muri sotto i portici.

Sarebbe arrivato agosto, il mare, la pelle ancora più scura, esposta, nuda nel giorno e nella notte, il salso che si screpolava, che tirava e poi prudeva, i giorni già più corti, pieni d’una luce che non finiva mai, con la sabbia tra le dita, poi nelle lenzuola di lino fresco, e un prendere a calci il tempo per gettarlo innanzi, oltre una duna, un casotto, una pianta arsa e feroce di spini, un richiamo a cui non badare.
Il giorno iniziava presto, il sonno scioglieva nella notte e nel fresco la stanchezza, poi c’era il profumo del caffè, la luce che premeva sugli scuri accostati. Sentivi il suo richiamo ad uscire nel profumo del sole, violento, possessivo, privo di pudore. Il sentiero tra le dune già scottava, attendevano giochi ormai adulti, e presto la sabbia ricopriva la pelle, c’era l’urgenza del mare, anch’esso gioco e indiscreta bellezza, le corse, il gettarsi nell’acqua, il riemergere con gli occhi pieni d’acqua e di luce.


La città paziente, attendeva i ritorni. Scompariva dal ricordo, lo sapeva. Si consolava con il brivido delle lucertole che uscivano dalle crepe degli intonaci roventi, guardava con gli occhi dei vecchi dietro le imposte accostate, il giorno che scorreva nel sudore dei pochi rimasti. La sera le rondini davano spettacolo, pochi le vedevano attendendo il cielo della notte per uscire, poi una spuma fresca, una fetta di anguria, i semi sputati, rimandando il riposo difficile nelle case. La città strascicava il tempo, lo offriva lento a chi era rimasto, sapeva distrarre gli amanti tra schiocchi di vecchi mobili e lo scorrere d’aria delle finestre “in corrente”.


Tu, assieme agli altri, i lontani, saresti tornato con l’estate non ancora finita, le piazze si sarebbero di nuovo riempite la sera e i portici cercati per l’ombra nei pomeriggi infuocati. Avevi storie da raccontare, pensieri nuovi da fare, silenzi da imparare, la notte veniva prima ed era più fresca. Odori e profumi si mescolavano, andavi a letto sempre tardi, l’estate non finiva mai.

28 giugno 1914, a casa…

Il 28 giugno 1914 è domenica. Mio nonno e la sua famiglia abitano a Karlsruhe. Il nonno e’ un giovane uomo, ha bei baffi neri e folti, capelli neri. Lo sguardo è fermo, deciso, con una tenerezza particolare negli occhi. Sua moglie è piccola, magra, dolce e bella, hanno due bambini, entrambi nati in Germania, uno è nato da poco, è mio padre, la sua sorellina ha due anni. E’ una famiglia felice, stanno bene economicamente, hanno una bella casa, il nonno ha un lavoro autonomo. Guardiamolo un po’ meglio. Ha da poco superato i trent’anni, ma ha molta vita sulle spalle, come accade al suo tempo, decisioni e indipendenza, tutto presto. Lui e i suoi fratelli sono emigrati pur avendo un lavoro e un piccolo patrimonio nel paese dove, da sempre, la famiglia ha vissuto. Con loro sono emigrate anche le sorelle. Sono passati per la Svizzera, fermandosi due anni assieme e poi si sono separati. Chi è rimasto in Svizzera, chi è andato in Francia, lui ha scelto di andare in Germania con la moglie, che l’ha seguito sin dal primo momento. Sono sposati da pochi anni. Lavora molto, il Toni, ma è contento di quel paese da poco unito in cui si è fermato. Pensa di stare il tempo necessario per accumulare un buon gruzzolo e poi tornare a gestire la locanda di famiglia, l’appalto dei tabacchi, rimettendo in ordine le case, i campi, e comprandone degli altri. Non è un contadino, nessuno lo è mai stato in famiglia, i terreni servono per la locanda e per l’osteria, per fare vino, un po’ di granturco, ortaggi e mandorle. Abitare sui colli non è facile in quei tempi, dopo l’unità d’ Italia, il Veneto si è ulteriormente impoverito, per questo sono emigrati.

Di Sarajevo non sa ancora nulla, lo saprà il giorno successivo. Immagino che ne avrà parlato con la nonna, accennando al fatto di sangue che riguarda un impero vicino, ma senza calcare la voce per non preoccuparla troppo. Le avrà detto che per loro non cambiava niente, che sarebbero rimasti nella loro casa di città, con i nuovi agi acquisiti e che queste vicende, loro, le hanno già vedute. Non si ricorda, la nonna, dell’uccisione di re Umberto a Monza, e dello zar in Russia? E cos’era accaduto? Nulla. E poi la Serbia, chissà dov’è. Un Paese di pecorai, come il Montenegro, il regno da cui viene la regina. Tutto lontano. L’Italia è alleata della Germania e dell’Austria, cosa può venirne a loro? Nulla. Hanno anche preso gli attentatori, quindi ci sarà il processo, la condanna e poi basta.

Venivano da anni prosperi e felici, erano persone normali e un po’ speciali, avevano coraggio: il futuro sarebbe stato positivo. Nei mesi successivi, già alla fine di luglio, le cose cominciarono, invece, a precipitare. All’inizio non capivano, L’Italia era ancora alleata ma non entrava in guerra. E gli italiani cominciarono a non essere più graditi. anche il lavoro era diventato più difficile, così, penso, che si fecero una ragione quando furono costretti a rimpatriare. Con due bambini piccoli, vendendo il vendibile, ritirando i risparmi. Partirono con le sole valigie, fatti salire su un treno che riattraversò la Svizzera. Questa volta non si fermarono, ma sarebbe stato meglio. Chissà cosa pensò mio nonno, probabilmente non aveva voglia di ricominciare subito e i marchi oro e le sterline erano abbastanza per tentare un’attività al paese. Poi, in realtà, non ricominciò nulla di definitivo e quei soldi consentirono a mia nonna di essere indipendente fino al 1920. Così tornarono e dopo pochi mesi, il nonno fu chiamato alle armi, per chiudere la sua vita in una dolina oltre il san Michele, nel ’17. Era una persona pacifica, non aveva voglia di guerra, ma qualcun altro l’aveva attirato in una trappola del presente. Quel presente che non ha futuro quando le cose vengono spinte troppo da chi non ci pensa, anzi lo vuole determinare il futuro mettendoci la volontà di onnipotenza. Mio nonno invece pensava, e sapeva, che il futuro si costruisce con la giusta lentezza, ma lui era solo maggioranza. Non contava poi così tanto. Così fu uno dei 12 milioni di morti soldati. E la bimba fu uno dei 5 milioni di morti civili, morì di spagnola nel ’19. La nonna fece il possibile, anzi molto di più. Non si curò del patrimonio, seguì i figli e poi mio padre. C’era un posto per il dolore e uno per la vita? Lei fuse tutto e conservò di mio nonno il ricordo di un uomo giovane, dolce e deciso. Ne parlava, e le poche volte che questo ricordo doloroso oltrepassava le labbra, era con grande tenerezza. Lei, che non si era più risposata, che aveva affrontato e ricostruito la vita dopo la dissoluzione di ciò che aveva e dei legami con i parenti. Da come l’ho conosciuta, e l’ho conosciuta e amata molto, non le importò mai delle cose perdute, non ne parlava, ma delle persone sì. Era attenta agli affetti rimasti e al nonno, del resto s’era liberata con noncuranza.

E’ il 28 giugno, è domenica, la famiglia è riunita per la cena. Dalle finestre aperte entra il caldo già estivo, le voci un po’ strane della strada, la brezza della sera. Forse mio padre piagnucola o forse dorme, la bimba gioca. Magari c’è un po’ di nostalgia, ma il futuro è pieno di tenerezza come il presente. Lontano è successo qualcosa che li riguarderà, però non lo sanno e non toglie I sorrisi. Anzi credo che mia nonna non abbia mai ben collegato le cose e forse è stato bene. Lasciamoli così in una piccola, grande felicità, in una domenica di giugno di cento nove anni fa.

era la sera del 5 giugno

Era la sera del 5 giugno, un sabato. Ero in Sardegna, nel Gennargentu. Da ore trattavo con i sindacati per definire le modalità di riduzione del personale senza che ci fossero problemi per i lavoratori interessati. Un prepensionamento allo stesso importo stipendiale, restando in organico, e il passaggio graduale alla pensione. Se il lavoro fosse aumentato qualcuno avrebbe potuto essere richiamato al lavoro, ma era una possibilità remota. I migliori, gli specialisti che servivano per ristrutturare davvero, se n’erano già andati e bisognava riqualificare chi era rimasto. La trattativa durava da due giorni, sempre nel pomeriggio tardi fino a notte, tutto era chiaro, ma non si chiudeva. Come gestore responsabile del progetto ne sentivo il peso, ristrutturando c’era un futuro, tirando avanti a contributi regionali ci sarebbe stata la chiusura, magari un anno dopo, ma lavoro stabile in quell’azienda non ce ne sarebbe più stato. Ci sono rituali nelle trattative. Di qualunque tipo siano. In fondo è un giocare a rimpiattino con la coscienza che ci saranno prezzi da pagare. Una buona trattativa si conclude con una moderata insoddisfazione di entrambe le parti, si deve sentire che si è un po’ perso ma che il buono e il giusto è stato preservato. Le sospensioni, i rinvii, le consultazioni servono a questo, ad affinare il punto dove ci si incontrerà.
Alle 21 fu chiesta una sospensione, un’ora, penso avessero fame.

Nei giorni precedenti, avevo fatto un lungo viaggio solitario tra i monti, in mezzo a macchie di sughere rosso fuoco ormai prive di corteccia. Erano nudità affascinanti, eppure sollevavano la pena di chi era stato derubato di sé. Forse rallentavo troppo per guardarle, così, dopo un controllo dei carabinieri, mi ero fermato sotto una quercia enorme ancora integra. Attorno c’era un verde a balze, il silenzio, un rapace che cercava preda e le macchie scure dei boschetti pieni di uccelli. Più lontano il riflesso di un lago e la mia meta di lavoro. Non ci pensavo e fino a sera ero libero, fuori dal tempo. Restai finché arrivò un gregge con la sua festa di cani, asini e agnelli. Due parole con il pastore, un pecorino tolto dalla bisaccia e l’affetto dell’ospitalità di uno sconosciuto. Aveva le mani forti e abili, annodava e costruiva recinti per la notte. Quando ci salutammo non volle essere pagato e prese il mio posto sotto la quercia, lanciando fischi ai cani, poi estrasse una specie di flauto e cominciò a suonare. Lo sentii dall’auto, lui era in compagnia, io ero con i miei pensieri. I giorni seguenti erano trascorsi tra impianti chimici e incontri e poi la trattativa. Così eravamo giunti a sabato notte. Nell’ora di pausa avevo fatto a tempo a telefonare a casa, a mia Mamma. L’avevo ringraziata ripetendo il bene che sempre ci ha unito.

Quando riprendemmo, il porceddu e il vino di Oliena, avevano alzato i toni, c’era forza nella stanza, persone abituate a resistere un minuto di più dell’avversario, ma io non ero un avversario e neppure chi era con me lo era: se non si trovava una soluzione non vinceva nessuno e l’azienda avrebbe chiuso.
Continuammo fino alle 23.30, poi fu chiesto un rinvio, io avevo mostrato e discusso i lucidi per almeno tre volte, cifra per cifra. Si era corretto assieme lo schema, rifatti i conti, mutato qualche turno, chiusa una porta inutile, recuperati 4 posti di lavoro, ma non era tempo di chiudere.
Ci salutammo e presi la strada dell’albergo, rifiutando la cena.

Avevo voglia di star da solo, di immergermi in quella casa di allora, vicino al canale. Ho sempre immaginato che fosse caldo e le finestre aperte sulla strada, la notte era piena ma alle 3 del mattino si sentivano già cantare le allodole. Mia Madre aveva la camicia candida, c’era mio Padre, mio fratello che dormiva, mia Nonna, la levatrice. Mi hanno detto che non c’ho impiegato molto ad uscire, che ero rosso in viso e che ci volle uno sculaccione per farmi piangere. Mi furono unte le labbra col vino e succhiai il dito, poi mi accoccolai tra le braccia di mia Madre. Ricevetti baci da tutti, mio fratello si svegliò e chiese chi ero, così ebbi anche un nome. Poi mi addormentai, la stanza pian piano si vuotò e arrivò il primo mattino.
A questo pensavo in mezzo ai monti e bevendo il vino rosso con l’albergatore, che mi aveva atteso, mi augurai buon compleanno. Gli auguri di chi mi amava erano già arrivati, adesso toccava a me volermi bene.
Il giorno dopo era domenica, trattammo fino a lunedì notte, ma non si concluse, perché la vita a volte va così ed è comunque buona.

maggio quasi giugno

Mettiamo che in una qualsiasi sera di maggio, con un caldo anomalo, quasi da giugno, il verde con la luce radente diventi sontuoso, che le siepi comincino a profumare e che gli alberi siano carichi di foglie pulite. Una serata che attrae fuori di casa e mentre cammina, un po’ per consapevolezza e un po’ per intuizione, il nostro protagonista si accorga, che molto di quanto ha fatto, pensato e vissuto come occupazione principale in una infinita sequenza di giorni, non era poi così importante. Pensa che fare programmi non è il massimo dell’intelligenza, che le persone, anche quelle care, sono libere di muoversi come meglio credono e secondo le loro vite e che i pensieri per incontrarsi, hanno bisogno di essere comunicati con verità e innocenza.

Cammina tra il verde splendente che gli ricorda altre sere ormai passate così tanto da non essere ben collocabili, allora, giustamente, il nostro protagonista respira a fondo. Come se così facendo i pensieri ritrovassero almeno l’ordine cronologico, se non quello dei sentimenti e delle delusioni. Anzi, pensa, che avere più tavole che mettano in ordine, il quando, il come e l’intensità del sentimento consentirebbe di avere una visione della propria vita, delle connessioni, forse anche degli errori naturali, della misura del tutto e del trascurato.

Perso nel fascino di questa molteplice tavola del vivere e del sentire, si siede vicino al fiume che ha visto in ogni età della sua vita e si accorge che non riconosce la città in cui è cresciuto, ovvero, riconosce i monumenti, le pietre, i percorsi, ma non conosce nessuno di chi gli si muove attorno. Questa sensazione si fa più forte e gli sembra che una immane commedia sia in corso, che i partecipanti/attori ne siano consapevoli, ma che gli spettatori non lo sappiano.

Passa un volto noto. Saluta e parole senza sostanza si scambiano tra i volti. Da un sorriso riceve un sorriso e gli pare di vedere le parole, trasformate in lettere, che escono e si sciolgono prima di arrivare: un mucchietto di impalpabile cenere di conversazione che li unisce. Il mestiere lo aiuta per troncare con le frasi fatte usate all’uopo la conversazione che vorrebbe prolungarsi, l’interlocutore non ha fretta, lui ha necessità di silenzio e di guardar meglio ciò che accade. Ragazzi si raggruppano, scoppi di voci, si formano e si sciolgono brigate. La sera avanza, sanno dove andare, lui si chiede se tornare perché la rappresentazione non solo non è finita ma non ne ha ben compreso la trama e il senso.

Ora è la notte che fa paura. La notte dei sentimenti, delle prospettive. Ricorda che basta ripetere gesti semplici per tenersi assieme, ma tenersi assieme non è vivere. E lo sa. Si guarda attorno e la piazza si sta vuotando, lungo il fiume si sono accese le luci e tanti piccoli chioschi mescolano alcolici, tolgono la schiuma alle birre. Montagne di patatine arrosto, profumo di salsicce, sembra una città tedesca però priva delle tavolate bagnate di birra, delle canzoni ritmate con i bicchieri. Il profumo è quello dell’acqua morta, il verde, quello delle erbe che marciscono nell’acqua bassa. Dovrà camminare per immergersi nei giardini, per sentire il profumo dei tigli, delle siepi di gelsomino, qui vivevano altre vite che non ci sono più. E’ la sua città che non lo riconosce, adesso capisce il senso di qualche scena a cui ha assistito e allora ricorda NIetsche: non guardare troppo l’abisso, altrimenti, l’abisso guarderà te.

Se qualcuno sa davvero cos’è la solitudine può parlare con il nostro protagonista, mentre medita camminando. La solitudine è il vuoto che aspira i pensieri e le speranze, le certezze e le illusioni. Riconosce le pietre e i portoni, le scritte antiche che nessuno è riuscito a cancellare, si è formata nella sua testa una mappa che gli dice dov’è senza l’ausilio delle vie, come ogni luogo fosse un appuntamento e un ricordo. Gli torna in mente l’idea delle tavole da sovrapporre con il tempo, il luogo e ciò che è accaduto in lui, a questo dovrebbe aggiungere ciò che non è accaduto fuori di lui, i fatti mancati, le occasioni perdute, le delusioni date e ricevute.

Ci penserà, intanto con un sorriso ricorda una cronaca ciclistica di tanti anni or sono:” un uomo solo al comando, è Fausto Coppi”. Coppi non era solo, quella volta: aveva una meta e l’Italia che gli facevano compagnia. E’ stato molto più solo quando per seguire il cuore, l’hanno messo sui giornali, processato, isolato. Il nostro protagonista, che non è un campionissimo, pensa alle sue vittorie e alle sue sconfitte, pensa a Coppi e a Pantani, così grandi, così diversi eppure simili, troppo simili alle parole scambiate prima nel ricordo di troppe persone.

Pensa a cosa si concederà stanotte. Il ripasso di Puer Eternus di Hillmann, un film, una visita ad una persona gradita che lo riconosca davvero, una lettura a casa, una pizza?

immaginare

S’immagina ciò che fa comodo, con l’innesco di qualche desiderio a mezzo, d’una fantasia perduta chissà quando. E il tutto tra paletti di ferro. Convenienza, necessità, spesso l’una e l’altra assieme.

Educazione. Parola magica per dire: non è colpa mia, mi hanno piegato il libero arbitrio.

E quel chiavistello di cui pare ci si liberi, ovvero la colpa, chi l’ha messo nelle nostre mani? E chi davvero ci costringe a tenerlo?

Dico una parola: re-spon-sa-bi-li-tà.

Prova a ripeterla: re-spon-sa-bi-li-tà.

Se hai usato gli accenti giusti, sei già mezzo giustificato. Mezza giustificazione, due terzi di colpa eliminata, il resto lo inglobi nell’immaginazione. È quasi niente, non si sente e pare di volare.

Basta realtà, puoi accedere all’immaginazione e con i dovuti limiti, volare.

Apri la porta di sicurezza del tuo cuore e vola.

my way

Mi ricordo bene quando l’ansia di provare era forte, quando tutto era a disposizione e tutto meritava d’essere assaggiato. Allora il tempo non bastava mai e mi sembrava che essere coincidesse con esserci. E sentire fosse qualcosa di fugace come la felicità, anzi che sentire spesso coincidesse con l’essere felice. È durata molto a lungo questa sensazione e motivava un correre senza fine, tanto che, a volte, mi trovavo stremato da continue sensazioni. Il tempo era una creatura che vivera libera in me e non trovava soddisfazione, suggeriva che ciò che non provavo sarebbe stato definitivamente perduto.

Qui ci si può aspettare una conclusione che arriva a una nuova consapevolezza, svolta e continua in altro modo la vita cambiando tutto ciò. In realtà questo sentire è mutato per suo conto e quando non lo so dire perché non mi sento di essere diverso, ossia lo sono ma non per qualche motivo che non sia la naturale evoluzione del mio percorso. Non sono particolarmente stanco di una vita che desidera e neppure ho smesso di sentire, anzi direi che ho raffinato questa capacità. Quello che è mutato è il rapporto con il tempo. Ho sempre pensato che c’era tempo e non poteva essere diversamente nella spinta a fare che non esauriva i desideri ed era incapace di escludere ciò che non era possibile in quel momento, però era un aver tempo ansioso mentre ora c’è calma e il tempo è cosa mia. Se mi guardo attorno, la mia vita è così, con le persone che hanno sempre da dirmi molto più di quanto dicano, con l’interesse per il profondo che fa coincidere quello che provo con quello che mi porto dietro. Non è una collezione di sensazioni, ma un cammino dell’essere a cui regalano molto alcune persone, altre in misura minore, con una graduatoria, non del sentire, ma del condividere. E condivido senza mettere limiti di tempo. Non uso volentieri gli avverbi di tempo assoluti, i mai, i sempre, forse perché so che, molto spesso, questi rassicurano chi li pronuncia. Rinuncio a questa sicurezza perché ho fiducia in ciò che accadrà, ormai mi conosco un po’ e so che il mio essere fedele a ciò che sento è una costante della mia vita. Anche nel mutare, nel pensare diversamente, ciò che conta non viene scartato e resta ben radicato per tenere solida la mia casa.

fragilità nuove

Penso che la fragilità interiore, ed esteriore, aumenti. Che si copra, a volte, di aggressività, mentre in altre occasioni sia infermità che piega l’anima in sé e le impedisce di volare, di sorridere, anzi le fa sentire il peso di un mondo che s’abbuia.
Penso che tutto questo avvenga senza comunicare e che a cresca la solitudine, la difficoltà di avere una comunicazione profonda. Forse non è così ma è la sensazione che leggo nella violenza insita nelle immagini, apparentemente innocenti, nelle parole che vengono ritrattate o relativizzate e poi ripetute sino a non distinguere più la realtà. Non la verità che è un processo che si svela ma la realtà, ossia ciò che percepiscono i nostri sensi e la nostra mente interpreta. Nel digerire ogni cosa aumenta la fragilità e la violenza e non c’è bisogno di repressione ma di condivisione etica, di sentirsi nella stessa condizione precaria, di lottare per lo stesso cambiamento sociale. Leggevo oggi la percentuale di anidride carbonica in atmosfera, siamo a valori che superano di molto le 400 ppm, questo indica una irreversibilità progressiva del degrado ambientale che per noi sarà un dato statistico, per i nostri figli e nipoti, una realtà che renderà più fragili le esistenze.
A questo si somma una tensione crescente tra i popoli indotta dalle volontà di potenza, dalla mancanza della percezione che proprio le armi rendono più necessaria la tolleranza e la comprensione della differenza. Un mondo di eguali parte dalla giustizia e dall’equita per stabilire rapporti profondi tra modi diversi di sentire. Tutto questo evidenzia l’umano prima delle idee e rende compatibili le diversità, così si può stare assieme, meno fragili, diversi, sicuri che saremo orientati ad affrontare assieme i problemi di sussistenza della specie. Il contrario di questo è violenza, sull’ambiente, sugli uomini, sulla bellezza, sui deboli, sulla crescita comune interiore ed esteriore. Siamo diventati vecchia plastica, apparenza che si decompone e si disfa alla luce, questa è la fragilità che percepisco e siamo ancora a tempo per mutare, ma non è possibile farlo senza pagare un prezzo che non tocca le esistenze, anzi le rende migliori, è la volontà di dominio che deve pagare il prezzo, l’economia di rapina, la glorificazione della diseguaglianza. In cambio c’è vita e bellezza, rispetto, futuro, questa è l’alternativa che vedo dinanzi.

il poco, quasi niente, che per me è molto


Sai, volevo fare altro, usare il mio tempo per costruirmi piano. Divagare. Stendermi sulla spiaggia nel tardo pomeriggio, quando la sabbia non è più così calda e la sera viene in fretta. Dopo l’acqua genera una luce fioca e ancora si vedono i pesciolini guizzare. Se entri nell’acqua ti girano attorno alle gambe, fiduciosi. Mi sarebbe piaciuto scalare più montagne, leggere molti libri che erano utili solo a me. Perdere tempo senza sentir colpa e amare di più le persone che m’hanno riempito d’amore. Mi sarebbe piaciuta l’inutilità operosa, quella che porta fuori la stranezza e la fa restare al passo come i cani addestrati bene. A Caccioppoli venne l’idea di portare a spasso un gallo e lo fece, perché il regime fascista considerava poco virili gli uomini che uscivano con un cane. Ma lui, il grande matematico, la stranezza l’aveva sempre con sé, solo che era come una ferita che non rimarginava e gli toglieva qualcosa che forse nemmeno lui sapeva.

A me fa aggio la memoria, le sensazioni, gli errori che hanno più evidenza delle cose buone fatte, la stessa melancholia che s’acquieta nel ricordo dei luoghi, nei sentimenti suscitati, negli amori.
Può essere strano chi è silente anche quando parla, chi ha familiarità con i luoghi che per lui riacquistano evidenza, per i sensi che rammentano, per chi ricorda e il passato torna ad essere il preparatore del futuro, una caldaia che ribolle molecole alla ricerca della loro combinazione e quindi del senso delle cose, dell’attenzione, dell’attrarre le proprie passioni a riva come in una pesca fortunata.


Da molto scrivo, ancora da più tempo leggo e cammino. Mi piacerebbe, ma solo un poco, esser letto fino alla comprensione però è più importante guardarsi attorno, attuare, toccare ciò che è scabroso e con pazienza diventa liscio. È più importante trovare ciò che è migliore di quello che si pensato e scritto, esercitare i sensi per dar forma alle cose, ai fatti che accadono. Tener nel giusto conto l’esperienza sino al limite del nuovo e come negli origami dar forma a ciò che pare altro e che per molti è solo carta.

Così si sono accumulate miriadi di rappresentazioni in forma di parola, sulla carta, in questi metaluoghi, su ciò che s’è poi disperso allegramente in onde elettromagnetiche e quanti di luce. Ma era solo voce e ogni parola, col tempo, cercava di precisare significato. C’è da esser contenti se con fatica ci si assomiglia. Almeno in parte, a volte piccola, a volte grande, perché ogni raccontare porta con sé un approssimarsi e un’attesa e trova un gemello, solo se si è oltremodo fortunati . Ma in fondo basta e avanza il comprendere e l’interlocuzione che prosegue un discorso.

Alcuni animali parlano alla luna oppure borbottano alle cose, per loro, i fatti sono narrati nel compiersi. Un delfino non racconta il nuoto e mentre vive l’esperienza la muta in emozione, nel timore del predatore oppure nel piacere di sentire l’acqua che gli scivola sul corpo e accelera la velocità sino a un balzo di gioia nell’aria. Quel balzo è la sua gioia e la nostra meraviglia, per noi resta un’emozione della singolarità, per lui un piacere senza tempo che si ripeterà secondo voglia. È più immerso il delfino nell’universo e nel suo scorrere, di noi che mettiamo un tempo alle cose. Cose che nulla sono se non un insieme probabilistico che si può scegliere se vivere e nutrire di sentimento oppure far solo accadere.


Uno degli scrittori di rete che sempre leggo volentieri, narra l’esperienza mescolando volontà, ricordo e presente, con un linguaggio che dà vita alle cose e mette in scena scogli, reti, vino e ciò che a tutti accade, ma filtrato nella sua sensibilità che aggiunge senso mutando i tempi e i significati comuni. La sua poesia è fatta di ricordo e di presente che premono sulla porta del futuro. E non è una semplice porta ma una barriera di legno spesso, scavato dalle intemperie che hanno scritto le loro storie da decifrare. Una porta rafforzata da borchie di ferro rugginoso, chiusa da grosse serrature, inventate da fabbri sapienti, allora aprire il varco significa scivolare nel nuovo che ha il sapore dell’antico vissuto e del pesce fresco appena cotto.
E il pesce e il vino portano a barche tirate a secco, dove la prua ha un antico colore che non si vergogna di mostrare a quello nuovo, così com’è, scrostato dal vento, dalle piogge, dal mare solcato, e tutto diviene protagonista e conosce la battuta e il tempo, allora la rappresentazione e il ricordo possono compiersi.


M’avvenne, durante l’ascolto d’un concerto, che la bravura del solista superasse la mia capacità di gioia interiore. Non sapevo come farla uscire costretto dall’immobilità del sedere, come si conviene nei concerti dove al più s’accarezza il mento o si stringono le mani. Eravamo distanti dalla conclusione del pezzo e volevo continuasse all’infinito ma anche che finisse perché la bellezza aveva bisogno di occupare tutto lo spazio sensibile. In questi casi, come nell’amore bisogna allargare l’anima, accogliere e non mettere difese e così ho lasciato entrare la musica come mai l’avevo sentita e lasciare che andasse dove voleva sino ad essere io stesso musica.
Lo stesso accade quando si vede un dipinto che ci illumina o si legge chi riesce a leggere il nostro animo senza conoscerci o, ancora, quando si mettono nel giusto ordine i significati e nasce ciò che assomiglia al sentire.
Questo fa pensare che la percezione profonda, la bellezza, siano un evento che raramente si può condividere, ma che è qualcosa che appartiene a chi la comprende e non oppone resistenza alla sua natura. O poco o tanto ci sarà ciò che viene generato e sarà dalla disponibilità ad accogliere che il tempo perderà significato e l’uno diverrà parte d’una continuità.