mi spiace

A volte mi spiace, ma non so bene di cosa.

Apparentemente è qualcosa di non fatto, un non essere come tu mi vuoi, oppure semplicemente l’ assentire forzato che considero obbligato. Mi adatto a fatica, non sono molto adattabile. Non è una qualità, l’uomo dovrebbe adattarsi all’ambiente in cui vive o adattare l’ambiente a sé. Io al più convivo con esso.

Eppoi sono geloso del mio tempo, mi creo un ordine in testa che mette alcune cose prima e altre poi. Dirai: lo fanno tutti, ma il mio è solo mio. Credo che anche questo accada a tutti, però così gli ordini non sono sovrapponibili. E non è solo importanza è un equilibrio faticosamente raggiunto.

A volte emerge, nel bene, un sottile ricatto: la paura d’essere lasciati soli si trasforma in una priorità di attenzioni. Non credo di funzionare così, la mia attenzione c’è e si esprime secondo le modalità che conosco. È  qui forse nasce quel mi spiace che si nutre di sensazioni, quella tra tutte di non corrispondere come mi verrebbe richiesto. 

Assomiglio più a un rivolo, a una vena d’acqua che a un onda, il molteplice sono io non ciò che m’investe. E per capire mi chiuderei in un silenzio profondo, per rimettere il mio ordine dentro. Con un silenzio che è una pausa alle risposte. A tutte le risposte che si devono dare pro bono pacis.

Siccome non do ragione dei miei malumori in parole, poi mi spiace. E cerco d’aggiustare l’incrinatura, di spiegare l’inspiegabile, il parziale, l’imperfetto, cioè me. Fatica aggiuntiva e improba, giustificata e poco utile, perché la sensazione tornerà.

Ma vorrei rassicurarti: non sei tu la fonte del dispiacere.

caffè quasi alla turca

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Due cucchiaini ben colmi di caffè, macinato grosso, per persona. Il caffè si può bere da soli oppure in compagnia, ma la preparazione è la sapienza di uno solo. E ognuno ha la sua, esattamente come la preferenza. Ristretto o lungo, all’americana, con la moka, la napoletana, espresso. Sul caffè si sono costruite fortune e create culture, l’illuminismo è un prodotto del caffè. Magari non è proprio così ma è bello pensarlo. Comunque sia, come per la cioccolata, la Chiesa si esercitò nel proibire, capendo che dietro al caffè c’era il comunicare intimo, il pensiero raccolto, l’allegria del condividere. Il piacere insomma. E questo era eversivo. Lo è tuttora, ma con le distrazioni di massa lo si è diluito in mezzo a una miriade di possibilità e piaceri che poi non si rivelano tali perché fugaci, portatori di energia verso l’esterno, mentre il caffè porta all’interno, induce alla visione di un sé acuito e personale e, fatto singolare, mette nella condizione di condividerlo o meno. Secondo estro. 

Mettere così tante parole per un piacere che parla silenziosamente da solo è un cercare di prendere per la coda un motivo più profondo che si rintana. Come un giustificare una predilezione. Forse la cosa più onesta è dire che mi piace il caffè, che lo bevo da solo e in compagnia, che mi piace prepararlo e che non finisco mai di sperimentare potendo poggiare su basi sicure di abitudine. Stamattina il terzo caffè sarà quasi alla turca, l’acqua appena bollita inonderà la polvere che attende, resterà in infusione per 8-10 minuti, finché scrivo. È il suo tempo. E poi verrà versato in una tazzina media, meglio se a bocca larga, farà il suo mestiere profumando l’aria, riempiendo di gusto la bocca, metterà una pausa, guardando fuori dalla finestra, ascoltando con un’attenzione dolce ciò che c’è attorno, parole comprese e alla fine, volendo, si potranno leggere disegni e vaticini nella polvere che s’è asciugata. C’è il sole, il caffè è buono, silenzio quando serve, le abitudini sono senza fretta, non male per un giorno di vacanza. 

che dire sull’attimo fuggente…

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Avevo 20 anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.

Paul Nizan

Sul vivere gli aforismi si sprecano. Una parte non piccola delle riflessioni incastonate tra facebook e altri media web sono perle di saggezza che ruotano sull’insoddisfazione generalizzata che sembra le vite si portino dietro. Hanno successo. Fanno bene per qualche nanosecondo, ma non insegnano niente perché ogni insegnamento è fatto di fatica, pelle tagliata, di scelte. Fanno bene perché ci fanno sentire in compagnia nell’insoddisfatto brusio delle vite attorno. E sono variazioni sul tema: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, salvo poi sperare che la vita duri indefinitamente.

Ed io su questo vorrei proporre una piccola riflessione che non sia un proverbio, ossia il mettere da parte, il rimandare non è sbagliato in sé, è un posporre qualcosa che non s’intende affrontare. Ciascuno di noi sa perché non vuole affrontare nel momento ciò che sarebbe possibile. Anche una cosa piacevole si rimanda, questo vorrà pur dire qualcosa. Credo dipenda da una concezione del vivere che vuole avere tutto, che non si accontenta, e che però lo senta riprovevole. Ma questo non basta perché lo stimolo rimane e imporrebbe una scelta e quando questa si rifiuta, allora si rifà su altro, prende quello che ha a disposizione, lo muta e tramuta in simulacro, cerca di rivivere un tempo che non ha più. Ciò comporta la necessità di una giovinezza, cioè di una disponibilità infinita di tempo e la si colloca indipendentemente dall’età, nel presente, al posto del tempo proprio, delle proprie scelte nel momento, come si potesse riparare ciò che non è stato e rivivere anziché vivere.

Però non esiste una ricetta, ciascuno fa quello che gli viene meglio, attraverso oscuri meandri che scomodano il sado masochismo, che vivacchiano nella facilità delle abitudini, che colgono la contraddizione di ciò che è perbenismo, ma si adattano ad esso. In fondo è sempre più facile dire un sì piuttosto che un no, mentre vivere nel momento dà un significato univoco ai no e ai sì. Consoliamoci, anche il rivoluzionario ha una vita fatta di abitudini e fisiologie del corpo. Volendo dare la colpa a qualcuno, cioè togliendosene un poca sulle proprie scelte rimandate, possiamo dire che l’educazione gioca forte e il condizionamento sociale pure, in questa idea che il piacere si possa rimandare, che la vita sia dovere. E questo non distingue tra il pubblico e il privato, così ciò che è socialmente dovuto irrompe nella vita personale. Questo prescinde dall’età. Ma allora il processo di liberazione interiore è personale, solo noi possiamo decidere ciò che vogliamo fare di noi. Se tenerci un piacere, se vivere quando la vita accade oppure se rimandare ciò che vorremmo a un indefinito futuro, quando ci sarà il tempo delle decisioni e tutto sarà più libero e semplice. Non c’è giudizio in tutto ciò, ciascuno vive a suo modo; importante  è che si capisca che vivere bene è meglio che vivere male e che questo vale a 20 anni come a 80.

Che dire sull’attimo fuggente se non che fugge.

 

semplicità

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Semplice non è buono, ma fa bene. E quindi aiuta. Sulla terrazzetta il verde aumenta, chiede acqua e una piccola attenzione. Le aromatiche ringraziano. L’elicriso, la menta, il basilico si sporgono arditi e curiosi verso la piazza d’aria tra le case. Lavanda e timo, più contenuti, osservano. Il ribes nero cresce lentamente, le sue foglie verdi e forti, partecipano alla confusione di profumi. Eppure sono distinti, quando la notte, nell’innaffiare, passo la mano e me ne viene una nuvola intensa, che penso amica. Non come la seppia che schizza il suo nero, ma la risposta a una carezza col buono che si ha.

Il pomodoro cresce nei frutti, lascia sulle mani un odore forte, di verde sapore selvatico; l’ultimo cespo d’insalata si nasconde tra due piante di peperoncini piccanti, ciliegini, ora provocanti nel frutto rosso che avvampa. Oltre, i due girasoli crescono, il rosmarino per suo conto, il rafano potente, i piccoli garofani e qualche pianta grassa. I bulbi sonnecchiano assieme a due cespuglietti un po’ stenti di lantana.

La vita semplice è verde, l’avete mai notato? Ed è pure generosa perché restituisce molto più di quanto riceve. 

tempo proprio

Gran parte del nostro tempo cosciente lo cediamo ad altri. Per fortuna siamo fatti talmente bene (o male per l’economia di rapina) che il sonno e il sogno ci sono dovuti. E questa felice incoscienza dei ruoli e delle necessità ci riporta a noi. Ma oltre a questa necessità, ognuno sceglie dei momenti che contengono l’amore per sé. Se posso regalare, scialacquare il tempo del giorno, il risveglio e la notte devono essere miei. E sono due momenti diversi in cui mi conformo alle mie nature.

Per alcuni il dire d’avere più nature adombra la duplicità, l’essere più persone, insomma l’essere infidi per la prevedibile normalità. Per altri nature ricorda la nudità dell’assenza di obblighi. Preferisco la seconda anche se potrei vantare l’ esser nato sotto il segno dei gemelli, ma per me, sono i gemelli che mi rincorrono nei loro oroscopi, non io che ascolto loro. Il vaticinare individua la nostra natura, non il nostro futuro, esso è conseguenza d’ essa. Cioè noi siamo i nostri bisogni e desideri e quale momento migliore del mattino, quando il sogno ha ceduto alla luce per trovare l’attimo lungo della sospensione e della libertà?

Al mattino sono il profumo del mio caffè, il pane che si tosta, la luce che invade la stanza, i tetti che non cessano di piacermi, le rondini che volteggiano e riempiono la piazza d’aria tra le case. E sono i miei tempi lenti, la mezz’ora prima del necessario perché necessario è non avere fretta e così dev’essere la cura della mente e del corpo. Sono la prima musica e le prime parole, il pensiero che vaga e si sofferma, sono il preannuncio della giornata senza assillo. Sono l’attesa senza fretta, l’accadere nuovo, il boccone di pane imburrato che mi stupisce per la sua pienezza. Sono una parola scritta per non dimenticarla, sono tutto quello che ancora non è preso da altro. Insomma sono. Poi verrà la giornata, le corse, le telefonate, i chilometri, la stanchezza del ripetere, i problemi che se fossero facili non te li darebbero da affrontare.

Te li darebbe chi? Questo chi in realtà contiene anche me, la mia volontà, nel contratto in cui si presuppone la responsabilità, ma questo è un altro discorso. Farebbe parte della libertà, del contrarre tra eguali, e spesso si sceglie di non essere eguali. Voglio dire che la dignità nel lavorare, nel fare, è una educazione severa di sé, faticosa perché presuppone una serenità interiore che semplicemente fa dire di no quando serve. Ma questo è l’altra natura e al mattino non ci pensa. 

E neppure la sera ci pensa. Passa la giornata e arriva la notte e si ripete la magia del ritrovarmi intero. Intero significa corpo, sentire, anima, pensiero, tempo proprio e libertà di non avere obblighi. E’ il raccogliersi per la notte. E anche quando si veglia, la notte ci possiede e la possediamo, ciò significa che essa è uno spazio in cui siamo. La notte esalta ciò che manca e ciò che si ha, mette a confronto i desideri con la quiete, il bisogno con la regola interiore.

Siamo tutto questo: ossimori. Solo la parola sente la contraddizione dell’ossimoro, non noi, che abbiamo più nature, più età, più generi se non c’accontentiamo. La notte con i suoi silenzi, i rumori lontani, le abitudini che preparano il sonno (meglio sarebbe pensare che preparino il sogno ovvero l’altro da noi) ha per ognuno i suoi codici. Sfortunato colui che dorme e basta, sfortunato chi non conosce la zona tenue in cui si addensa il pensiero della saudade, sfortunato chi non conosce la soddisfazione dell’ultima riga letta e ripetuta prima che gli occhi si chiudano, sfortunato chi non ha un desiderio dolce, un pensiero che prende, una mancanza che attende. Poi il sonno e il sogno e di nuovo un mattino. Mai lo stesso, se lo si vuole, come il tempo. Il proprio tempo. Non quello ceduto espropriato, regalato, rubato, il proprio tempo, la propria possibilità, quella che nessuno potrà mai prenderci se noi non vogliamo. E ciò che di più alto possiamo donare senza alcun eroismo è proprio questa nostra quiete dedicata: un me per te.

A uno solo, due sarebbero troppo.

struscio dell’anima

Si muovono prevedibili i corpi impagliati nei gesti,

nella fannullona convinzione del consueto

attraversano vie pedonali,

si fermano davanti a vetrine,

sostano seduti,

sorseggiano abitudini liquide.

E parlano e sorridono forte

cacciando le tristezze in agguato,

bastano dei passi da soli, un silenzio più lungo

per mostrare sui visi la violenza

delle solitudini incerte.

Non c’è nulla di nuovo in questo ronzare di pensieri zippati,

è vuoto di futuro il luccicante frigidaire

che allinea il giorno,

e pure la notte.

Non c’è brivido nel torpore d’attese,  

nelle passioni d’un attimo,

nei tacitati ideali:

l’avversario s’è ridotto alla fatica

di  tenere vivere e andare.

Dove e quando osare,

per cosa, per chi?

Più in alto 

è l’incompresa fatica dell’esplorar salendo,

del ritrovare sé nella passione d’esistere

magari ancora più soli,

ma noi, non d’altri,

noi.

azzerare

Vorremmo azzerare i passati, a volte, non spesso. Dipende da quello che ci avviene e deve essere forte, tanto da desiderare di derubricarci da quell’agenda fitta di fatti, luoghi, persone che sembrano frapporsi tra noi e l’innocenza. Un essere prima d’altro essere stato. Ignorare, dormire e svegliarsi nuovi perché gli errori siano anch’essi privi della muffa del già provato, sentito, visto. Privi di noia e nuovi, senza sforzo, per processo naturale in uno statu nascendi che ha in sé ogni strada, ogni possibilità per lasciarsi travolgere dal nuovo. Innocente e senza passato. Basta non chiedere, non ricordare, non avere paura di provare. Basterebbe…

miles

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Noi così pieni d’amore e di disperazioni, di baratri nelle coscienze, di icone e santi laici.

Noi così pieni di sentimenti fatti di silenzi, di forza e di fragilità, di battaglie perdute e di speranze.

Noi così pieni di senso del limite, di rivoluzionarie gentilezze, di stanchezze immani, di parole piene d’ amore.

Noi così pieni di sogni e di certezze, di dubbi e di voglia di capire.

Noi che quando vinciamo ci chiediamo come sta chi perde.

Noi che ogni volta che cadiamo diciamo come da piccoli: fatto niente e riprendiamo a correre.

Noi che contiamo le cicatrici e guardandole ci sembran belle perché, ogni volta, gli occhi e il cuore si sono riempiti di sangue, lacrime e sorrisi.

pulviscolo

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Dopo aver arieggiato la casa di primo mattino, venivano accostati gli scuri delle camere fino a lasciare una lama di luce e d’aria. Attraverso quella fessura, le cose all’esterno,  diventavano puro colore. Anche quelle usuali e sciatte, pur viste mille volte con distrazione, diventavano nuove e misteriose. E attraverso quella lama di luce diventava chiaro un universo danzante di pulviscolo: nell’aria apparentemente immota, s’ agitavano cose sconosciute.

Ero incantato. Saggiavo  la luce per sentirne il calore. Agitavo l’agitato cercando di scompigliarlo. Muovevo le mani piccole e poi mi fermavo: erano quei minuscoli riflessi che rimettevano in riga me, catturandomi per incantamento. Vivevano, loro, dell’ aria che non sentivo.

Poco lontano, oltre la penombra, le voci care, parlavano piano, perché d’estate anche la voce sembra fare caldo.

A volte bastava un filo d’aria per gonfiare le tende e sentire un fresco che non sarebbe durato, ma sembrava l’eterno cambiare in bene la fatica.