Dalle alte finestre a ovest, verso Venezia, scende il sole, e si riflette sul mare.
In trasparenza si scorgono i visitatori nelle stanze. S’aggirano, è la parola giusta quando si guarda e non si sente.
Nei giardini, digradanti verso il castello, il glicine comincia a riempire vista e aria. E i platani, piegati a pergola, mettono nuove foglie.
Verde nuovo, grigio, azzurro, bianco e blu d’acqua: è il mare, che si frange appena sotto, sui resti di falesie antiche, sventrate dall’uomo.
Tornando da Trieste, mi fermavo in questo equilibrio di tristezza ed esplosione del vivere, ad attendere il tramonto.
Qui tutto finiva e tutto ricominciava.
Di primavera.
Incessante.
Posto magico, ma triste, per come l’ho percepito io.
La Storia è passata da lì. Una storia finita male, più volte. I fasti, lo sfarzo quieto, più a misura d’uomo di altri, non allontana il senso della caducità delle speranze degli uomini.
A salvarci la Natura, che riempie di bellezza gli occhi e il cuore. Come sempre sarà, per fortuna.
E’ vero, Miramare e’ un luogo bello pieno di storie tristi, anche Trieste, che amo, e’ una città velata di malinconia, come accade a tutto ciò che si perde nel suo passato, ma i triestini sono gente allegra e con l’ironia necessaria a governare la malinconia. La natura attorno e’ semplicemente incomparabile.