Da qualche parte c’è un punto luminoso,
piccolo come una stella,
lo cerco,
tra tante altre piccole luci,
sereno.
E’ un buco nell’universo
che lo taglia e lo ricuce,
la sostanza, ne mostra appena,
l’accenna, indelebile intuito,
e mi riguarda.
Oggi c’è il sole. La giornata è fresca, come sa fare l’autunno che non promette e non illude, ma regala. Il cielo sopra le case è terso, ampio, senza limite d’altezza e d’estensione. Prima di sera cominceranno i fuochi delle caldarroste e il fumo, dolce, salirà assieme a fasci di scintille. Verso l’alto, verso la sera ancora chiara, con scie che si spengono eppure restano. Come il dolce discreto che riempirà la bocca di gusto rugoso, mentre le mani si scalderanno col sacchetto. E il vino rosso, leggero e rustico, non lascerà quasi traccia. Non c’è niente da capire, non nelle stagioni, non nel godere del tempo e delle cose.
E la musica che ascolto, tra le altre, è questa.
Abbiamo bisogno di antidoti alla solitudine. Non quella liberamente cercata, ma quella che è paura del disamore, di non essere adeguati, di non farcela.
Per tenere segreti abbiamo bisogno di comunicazione, di mani accoglienti in cui depositare i dubbi e le incertezze.
Per raccoglierci dentro di noi abbiamo bisogno di silenzio e la certezza che, quando servirà, tornerà la parola che capisce. E così cerchiamo con chi condividere. A volte in modo spasmodico, a volte con fiducia in ciò che incontreremo, spesso con apprensione, perché ciò che ci corrisponde davvero è prezioso e la paura di perderlo è grande: tornerebbe la solitudine senza luce.
Siamo così permeabili alle nostre semplici paure che le dobbiamo complicare. Per non aver paura anche di esse. Così abbiamo bisogno di speranza, di oggettivarla e di metterla nel nostro firmamento, di avere una luce che rassicuri, solo così siamo forti ( o almeno ci pare) per essere soli quando lo desideriamo.
Son contento del mio colletto coreano,
del lino sulla pelle,
e così affronto il sole, la calura tra le case,
la mia camicia azzurra mi protegge
e lascia scivolare il fastidio delle giornate,
in cui trovare uno scopo è già vittoria.
Il cielo ha addensato forze nella notte, si sono svolti scontri immani nel buio, energie strattonate, confuse e infine sommate con immane potenza, sinché s’è rotta la trama del cielo. Così è iniziato un diluvio di acqua e di vento, che ha dissolto i sonni leggeri. Nel buio della stanza, il rumore sul tetto era dapprima morbido, poi è cresciuto improvviso, come di pioggia scagliata con rabbia. Il cielo non ha sentimenti, ma c’era molta violenza in tutto ciò, tanto che non soddisfatta, la pioggia, s’è mutata in grandine fitta, a scrosci. Si sentiva la bandiera sul tetto schioccare nel vento, e il rumore secco del ghiaccio faceva quasi male. Ci si rintana nel letto, s’ascolta e sembra non finire, si pensa ai rami spezzati, alle rose spogliate di petali, al gelsomino, ai fiori nuovi e a tutte le piante, che fiduciose hanno mostrato le foglie al cielo. Nel tepore del sonno perduto, si riflette sulla difficoltà della quiete e della bellezza. Così, infine, è scoccato il silenzio. Di colpo. e un’acqua gentile ha cominciato a ruscellare verso la grondaia, come a detergere le piante, il vicolo, le case. E il sonno, che tornava dopo la furia, s’è sciolto nella pace ritrovata, perché l’ira del cielo non ha memoria.
e per chi vuole ascoltarla tutta, Kleiber è sempre una gioia e una scoperta.L’applauso finale è una delle cose più emozionanti che abbia mai sentito alla fine di un pezzo musicale. L’indecisione dopo il silenzio, la paura di rompere una magia con l’applauso, poi l’entusiasmo liberatorio e la sensazione dell’ assoluto che si era udito e non si poteva ripetere. Commovente e unico :
Ci piaceva molto che sui mucchi di terra, residui di scavi dimenticati, oltre ai giochi nostri, fiorissero le erbe selvatiche e i papaveri tenaci.
Quando eravamo stanchi di guerre, lo stendersi sudati, a guardare il cielo, era soffice e fresco,
e tra rumori d’insetti e voci lontane, nell’aria, e nelle nostre bocche, si sentiva il profumo dei succhi dell’erba strappata.
Vedi quella nuvola è un dirigibile, no e’ un maiale.
E azzuffandoci un poco, e facendo la pace, arrivava la sera nei nostri occhi pieni d’azzurro.
Dalle alte finestre a ovest, verso Venezia, scende il sole, e si riflette sul mare.
In trasparenza si scorgono i visitatori nelle stanze. S’aggirano, è la parola giusta quando si guarda e non si sente.
Nei giardini, digradanti verso il castello, il glicine comincia a riempire vista e aria. E i platani, piegati a pergola, mettono nuove foglie.
Verde nuovo, grigio, azzurro, bianco e blu d’acqua: è il mare, che si frange appena sotto, sui resti di falesie antiche, sventrate dall’uomo.
Tornando da Trieste, mi fermavo in questo equilibrio di tristezza ed esplosione del vivere, ad attendere il tramonto.
Qui tutto finiva e tutto ricominciava.
Di primavera.
Incessante.
Ci sono almeno due casi in cui si argomenta/giustifica troppo: quando la realtà è diversa da ciò che appare e quando la realtà è ciò che appare, ma si vuole venga percepita diversamente. In entrambi i casi si vuole agire su ciò che appare e per farlo si spiega troppo.
Nel primo caso, quando dovrei dire ciò che in realtà è, spesso taccio, lascio che ci sia una percezione distorta. La fatica dello spiegare, dell’essere creduto, mi pare troppo grande per il risultato che lascia sempre un’ombra di dubbio in chi non si fida. L’apparenza è un buon crivello e se qualcuno va oltre le apparenze, dimostra fiducia, amorevolezza. Credo che la differenza tra chi ti vuole davvero bene e gli altri, sia proprio in questo cogliere la persona, andare oltre l’apparire, se necessario.
Stamattina mamma anitra, seguita dai suoi quattro piccolissimi anatroccoli, è riuscita a passare indenne la strada di adduzione alla tangenziale.
Le auto hanno rallentato, alcune si sono proprio fermate. Mamma anitra, contenta dell’impresa, è scesa nel fosso e ha cominciato a impartire lezioni di nuoto ai piccoli.
Il sorriso è nato negli automobilisti che, scuotendo il capo, hanno pensato: sono belle le cose.
La nuca e’ il luogo dell’attesa, inerme d’occhi concentra sensibilità che non si protendono. Attende due dita che scostino i capelli, una carezza che scateni la sua nudità sensuale, un bacio sfiorato e sussurrante. La nuca attende e si snoda tra istinto e ragione, è superficie piana che racchiude.
Dovessi mettere nel corpo casa al tempo, la collocherei nella nuca, luogo del possibile, dell’attenzione, dell’incontro, del preannuncio che può evolvere o posticipare, mai indifferente. Inerme, essa, si pone oltre ogni offesa, si alza nell’orgoglio, si piega con la colpa, attende. E se ciò, che spesso e’ chiamato amore, s’ accorge dell’attesa, capirà anche ch’essa è porta del cuore.
La nuca promette e mantiene, merita attenzione piena, non ha fretta e non ama un distratto passare, in lei c’è confidenza ed accettazione profonda, ricordarlo è uno scoprire -e scoprirsi- oltre la fretta del conoscere. Oltre la presunzione del conoscere.
p.s. il primo movimento del concerto n.2 di Rachmaninov, rappresenta bene le sequenze di un tocco amorevole sulla nuca, provate a chiudere gli occhi e ascoltate.