tempo 2.

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Frammento sulla fine della giovinezza … 

Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.

Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.

E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.

azzerare

Vorremmo azzerare i passati, a volte, non spesso. Dipende da quello che ci avviene e deve essere forte, tanto da desiderare di derubricarci da quell’agenda fitta di fatti, luoghi, persone che sembrano frapporsi tra noi e l’innocenza. Un essere prima d’altro essere stato. Ignorare, dormire e svegliarsi nuovi perché gli errori siano anch’essi privi della muffa del già provato, sentito, visto. Privi di noia e nuovi, senza sforzo, per processo naturale in uno statu nascendi che ha in sé ogni strada, ogni possibilità per lasciarsi travolgere dal nuovo. Innocente e senza passato. Basta non chiedere, non ricordare, non avere paura di provare. Basterebbe…

vecchie foto

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E’ una delle ultime feste delle matricole, il ’68 renderà improvvisamente anacronistica questa festa, che riprenderà alla fine degli anni ’70, quando tutto sarà normalizzato. La fotografia è del 1967, scattata probabilmente, su fp4 Ilford, sviluppata e stampata in casa. In quell’anno l’università elitaria diventa università di massa, ma soprattutto comincia a mettere in discussione i meccanismi di trasmissione del sapere e la loro incidenza sulla società. Si capisce che il sapere serve per mantenere potere, soggezione e diseguaglianze se non mette in discussione il suo fine. La conoscenza fino a quel momento ha liberato poco se non è stata accompagnata dalla critica e dalla richiesta di cambiamento. Cioè non basta leggere la società, bisogna trarne le conseguenze. E’ una consapevolezza che cresce, che diventa collettiva, ma quello che viene poi, dal 1972 è una sequela infinita di errori, di radicalismi, di alienazioni differenti, e altrettanto gravi: la lotta armata, le uccisioni di magistrati e giornalisti, l’attacco al cuore dello stato, i servizi deviati, gli attentati neri, i golpe falliti. Tutto porta alla restaurazione e il lento scivolamento nell’anomia, nell’esasperazione dell’io perché il noi è insoddisfacente. Il sapere torna nell’alveo della trasmissione delle competenze, non discute più rapporti e fini, si tecnologizza e parcellizza ulteriormente. Si capisce che il sapere di per sé non salva, al più pone domande radicali, anche se aiuta a trovare risposte nell’analisi della realtà, bisogna decidere se ascoltarlo o meno. Nel frattempo la macchina del sapere si organizza, crea competenze alte ed esclusive, ma in campi ristretti, dequalifica come inutili economicamente le conoscenze umanistiche, punta sulla parcellizzazione che allontana le risposte complessive e fa trionfare la tecnologia: ogni problema singolo ha una risposta tecnologica, ogni malattia del corpo e dell’ambiente riceverà una guarigione. Poiché non può economicamente attendere la coscienza del problema che crea, spesso la tecnologia anticipa la domanda, la crea.

Il bivio tra un sapere che colloca l’individuo nella società e quindi la sottopone al suo vaglio e il sapere funzionale nasce ben prima del ’67, però diventa coscienza collettiva in quegli anni. I risultati di una meditazione caotica, non per questo priva di acutezza, di fortissimo discernimento, sfociano, anziché nella sabbia che è sotto l’asfalto, come si scriveva sui muri di Parigi, in un grigiore di cemento. Se prima del ’68 l’attacco al territorio e all’uomo, la speculazione, erano un fatto enorme e censurabile, questa pratica divoratrice diventa poi una presunta corsa all’arricchimento di massa. Cresce la scolarizzazione e il sapere e aumenta la malversazione, il malaffare grigio, la corruzione, la pratica criminale intelligente. Non c’è correlazione tra sapere e comportamento delinquenziale, ma certamente cresce l’infingardaggine, il girarsi altrove, il non vedere per interesse. Quindi il sapere abiura alla sua funzione critica e pur essendo di massa non migliora complessivamente la coscienza sociale. Dov’è l’errore? Forse nel dare al sapere una responsabilità che in realtà è dell’uomo, forse nella malintesa concezione che il sapere serva a fare e non ad essere.

Quel giorno, era l’otto febbraio, ero molto giovane e pieno di pensieri e speranze, giravo per la città con la mia macchina fotografica. Cercavo i volti, come sempre, le situazioni accennate. In questa situazione, dietro l’angolo del Pedrocchi si prepara una sorpresa, sono giovani che vogliono ridere con altri giovani. Una giovinezza esplode nello scherzo e nell’ilarità conseguente. E’ un attimo poi qualcosa di diverso attirerà l’attenzione per ulteriore ilarità. In questa sospensione prima che qualcosa accada, è vissuta una generazione e la successiva. Non malamente, si è riso molto. I due della foto si stanno preparando alla vita, non so cosa sia accaduto loro poi, come le vite si siano svolte. Se penso a ciò che conosco, immagino che le difficoltà e i grovigli non siano mancati, che la crescita abbia avuto luci e amarezze, che l’indole si sia piegata, indurita, che abbiano appreso molto dalla realtà (che è sempre una dura maestra). Sono miei coetanei, e poi hanno avuto occasioni per usare il sapere che questa alma mater gli ha dato. Chissà, e se, le hanno usate. Comunque i loro anni saranno stati pieni e di certo le soddisfazioni avranno equilibrato le amarezze. Sono anche certo che c’è stata molta speranza, ma che questa si sarà via via esaurita se non l’hanno alimentata di utopia e di sogni. Hanno vissuto, ma non sappiamo come abbiano impiegato ciò che gli è stato dato, se l’abbiano elaborato e siano diventati eretici. Stanno per avere una grande occasione e così li lasciamo, nel 1967, in attesa di una vita che ci sarà.

il ricordo sentimentale

Il ricordo sentimentale, ciò che sono stato e ciò che sono, in fondo, oscilla su quanto siamo stati amati e se era adeguato quell’amore. Oscilla per tacitare un bisogno che non è mai muto e poi per scoprire noi in quell’amore d’altri, fatto di tentativi, intuizioni, sbagli, ricerca dell’altro e d’altro. Il ricordo oscilla su questo e trascura il resto, si spinge sino all’orlo dell’abisso della consapevolezza, ne saggia la vertigine e si ritrae, pauroso di sé, del proprio bisogno e dell’inermità  che questo include.

Quanto sono amato e quanto mi corrisponde questo amore? Le vite si disegnano su questa consapevolezza/ricordo, spesso l’adeguano e la mutano in costruzione d’intelligenza che trasfigura la realtà per adattarsi l’amore e la sua misura. Vale la considerazione soddisfatta del conquistatore/trice, il sono stato tanto amato, a sanare il ricordo di qualcosa che manca? Oppure vale l’ adeguarsi che considera possibile l’adeguabilità dell’amore e se ne fa ragione? Oppure è ancora l’inquietudine che vince e diviene speranza/attesa che qualcuno scovi quella parte di noi di cui abbiamo il sentore ma non sappiamo cos’è, che trasformi la cura in sostanza di sicurezza, che tolga definitivamente la paura di non essere amati.

E questa attesa ha risposta quotidiana che scaccia il pensiero oppure si sofferma, si interroga e misura? E ancora, alla fine emerge una ragione, un relativo e si cerca il molto in ciò che si ha oppure ci si chiude nell’accontentarsi? E’ il ricordo sentimentale che trasfonde sul presente, misura la soddisfazione del vivere, si interroga, si risponde, a volte muta direzione, riprende l’attesa. 

un momento che vedo

io: Buon giorno, sono… potrei parlare con il dottor … ?

voce: Buon giorno. Un momento che vedo…

E inizia l’attesa che poi potrà finire in un colloquio o in un rinvio. Ma ciò che m’interessa è la dimensione sensoriale di questo vedere, che realizzerà o meno il colloquio. E immagino che un momento che vedo sia una presa di coscienza diretta, una responsabilità che esige una verifica. Allora credo che la voce si alzi, bussi ad una porta e non si accontenti della voce, ma voglia proprio vederLo, e solo  dopo averne costato coscienza ed esistenza in vita, gli dirà che sono al telefono.  Una verifica tomasiana quindi, che però esclude il tocco, il tattile, che non prevede il risveglio o lo scuotimento per attrarre l’attenzione. Non ho mai sentito nessuna voce che mi dicesse: un momento che lo tocco. Piuttosto dicono: un momento che sento, ma non credo che si riferisca al toccare il desiderato,  piuttosto credo sia una ricerca, un chi l’ha visto tra colleghi, oppure un udire il suono oltre la porta per certificarne la presenza.

Esiste una logistica degli uffici. In fondo sono tutti uguali, e anche quelli che se la tirano, sono uguali. Front end, video (per fare tecnologia), vetrocemento (dà luce e separa), bancone, receptionist sempre al telefono che con le mani fa tutt’altro, alle pareti colori pastello o forti, neutri o marmorizzati, a terra, legno, tappeto, non tappeto, marmo. Sono solo materiali è tutto uguale, ovunque. Ma da quella fortezza Bastiani si apre un dedalo di luoghi: uffici, corridoi, pareti attrezzate, open space, stanze. Però, comunque e ovunque, la segretaria del capo è sempre nell’ufficio a fianco del suo, con porta comunicante. Quindi chi risponde è vicino a chi voglio, e il vedere non è un vedere, ma sta per: sento se ti vuole parlare nel senso che glielo chiedo e poi una balla da dirti la inventerò. Tutto sommato un eufemismo banale, invece a me che aspetto se lo vede o meno,  piacerebbe che davvero, la voce, andasse a vedere  e che gli uffici fossero un mare da solcare fatto di teste e tavoli, con un coffiere che scruta come in Moby Dik a cui chiedere. E coffiere dalla vista acuta che, se per caso lo vede, grida : soffia, soffia. Così penso che sarebbe bello un capo che soffia, per dimostrare la forza in sé non quella di sopraffazione, un capo arpionabile, ma anche riottoso e competitore. Ma il coffiere non c’è e neppure il capo che soffia, così il vedere è solo un sentire, e questa confusione di sensi è già un mistificare le cose.

Mi direte che tutto questo è un pretesto, un gioco. E’ vero, ma perché non si è più diretti? Mi piace molto ad esempio chi dice: non può parlarle. E ancor di più chi dice: non la può ascoltare, anzi non vuole proprio sentirla. Mi disturba invece chi si trincera dietro qualcosa che non posso verificare, che mi rifiuta prendendomi per incapace di capire che si può non aver voglia di parlare con me, oppure di non parlare in generale. Per questo m’ irrita chi eccede in questa direzione e chiede : mi dica l’argomento ... Questo mi fa andare in bestia perché vorrebbe sottoporre ad un giudizio di terzi qualcosa di cui volevo parlare con una persona precisa. Per questo il più delle volte rifiuto di dirlo e ribadisco la richiesta di colloquio.

Signorina, il mio argomento è mio e non ha bisogno del suo giudizio d’importanza, al più potrebbe dirmi di scriverlo, ma non di affidarlo a lei per una sua valutazione. Se così fosse basterebbe parlarne tra noi, e invece lei non può decidere e se non può decidere, perché dovrei dirle di cosa si tratta davvero? 

la forma delle cose

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La forma delle cose non è, sai, l’apparenza, ma il succo che contengono. Occorre pazienza per una goccia, gusto pulito per assaporare, attenzione e tempo.

Il tempo comune è sempre poco, così sembra, ma il tuo non è così arrogante, si stende lento, si dipana secondo le tue mani. Mani fatte di pensieri, di gusto, mani che accarezzano le cose, le aprono e con occhi bambini si lasciano sorprendere.

Mi piace che tutto rallenti in una carezza timida che percorre un oggetto. In questa sapienza c’è il trattenere il tempo anche di chi guarda. L’ ho imparato per mio conto che i minuti s’allungano e s’accorciano, ma altrove, senza sentire prima dov’ essi fossero diretti. E non importa dove vanno i minuti, anche quello ho imparato, quando mi piaceva distillare.

E già c’era la pazienza che è gusto dell’attesa. Ma tu conosci la lingua delle cose, il loro parlare sonoro al tatto e al cuore.

inshallah

Nei primi anni di università frequentavo un gruppo di studenti arabi, c’erano palestinesi, iraniani, giordani, qualche siriano. Ci vedevamo a lezione, al bar o in sala studio, si parlava con le ragazze, c’era sempre molto caffè da bere, risate, curiosità reciproca. Erano anni in cui le guerre tra i Paesi Arabi ed Israele si susseguivano, in Iran c’era molta resistenza, cercavamo di capire senza darlo a vedere e  per questo parlavamo tutti con generosità di parole, di tutto, ma anche molto di vita quotidiana. Inshallah concludeva tutti i ragionamenti pratici: gli esami, una serata programmata, un approccio possibile con qualche ragazza, l’appuntamento per il cinema.

Non mi rendevo molto conto del valore che c’era dietro a questa parola, m’affascinava il suono, come accade per la lingua araba quando scivola tra le vocali ed addolcisce consonanti. Mi chiedevo come si potesse rallentare una vita fatta di slanci, perché tali erano i loro e quelli della loro storia, temperando il governo delle cose e del tempo, con l’attesa e l’ accettazione di una volontà esterna così forte da essere l’ultima a dire la parola. Sembrava un affidarsi operoso: ho fatto il possibile adesso tocca a te.

I miei amici erano laici, bevevano e mangiavano senza preclusioni, comunque non credenti e come noi spesso agnostici, si parlava di religioni comparate come fenomeno culturale più che come insieme di precetti, eppure inshallah emergeva come modo di vedere prima che intercalare. L’impressione che ne traevo era quella di essere altrove, come venisse aperta d’estate la porta d’ una chiesa ed il fresco che usciva, prendeva, non occorreva credere in qualcosa per star bene, e si capiva benissimo che quello era il logico accompagnare di ogni sereno preannuncio di impresa, di programma futuro.

Pur sentendone il fascino, mi sfuggiva allora questo affidarsi dinamico, lo capii di più in seguito, con gli anni, e con i viaggi. La parola ed il suo significato tornava, mentre si allargava il suo confine e diventava un modo di vedere il mondo. Credo che il probabilmente a cui aderisco quando vado in africa, o l’affidarsi vigile di quando viaggio nei paesi arabi siano il mio modo di aver capito che ci sono posti e regole in cui lasciar fare agli eventi. E che questo è un aiuto al compimento  dei progetti. Inshallah così diventa anche il mio intercalare, ed il modo per ritrovare una serenità messa a dura prova dagli orari mancati, dalle deviazioni continue, dagli accidenti che spostano di albergo, di cibo e di tragitto. Non arrivo ancora a pensare che la vita, la salute siano poco da tutelare perché comunque un caso benevolo le difenderà, mi premunisco per quanto possibile, ma dove non arrivo, spero e lascio fare.

Mi viene da pensarlo in queste giornate di terremoto, quando l’imprevisto diviene più forte e la scelta è tra alternative inesistenti: è meglio restare o andare? correre od attendere? Scelgo e mi muovo sperando che sia la scelta giusta. Per me il significato di inshallah è questo, fare con serenità una scelta che presa, non dipende più da noi soli, ma da una miriade di variabili per cui è meglio che la loro somma conduca pressapoco dove dovevamo andare.

Ecco, facciamo, impegnamoci, portiamo noi e il nostro mondo verso qualcosa che ci porti avanti, ci faccia bene e speriamo che tutto vada per il verso giusto.

Inshallah.

dal tempo esatto al tempo probabilmente 2

I tempi d’Africa sono quelli della sospensione, si vive in quella nicchia di tempo in cui probabilmente le cose accadono. C’è chi si lamenta che così non c’è più certezza di nulla ed invece non è vero, le cose continuano ad esistere, il pullman, l’albergo, i villaggi, le persone esistono, ma i fatti accadono per incroci di possibile, di tempi che si accolgono tra loro festosi.

A Kaolak arriviamo in ritardo di 8 ore, l’incontro del mattino, si svolge alla sera, bevendo birra analcoolica per solidarietà, si fissa un’altro incontro fra un paio di mesi, non è ancora avvenuto, avverrà. Penso.

Il pullman, l’albergo, gli appuntamenti hanno un’ora, ma potrebbero non averla, in fondo è il caso e il flusso che ci mettono assieme. Capisco che molti non sopportino, quelli per cui il tempo vuol dire molto, anche in termini vitali, non si adeguano, hanno ragione. La stessa ragione di chi abita in questi paesi e considera diversamente. E’ casa  loro, al massimo si può crescere assieme. 

Il rapido, il presto, esistono, ma non coincidono. Le persone corrono per motivi differenti. In una contrattazione -e si contratta quasi tutto- il presto può durare ore, giorni, non chiudersi e non finire. Non c’è un criterio di convenienza immediato, se non nel negozio in cui si deve consumare, ma il resto è un vivere, accettando ciò che accade. In questo, io occidentale, pur adattandomi, faccio fatica perché voglio che accade il mio volere, ma in questi paesi non funziona per tutti, funziona solo per me. Sono asincrono finché non cammino allo stesso passo. Questa dimensione del tempo è dimensione dell’accadere, ovvero ciò che accade, poco o tanto che sia, è il possibile. Una dimensione che introduce altro, perché l’attesa genera la sorpresa che è dietro l’angolo. Senza questa attesa sospesa, quello che sorprende -ed è molto più frequente che in occidente- non ci sarebbe stato, sarebbe stato previsto.

Ciò che è determinato non lo è più tanto con questa nozione del tempo; capisco la difficoltà degli occidentali che lavorano in questi paesi, gli viene tolto uno strumento essenziale di lavoro, ma io non ho questo problema. Per ora. Quando posso andare in Africa, semplicemente mi adatto. Mi viene da pensare a come ci portiamo dietro il tempo come bagaglio, a come, tra noi, viviamo in una bolla che ci isola dal contesto anche quando viviamo in paesi differenti.  Parlare, litigare, far l’amore, sorridere, sono necessità contingenti, e sembra che, nell’Africa che ho viaggiato, abbiano il futuro che ciascuno gli assegna e mai così importanti da determinare vite. Accadono, e sono, come tutto il resto, importanti e in movimento. Ecco, penso che questi paesi senza il mio tempo, siano in movimento come nel treno di Einstein e guardino fuori, mentre si muovono nel vagone. Se il treno non si schianta, la vita prosegue per suo conto senza necessità di accordo tra due velocità differenti. 

Probabilmente.

il luogo dell’attesa

La nuca e’ il luogo dell’attesa, inerme d’occhi concentra sensibilità che non si protendono. Attende due dita che scostino i capelli, una carezza che scateni la sua nudità sensuale, un bacio sfiorato e sussurrante. La nuca attende e si snoda tra istinto e ragione, è superficie piana che racchiude.

Dovessi mettere nel corpo casa al tempo, la collocherei nella nuca, luogo del possibile, dell’attenzione, dell’incontro, del preannuncio che può evolvere o posticipare, mai indifferente. Inerme, essa, si pone oltre ogni offesa, si alza nell’orgoglio, si piega con la colpa, attende. E se ciò, che spesso e’ chiamato amore, s’ accorge dell’attesa, capirà anche ch’essa è porta del cuore.

La nuca promette e mantiene, merita attenzione piena, non ha fretta e non ama un distratto passare, in lei c’è confidenza ed accettazione profonda, ricordarlo è uno scoprire -e scoprirsi- oltre la fretta del conoscere. Oltre la presunzione del conoscere. 

p.s. il primo movimento del concerto n.2 di Rachmaninov, rappresenta bene le sequenze di un tocco amorevole sulla nuca, provate a chiudere gli occhi e ascoltate.