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Informazioni su willyco

mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente. Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo. Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.

ottobre

Primo ottobre. Oggi vorrei una giornata elegante, piena di stile. Lo stile è il dialogo interiore che si mostra.

Ho un dialogo per capello. I capelli sono pochetti, ma sufficienti a far confusione. Lo stile non è confusione, ma una precisa opinione di sé. Dipanare e trovare il bandolo. Esiste sempre un bandolo e un bandolero (stanco).

Il primo ottobre si andava a scuola, i banchi erano altissimi, incrostati di ferite alla lacca nera che li rivestìva come i nostri grembiulino. Erano irti di intagli, di schegge, di storie passate: avevano fatto la guerra e ne erano usciti liberi e malconcio. Ne erano passati per quei banchi di ragazzini prima di me, avevano lasciato unto, sedili lisciati e pensieri in forma di simboli. L’odore d’inchiostro era lo stesso, la continuità generazionale, il primo ricordo oltre a quelle carte geografiche incerte sui confini. Un profumo acuto, una droga che creava dipendenza e macchie. Eccellevo nelle seconde, occorre stile e le macchie qualche volta mi facevano piangere, altre volte mi fermavo ad ammirare nelle loro curve perfette, nei bordi merlettati. Dipendeva dalla carta. Chissà se Rorschach lo sapeva… della carta e delle macchie che cambiano, intendo. Comunque ci guardavo dentro e immaginavo: Rorschach l’ho scoperto così, oppure lui ha scoperto me. Bella cosa essere scoperti dalla persona giusta: accade quasi mai.

Si era appena arrivati a scuola e si festeggiava subito Cristoforo Colombo. Anzi quell’immaginetta di lui, in piedi, che riceveva da indigeni piumati e ossequienti, oro e omaggi. In cambio il nostro elargiva civiltà, benedizioni e collanine di vetro. Con quel mantello corto, i calzoni con lo sbuffo e il corsetto mi sembrava ridicolo, mentre gli indigeni, pur rivestiti quanto bastava a marcare la differenza e ad eliminare il nudo, mi sembravano più interessanti e pieni di stile. Non sarebbe stato meglio se fossero stati gli indiani a scoprirci? A me non sarebbe piaciuto essere scoperto da Colombo, e mentre meditavo sulla necessità di essere scoperti da una persona piacevole, mi scopriva il maestro. Vedeva che ero distratto, che parlottavo tra me e facevo disegni con le macchie. Le raffinavo. Cioè conformavo Rorschach a me. Il maestro non conosceva la psicologia del ‘900 e la cosa finiva in una domanda secca, cioè mi chiedeva cosa stava dicendo, come soffrisse di amnesie o di improvvise incomprensioni. Se non lo sapeva lui cosa stava dicendo come potevo io, nella mia cosciente ignoranza aiutarlo. Ma insisteva e attaccava il mio cognome alla richiesta, con una lieve indecisione sulla pronuncia. Volevo chiedergli se l’accento fonico andava sulla prima vocale prima dell’ultima sillaba e mi pareva di sentire il dubbio fugace, in quella testa grigia, così piena di cose da insegnare, ma pure di fatti suoi che erano come i miei, extrascolastici (però i suoi contavano di più). No, va proprio sulla prima vocale, tout court, e lei lo pronuncia alla tedesca. Non potevo dirlo, ma io il mio cognome lo conoscevo bene.

Finiva sempre male, non riuscivo ad aiutarlo a ricordare quello che stava dicendo e così si confermava il mio assioma, ovvero che essere scoperti dalla persona sbagliata non mi piaceva.
Non lo sapevo, ma gran parte della vita si passa ad attendere di essere scoperti dalle persone giuste, dalle situazioni giuste. Ma per essere scoperti bisogna saper vedere, discernere, cogliere ed essere sufficientemente disponibili e curiosi. Quel tanto che basta per capire che c’è un dentro e un fuori e il fuori non è, per sua natura, ostile, ma spesso è indifferente e poco giusto per noi, e mai comprensivo. Il fuori ha fretta e poco stile, arraffa quello che c’è, ma se vogliamo dirla tutta dipende anche da noi. Lo stile intendo. E allora faccio in modo che la giornata abbia la possibilità di scoprirmi, i tempi giusti, gli attimi colti. Avete mai considerato che gli attimi sono colorati, mai grigi? Così di attimi ne colgo un bel po’, ne faccio un mazzetto e li guardo col giusto rispetto, amore, considerazione. Completo il cogli l’attimo col suo significato: la persistenza del bello che include e non svanisce. Anche questo è stile.

Buon primo ottobre.

quando ancora non s’accalcavano le forze oscure del tempo

come i metalli quietamente sublimare

La sublime inutilità di questo luogo lo rende poetico
è un mandala costruito con la pazienza dei giorni, dei pensieri prima del sonno,
a cui le intemperanze e il ribollire dello sdegno, non hanno fatto offesa.
Qui nessuno t’obbliga a capire, è ciò che d’altri non si conosce sapendo di sapere. Come l’intelligenza nascosta nella stupidità.

Forse è vero,tutti siamo gatti curiosi,
e le vite altrui sono meraviglia, banalità, carezza leggera.
Un soffio che si spande
e fa girare il capo,
come qualcosa che ci riguarda
ed è già sfuggito.

costruir passioni

È un progetto nato per passione e scherzo, poi diventato cosa vera. Due ragazze, ma potevano essere ragazzi oppure un po’ per genere, bastava (non basta mai come in ogni amore), la passione per il teatro, per ciò che pare e diventa vero con la voce, il gesto, la movenza del corpo. E così è nata una stanza bianchissima, grande, uno spazio pieno d’aria, di sussurri che sono parole ripetute, di pulviscolo sollevato trafitto dalla luce, di talco attraversato e di sguardo attonito nel vedere il silenzio che si posa dopo una perfetta frase di pensiero pronunciata. Sopra c’è un cielo di tulle e foglie, uno strano albero volante sotto cui è dolce sostare, l’attesa è bene detta, forma un quieto posare d’armi e pregiudizi. Lo sfondo, indeciso s’essere sipario dell’altove o quinta, avvolge l’indefinito, mentre attende l’ingresso dell’attrice che compirà il rito. Tutti ne intuiscono l’alchimia che avvolge le parole dipanandole dal dito in cui sono messe in fila. Forse a ricordar qualcosa, come s’usava da bambini e i pensieri nei giochi fuggivano veloci oppure perché le frasi hanno una musica che si perde se non viene fermata in una riga, un nodo, un filo. Per dar forma al silenzio, s’attende lo sbocciar del gesto, la parola che pastelli il bianco, il suono, la lacca dell’accento, tutto nella fusione dei sensi per la mente di chi ascolta. Chi assiste, partecipa chiedendo d’esser preso per incantamento, vuol essere accompagnato nella realtà che si crea assieme. Ha il cuore e la mente aperti, accoglie e già nelle parole vola socchiudendo gli occhi. Vede lei, che ora, fuma nel suo vestito rosso, vede il suo sogno, assieme lo condivide, sorride, il tempo, il luogo sono svaniti, è rimasto l’incanto e la scoperta d’esser belli.
Appena oltre la porta, c’è uno. Spiazzo di cemento, potrebbe essere erba su cui è bello sedere, ignari i ragazzi giocano a pallone forte, a loro modo felici di quei gridi che ricamano il cielo.

quando abbiamo smesso di essere noi?

Anna sta appoggiata a uno di quei passeggini da vecchi che hanno sostituito il bastone, una mano si tiene, l’altra si solleva e fa gesti aggraziati di richiamo. Anna è davanti alla sua casa, sul marciapiedi stretto della via, chiede per favore di seguirla, entra nella porta con l’architrave in pietra e il fiore scolpito; c’è un piccolo corridoio, a destra una cucina grande, quadri e fotografie alle pareti.
Anna mostra una seconda entrata, larga, con la legna tagliata e bene accatastato, racconta che i ragazzi l’hanno portata dentro, disposta per bene in quel disbrigo che va verso il fazzoletto d’orto.
Mi mostra la sua camera, Anna, il letto ben ordinato, il cassettone, l’armadio, la finestra verso il verde, la tenda che non c’è.
Ha bisogno che qualcuno le appenda la tenda che ha lavato e ora è sul cassettone, usciamo e scende una scala erta e stretta che porta in una cantina. È fresca, illuminata dalla finestra alta, a livello di terreno, ordinata come il resto della casa, lì c’è la scala.
Anna si inerpica mentre risalgo con la scala, è agile sui gradini, con la consuetudine che il corpo mette assieme alla mente e rende facile il muoversi familiare.
Le sistemo la tenda della sua camera, riporto la scala in cantina, mentre Anna non cessa di ringraziare, vorrebbe offrirmi un caffè, un liquore.
Le chiedo notizie dei visi che vedo nelle foto alle pareti, Anna sorride, questo è il figlio in California, questi i nipoti in Alaska. Tutti sorridono e guardano la mamma e la nonna, con quell’amore lontano che porta il pensiero ogni giorno verso chi è caro.
Anna è contenta, racconta che i nipoti telefonano ogni sera. Vive da sola Anna, il mondo è diventato a sua misura, è indipendente, ha il termosifone ma la sera accende la stufa economica e pare di sentire l’odore della legna, il calore secco che si spande nella casa, l’attesa della telefonata e la camera con il letto ben dotato di sogni, il bagno vicino, la giornata ben vissuta.
Anna vorrebbe sciogliere il vincolo di una cortesia ricevuta, ma è lei che ha fatto un dono, profuso serenità, nell’accettare un aiuto che la rende libera.
La strada, prima anonima, ha ora un luogo su cui posare gli occhi, rallentare il passo, sperare nella vista e in un saluto. Quand’è che abbiamo smesso di essere noi e siamo diventati soli?

temporale di città

Piccoli dolcetti al cacao si accompagnano al fernet e caffè nella larga tazza. Tra le strette piazzette e nel viale, passano ragazze con vestiti estivi corti e leggeri. Parlano con parole che si di stendono pigre le une sulle altre, ridono spesso. Qualcuna gesticola e si tocca i capelli e il corpo: sta raccontando qualcosa di sé. Gli uomini si fermano rallentando il passo in sincronia con le parole, tra una boccata e la successiva parlano e ridono, ma è una risata meno leggera, pesante di sottointesi.

Il mio sigaro è di dolce Kentucky, poco invecchiato. Lascia un fumo denso e l’ aroma corre nell’aria come un flusso, un ricciolo d’acqua da codice atlantico. Lo seguo con lo sguardo e mi pare un bel momento.

Appena oltre le case, tra i balconi pieni di gerani rossi, s’annida il rumore di chi va di fretta perché ha esaurito l’estate. La città, che è nata dal gioco di un gigante, si incanala tra linee sempre un poco curve, quando è stata scritta, dalle dita possenti di forza e sorriso, ne è venuta una spirale logaritmica e io sono al centro di quel dipanarsi di luoghi che sembra correre verso la periferia e perdersi in un verde confuso con l’azzurro, ma sono anche sulla retta del corso. E lì vedo staccarsi le ore come rintocchi pieni di identità e pensieri compressi in attesa di espandersi nel futuro immediato. Ma è cosa d’uomini e d’animali tutto questo affollarsi di possibilità e accadimenti… mi prendono pensieri quantistici, risuonano le discussioni di Bohr e Heisenberg. Che belle le parole usate per definire ciò che diviene reale solo se osservato, chiamato ad esistere nel momento, in quel luogo e poi liberato da ogni determinismo sino a diventare un tessuto inconsistente che regge la realtà. E penso ai giochi di bambino quando tenendo per i capi un telo si faceva rimbalzare la palla verso il cielo ed essa andava, per una imperscrutabile somma di forze e indecisioni, da una parte oppure da un’altra o da un’altra ancora. Infinitamente indecisa prima di balzare e al tempo stesso pronta verso una nuova possibilità. Così immagino la folla di pensieri e di direzioni non ancora prese attorno a me e le mie stesse, mentre il cielo scurisce e si carica di elettricità. L’aria non vuole cedere al temporale. È così limpida e piena di tanti piccoli suoni tiepidi conosciuti, che si basta. Tutto si accorda nell’attesa di qualcosa, il deciso e la possibilità. E tutti, quelli seduti e quelli che passano, presumono di sapere cosa accadrà tra poco o tanto, ma allo stesso tempo sono attenti ai segni, anche se ostentano una distratta noncuranza. Forse per questa arroganza lieve di un determinismo vitale, o per aggrapparsi a qualcosa di ben noto, si ude il cigolio degli ingranaggi del campanile e si sollevano ironici commenti di sollievo perché le cose sanno far ridere se proseguono nelle parole. E qui c’è un eppure che distrae e si scioglie in uno di quei pensieri che sembrano importanti e si vorrebbe appuntare da qualche parte ma che già nell’indecisione del come farlo, si perdono.
Sono schiuma d’onda che disegna e ridisegna, senza lasciare traccia definitiva, ma tra il rumore secco delle chicchere nel secchiaio del bar, le voci dei passanti e il tintinnare di bicchieri, inopinato risuona alto un evviva! con quel tono squillante che hanno i tenori di coro. Tutti si voltano verso l’indeterminato qualcuno che brinda al momento, alla presenza, a chi paga, e forse anche ai seni della barista. Qualunque sia il motivo si scioglie nell’aria il pensiero d’una carta voltata e mostrata, un arcano maggiore, mentre cadono le prime gocce di tiepida pioggia.

la tempesta d’agosto

la scuola di don Abbondio

C’è più coraggio in un riconoscimento di insufficienza e quindi nel ripiegare sulle posizioni più sicure, oppure nel tener testa, combattere oltre quello che si pensava e non recedere? In entrambi i casi se c’è onestà c’è anche coraggio e ognuno ha una sua risposta che vale sempre in quella vita che non è solo battaglia e tanto meno eroica. Penso alla vita quotidiana, alla difficoltà di fare il proprio lavoro, alla necessità di dire se si ama o meno una persona, al mettersi contro chi aggredisce portando idee trite e ritrite e che magari approfitta del becero conformismo. Il coraggio è una scuola dove si rafforza la coscienza di se6e la dignità, e non vale il teorema di don Abbondio che chi non ha coraggio naturalmente, non se lo può dare. Se si viene incoraggiati a dire ciò che si pensa, al tenere fede alle promesse, se si ha l’educazione a non compiacere ma a dire la propria verità, sopratutto nei sentimenti, non si è più felici, ma di sicuro più forti e coraggiosi.

Nei nostri tempi interessanti e ricchi di nebbia, il coraggio non è buona merce perché val più chi fugge, chi è un tartufo, chi assente al più forte e si mimetizza, chi non dice la verità. E bisognerebbe rispondere a questa domanda: perché il coraggioso alla fine sembra un visionario, un illuso, spesso un imbecille che non bada al suo tornaconto? Ma allora, se così fosse, perché il coraggio non viene derubricato dalle azioni possibili e semplicemente si elogia unicamente la fuga, che poi riassume tutti i modi dell’ignavia.
Si fugge per salvarsi, non per restare ed evitare le difficoltà, l’impegno, la fatica, e così pensare che ci sarà qualcun altro che la farà al nostro posto. Perché questa non è fuga ma codardia. E non raccontiamoci che nel mondo è normale che qualcuno si sacrifichi al nostro posto, un mondo che va avanti sul sacrificio di chi rispetta se stesso. Se così fosse sarebbe un mondo di ignavi, dove ciascuno pensa a sé e se c’è bisogno di essere presenti, si sta zitti perché aiutare, fare ciò che non è richiesto è comunque una forma di coraggio. Questo mondo assomiglia molto a ciò che stiamo diventando, chiusi nella furbizia e nell’individualismo, pronti a conformarsi anche attraverso l’assenza, il cinismo del tanto tutto è uguale. Bisogna pensarci almeno tra quelli che ancora avvertono il disagio di non essere a posto con sé stessi, tra chi si emoziona davanti a un fatto tragico che poteva essere evitato e pensa che l’uomo è portatore di dignità assoluta ma non sempre è così per la legge. Bisogna pensarci perché sulla strada dell’ottundimento siamo avviati da tempo, perché non vediamo che intelligenza e umanità devono accompagnarsi e che una qualsiasi intelligenza artificiale sarà spietata con noi. Abbiamo ancora la risorsa del sentimento, facciamola crescere in modo che i coraggiosi non vengano trattati da imbecilli.

p. s. Ho messo un brano (non casuale) di Maria Gudina, la pianista che ha attraversato lo stalinismo continuando a suonare musica “proibita” e che nei concerti portava una pistola sotto la gonna come soluzione al suo possibile arresto.

la coda

La coda di auto ha tetti che riflettono la luce. Dall’alto non ci sono colori solo specchi argento che celano al loro interno vibrazioni, così la coda diventa corpo di luce che si snoda, come quei serpenti giocattolo di un tempo fatti di tanti pezzetti collegati tra loro. A guardar bene non sono collegati, ognuno dei pezzi si muove covando uova di rancore, mescola la musica che esce dalle radio con le sue paure, frulla con fruste di tempo, ne esce una fretta senza misura, l’ansia, la voglia di essere altrove, quell’altrove che l’auto davanti non gli concede e che ormai occupa l’intero campo visivo. Così non vede i boschi fitti, non sente il fresco che odora di resina., non immagina elfi tra le fronde. L’aria odora solo di scappamenti, si spande sui primi abeti il sentore acuto e acido delle miscele incombuste. Dentro le auto si aspira e respira, si mette la marcia, si fanno due metri, poi si rimette la folle e si preme il freno. A volte il motore si spegne per lo stop and go, altre volte non accade, miracoli dell’elettronica che non eliminano i desideri comuni, che non allargano le strade e che portano sempre negli stessi posti. Partono le ventole di raffreddamento e un pensiero di prigionia, c’è bisogno di vuotare la vescica. Perché non si è provveduto al bar, forse per la brioche di cartone e il cappuccino con il latte a lunga conservazione ? Prima incazzatura, qui ci sono solo mucche e vitelli e latte a lunga conservazione, chi lo beve il latte delle mucche? Le mani stringono il volante, sudano, bisogna soffiare tra le dita, imprecare, togliere le mani e vederle gonfie.
Ognuno di questi pezzi di serpente, ha una storia, una vita vissuta, la nebbia su ciò che vivrà oltre i desideri. Ciò che unisce le vite è ignoranza e disperazione, l’incapacità di determinare un presente che sia madre di un futuro. Dove sei libertà che ora manchi, sei un nome che contiene solo desideri, nulla che costruisce identità profonde, bisogni inesausti, con la tua essenza intuita frutto di disinganno, di scelte, di pazienza portata oltre il limite delle vite, sembri vivere e muori in una coda, in un pensiero, in un guardare nello specchio e vedere la realtà riflessa.
Dall’alto il serpente si snoda, accelera, decelera, si ferma. Quando è fermo vorrebbe azzannare.

Ci sono 12 branchi di lupi che percorrono l’altopiano, di notte fanno anche 30 chilometri, poi attaccano un vitello o un asino, mangiano il necessario e spariscono. Adesso dormono.

scompaginate riflessioni senza contesto

La menta di assuan sta facendo effetto: sbadigli a raffica. Prima di dormire racconto cosa ho pensato leggendo (cosa, chi, dove?) :
1. il testo era scritto bene e aveva un ritmo interiore, ho cercato di adeguarmi,
non era un tango, qualcosa di più ritmato come quei balli irlandesi e greci.
2. il sentimento del cambio dell’età così contestualizzato è una mia
autoanalisi, non c’è nel testo. Si tratta di capire la cesura del mutamento.
3. la lettura non ti prende per mano, le parole, le frasi corrono avanti e poi oscillano indietro, trattenute da qualcosa che non è stato e non potrà più essere.
4. c’è il tema del procedere del tempo, il suo trattenere e lasciare, gli amici che a volte se ne vanno, ma per fortuna si vedono reali. Nel ricordo comune c’è un prima e un dopo, come le sciocchezze fatte assieme allora. Tutto era buono, forse l’età, poi in un divergere è mutato. Si spera sia presupposto del buono che ci sarà.
5. il buono che ci sarà, si farà fatica a sentirlo tra le dita, questione di artrosi.