L’ultimo giorno di luglio era caldo e palindromo e qui l’osservazione si poteva fermare. Però era rimasta quella leggera soddisfazione che procura il notare la particolarità delle cose. Che spazio esiste tra una favilla d’attenzione intelligente (da intelligere, senz’altra connotazione di misura) e la gestione dell’eccezione, del meraviglioso del vivere? Ovvero ci si può meravigliare spesso e impunemente?
Con la ricerca dell’utile e del sapido, si declassano i gradi intermedi, le piccole gioie e così si banalizza tutto ciò che non è comunicabile facilmente, che esige aggettivi sfumati, relegandolo ad intima sensazione di soddisfazione. Insomma questo modo prevalente di vivere non ammette la comunicazione di ciò che si fonda sul rapporto tra sé e ciò che si sente tra gli estremi, tra ciò che resta personale e non diventa collettivo perché non risponde ad alcuno dei parametri di utilità e sapidità del sentire.
Ma allora per chi si ribella e non accetta questa necessità fisica ed economica di superlativi, può essere dato un mondo che contempli l’inutile meraviglia? Forse no, ma la vita individuale, quella sì, può essere scissa dalla tirannia dell’utile, e portata a godere di cose poco usuali. Gustare la bellezza di un pasto di fichi e pane fresco, il profumo del caffè fatto con cura, il vino buono senza etichetta, la frescura dell’acqua e il suo non sapore, una carezza che resta, un abbraccio lungo, un bacio che ascolta.
Chi ha digiunato per necessità conosce l’esaltazione dei sapori quando lentamente si torna al cibo, la meraviglia del poco che sprigiona sensazioni, l’avvertire le particelle di sapore nei sensi acuiti. Tutto questo viene ucciso dalla quantità, dalla varietà eccessiva. Quanti paragoni con i sentimenti e il sentire, con lo sbocconcellare senza fretta, ascoltando…