3 novembre, Redipuglia

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Facevo tutta la scalinata di corsa, fino alle tre croci, fino alla lapide dei 30.000 ignoti. Era una gara, un uscire dal luogo. Ma almeno il nome di mio nonno c’era, ma gli altri dov’erano? Possibile che nella contabilità della guerra, nei ruolini dei reggimenti, si fosse perso il nome oltre al corpo? E i dispersi, dove vuoi che fossero finiti, erano morti come gli altri.  I corpi chissà dov’erano in quell’immane confusione che faceva recuperare, possibilmente senza farsi ammazzare e seppellire in fretta.  Solo una medaglietta faceva la differenza, e il trovarla certificava la morte. In quel macello che furono le alture tra Gorizia e Trieste, si poteva ben dare un nome a tutti, scriverlo e poi lasciare i piccoli cimiteri di guerra con le tombe e le armi frammiste, le armi ormai inservibili che raccontavano che la follia si era compiuta e ora c’era la pace. Basta sangue, fucilate alle spalle per chi non andava all’assalto, per chi non si faceva ammazzare, basta contadini e operai che si massacravano anziché lavorare, sfamare le famiglie, i figli piccoli. Basta quelli di là e quelli di qua. Basta. Sarebbe bastato un luogo dei nomi, delle identità e un luogo delle ossa per le visite, per i fiori. Non importa chi c’era sotto, ma un luogo serviva, era un porto del senso, l’idea che non fosse sparito tutto e rimanesse solo il dolore, l’affetto, l’amore senza oggetto.  

Mia nonna ricordava il primo cimitero  la fatica di ritrovare il nome, le croci che arrugginivano velocemente, la confusione che riportava alla necessità di seppellire velocemente, non alla pietà o al sentimento. Necessità che reparti assolvevano come logistica: un luogo per i vivi a termine, la trincea, un luogo per i morti, la retrovia dove non si moriva. Si invertiva la logica delle cose: dov’era il pericolo i vivi, dov’era la sicurezza, i morti.  Il morale della truppa, l’igiene, la necessità. Ma lo iato nelle teste non esisteva se non ricacciato dal reale: chi era amico del morto moriva assieme o di lì a poco. Il carnaio era per forza anonimo, solo la medaglietta attestava che qualcosa era avvenuto e nella contabilità dei reparti ciò che non si trovava era disperso. Non vivo e non morto, non utile alla guerra, incapace di essere per testimoniare un’azione, un assalto, una vittoria che valeva dieci, venti metri.

Quattrocentomila, contadini per lo più, e operai, assieme all’intelligenza interventista dalla nostra parte. E dall’altra, ancora contadini e operai e ragazzi di liceo e universitari subito ufficiali. Non c’è più distinzione ora, tutti assieme. E non c’era neppure allora, era solo impossibile ribellarsi all’evidenza, all’insensatezza.

Da piccolo pensavo che il colle di Redipuglia fosse un cumulo di ossa e che sopra ci avessero fatto i sacrari. Centomila morti dovevano avere un volume, essere messi da qualche parte. E invece chissà dov’erano i morti veri, serviva il numero, non le ossa, e la retorica fascista aveva avuto bisogno di grandi numeri, di più sacrari e più inaugurazioni, fino all’ultimo con i 22 gradoni, con quel PRESENTE, scandito sulle cornici, ripetuto all’infinito. Mio nonno a casa era presente. Lo era stato ai suoi anzitutto: pochi, una moglie, due figli. Poi a noi, ai nipoti, pochi, due ancora, che sentivamo di avere una presenza particolare in un luogo particolare. Sacro. Era importante quella parola, alta, riportava alle chiese, a ciò che era inviolabile. Come ci fosse qualcosa di sacro nella guerra, in una vittoria o in una sconfitta e la morte senza senso diventasse più alta. SACRO. Era scritto ovunque, ma il fatto di non poter mettere un fiore incrinava tutto, ogni giustificazione e sacralità. Anche i santi avevano un corpo, un luogo dove mettere i fiori, lì c’era un immenso libro aperto con i nomi che si susseguivano e non c’era un posto per dire: era assieme a me, era mio, c’ero io accanto a lui. Mia nonna, che qualche ragione per quella morte voleva trovarla e non le bastava il nome e il PRESENTE, anche per lei il posto per un fiore, una tomba normale, un luogo per depositare gli affetti mancava. Nonostante il sacro, la croce di guerra, una fotografia e il figlio, le era rimasto quel vuoto aggiuntivo di una pietà impossibile, di un corpo sottratto due volte, e quell’epiteto di guerra santa, magari lo ripeteva per attaccarsi a una ragione tangibile, ma non le bastava,

Così si andava a Redipuglia a novembre e io mi chiedevo cosa c’entrasse la Puglia con Trieste. E infatti non c’entrava, ma tutte le congetture erano buone per dare un nome a un luogo che non doveva essere sloveno. Sennò che senso avrebbe avuto tutto ciò? E neppure tutte le ossa dei centomila sopra e dei centomila sotto c’entravano con quello che vedevo. Dove li avevano messi? Una collina di morti con un’unico marmo sopra, un segno, un lenzuolo di pietra, questo vedevo.

Ecco, era un lenzuolo di pietra.

notturno

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Di notte, la campagna si infila tra le case, spinge il buio negli orti, tra le ultime rose, preme sulle porte. E le pietre, i tetti si stringono gli uni agli altri, dimenticando proprietà, fastidi, incomprensioni, nel cercare un calore che rassicuri.

Un cane abbaia continuamente. Non è vicino né lontano, è lui la notte per chi veglia. Lo sa, forse, per questo continua instancabile, ferma un momento, illude e ricomincia. Eppure nelle strade illuminate non c’è nessuno. Lontano qualche auto incrocia i fari, mostrando case, alberi bruni, il verde spento dei prati e un bianco di betulle che s’ammassano sotto la collina. Non c’è nessuno, solo gli spettri delle funzioni diurne delle cose, che attendono il mattino per essere, lividi, silenti e attoniti per il chiaro improvviso, si mostrano, ma è un attimo, poi torna la notte. 

Ci può essere un senso di solitudine più grande, che incita al sonno procurato, ai televisori accesi, ai computer e alle conversazioni con un altro lontano sé, ma qui le finestre si chiudono presto, come occhi senza pensiero. Domani sarà uguale, questo pesa, non il silenzio, la città vuota, la stanchezza del giorno. Domani sarà uguale. E mentre le gambe si raccolgono nel letto, la speranza di essere stanchi a sufficienza vorrebbe un termine, uno scollinare oltre il quale il giorno non si ripeta. Questa è la fatica del nuovo e l’abbraccio che comprende, tiene, capisce e si sussurra: cambierà in tempo, cambierà.

downtown dentro

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Le città medie hanno una piccola città nel centro. Un posto dove circolano le biciclette e, di mattina, gli studenti e i vecchi si siedono nei bar all’aperto. Anche in ottobre o in novembre sono lì a chiacchierare. E si conoscono tutti, i vecchi conoscono i vecchi, i giovani conoscono i giovani, e i discorsi sono diversi, ma gli stessi, e quando vedi quattro persone con un giornale davanti, sai già cosa stanno dicendo. E anche quelli che passano conoscono quelli seduti e si salutano, perché si è educati nella piccola città, e se sanno cosa stanno dicendo fanno finta che sia nuovo. Così scorre il mattino e tutti aspettano qualcosa. Chi aspetta il pranzo, chi l’aperitivo della sera, perché stare soli è fatica e non di rado fa sentire il disamore.

Downtown la chiamano gli americani, la piccola città, ma è un’altra cosa. Solo l’incapacità di affrontare la solitudine è la stessa, e la cogli ovunque nella piccola città, nei discorsi che già sai, nell’impressione di aver sbagliato prima un po’ e poi tanto, nelle scelte in cui sarebbe dovuto accadere qualcosa, perdio, e invece non è accaduto ancora.

Nella piccola città che è in fondo all’anima – se c’è – bisognerebbe aprire un piccolo bar, mettere delle sedie all’aperto, sedersi e fare discorsi che già si sanno e attendere. Attendere un appuntamento, una persona, un luogo dove andare, un mutare di stagione, una fretta improvvisa. Attendere. Lo vorremmo davvero quel posto dentro e fuori la nostra downtown, dove attendere la meraviglia e intuire il giorno. Lo vorremmo e magari ce l’abbiamo già, basta tirar fuori le sedie, sedersi e chiacchierare, qualcuno arriverà.

la giornata del cronista

La città è contornata da mura, ammassi ordinati di pietre, mattoni e calce. Il rosso delle mura è un orizzonte e un porto sicuro per chi giunge attraverso le strade antiche e quelle nuove, appena accennate nel fango. La via Annia, la via Popillia verso Altino, le strade di un impero morto 800 anni prima continuano ad essere usate. Dentro le mura, case basse in legno addossate le une alle altre, quasi tutte le strade sono in terra battuta, vicino alla reggia e al castello del vescovo, svettano le case a torre, sono più di 50 e testimoniano un benessere raggiunto dalla nobiltà di campagna scesa in città dai feudi. I palazzi veri e propri, non sono molti oltre a quello del signore. C’è molto legno nelle case e la pietra riempie i muri portanti, non si fa molta strada per trovarla, i marmi e i laterizi romani, affiorano ovunque. I veri palazzi importanti sono quelli civili e rivaleggiano, spesso vincendo, con le chiese, entrambi testimoniano la solidità economica della città e i suoi commerci. Le case dei nobili, dei mercanti, dei notabili, hanno una loro relativa bellezza e comodità, le facciate sono decorate a fresco, ma il rinascimento si sente appena e gli spazi testimoniano più l’uso che l’apparenza.

La casa del cronista non è dissimile da quella del grande poeta toscano, che fu canonico della cattedrale: due piani, uno spazio verde avanti e nel retro della casa. Al piano terra la cucina e una stanza ampia per ricevere e desinare, un uscio si apre su un piccolo orto, verdure, albero da frutto, qualche gallina e coniglio. Al primo piano le camere da letto, due, abbastanza piccole, lo studio con pochi libri e il tavolo e la sedia rivolti verso la finestra, un leggio molto alto riceve la luce. I domestici dormono o in cucina o in una piccola stanza dove si accatastano le poche cose in disuso: mobili tarlati e rotti, abiti smessi per consunzione, un baule dipinto.

Il cronista scrive spesso in piedi, sul leggio che porta il calamo e un lume. Il lume viene acceso di rado. Scrive con caratteri regolari in latino e in volgare. Le parole sono ordinate e fitte, l’inchiostro è solitamente il nero, i capitesto possono avere qualche nota di rosso. Scrive ogni giorno o quasi, la tarda mattina e il pomeriggio. i fatti gli vengono riportati e riguardano la città. Ogni giorno si reca a corte e raccoglie altri fatti notevoli. Racconta ciò che vede e vuol far vedere, il frutto delle sue peregrinazioni tra i luoghi della vita politica, economica e civile della città. Le piazze del mercato, il palazzo di giustizia ( che qui si chiama come in altre città vicine, della Ragione e il sottinteso è che nella città vi sia una giustizia giusta, che non si pratichi l’arbitrio, ed è questa una grande conquista di civiltà), frequenta lo Studio, in particolare l’università dei giuristi. Quella degli artisti è più impregnata del fare e meno interessante nel discettare. Le lezioni hanno grandi maestri, pagati dagli studenti che li possono licenziare, per questo sono stimolati a eccellere in persuasione, profondità di dottrina e retorica. Il pensiero è aristotelico, ma totalmente nuovo rispetto all’impostazione tomistica di Tommaso e appare qualche vena di platonismo e di attenzione al corpo e all’uomo pur governato dallo spirito. Dopo che un amico di Marco Polo, Pietro d’Abano, filosofo e medico, è stato arso dopo morto per la condanna come ateo ed eretico, lo Studio è meno ardito, però si discetta molto sull’immortalità dell’anima e un suo studente è diventato rettore della Sorbona e poi consigliere dell’imperatore. Si chiama Marsilio ed è riuscito a porre le basi del potere laico sottraendolo all’imperio religioso.

Il cronista conosce queste vicende, ascolta, parla, interviene. Chiede ai forestieri, e forestieri sono tutti i non villani, che entrano in città, raccoglie notizie sulle città vicine, sui principi e la loro potenza. E’ un giornalista ante litteram, ma non ha l’obbligo dello scoop e della notizia, così la sua cronaca punta più al quotidiano del potere e della città per fare in modo che resti traccia, non si consumi il ricordo. Nella sua pelosa oggettività evita le vicende che lo costringono a schierarsi contro qualche potere costituito. La chiesa è uno di questi ed è pericolosa. Ma la libertà ha concetti molto diversi da quelli attuali.  Scrive con continuità, è il suo mestiere e il signore lo ricompensa per questo, però scrive anche per sé, per questo m’interessa. Gli piace il racconto del vero, il succedersi dei fatti e delle stagioni. Ha un crivello del tempo che distingue ciò che è notevole da ciò che non lo è. Le cose di pietra, le feste, gli stemmi che poi sono narrazioni di famiglie, sono miniere di simboli, che vengono decifrati e collocati nella giusta ascendenza del potere, il suo è un percorso di gloria, non la sua ma quella di ciò che descrive attorno. Durante la sua vita succederà un rivolgimento assoluto, il signore decadrà, perdendo vita e potere, lui se ne fa rapidamente una ragione e continua a scrivere, ad annotare e il libro si riempie di caratteri e di nuovi fatti. Le persone sono sempre un contorno, premono sulla pagina per entrare, ma al più emergono dai particolari, le singole vite si mescolano nella rappresentazione della città. Anno dopo anno le annotazioni dipingono il luogo di una città non piccola e una grande storia. E’ la stessa storia che serve per far ascendere alcuni e ignorare altri, perché la sua cronaca è l’oggi, ma è rivolta al futuro. A futura memoria, il passato deve servire a qualcosa. A legittimare, lasciare traccia di un consenso presunto.

Lui sa che quasi nessuno è in grado di leggere quanto scrive, può farlo il potere o i professori dello studio, ma la sua cronaca è destinata alla città e al futuro, e attraverso la narrazione del potere, dei fatti, della meraviglia, narra per sé e per pochi che possono condividere. Con costanza allinea storie, fatti, interpretazioni, in un lavoro che percorre la sua vita ed in questo giornale che lui scrive ad memoriam, trova la sua felicità. 

il passato che torna

L’esercizio di memoria si colloca all’interno di un contrasto che deve permanere. Non ci dev’essere troppa pacificazione. La storia stessa, per essere efficace come maestra di vita, deve emozionare, costringere a collocarsi.  A maggior ragione per le idee che sono ancora presenti nel vissuto delle persone, gli ebrei, la shoà, il comunismo, il capitalismo, la stessa democrazia, sono contenitori, assieme a molti altri, di una continua attualizzazione della storia e portano con i loro riferimenti concreti, effetti, nella vita di tutti i giorni. Così nel nostro ricordo, nel passato che ritorna, la dialettica con il presente speriamo emerga. Noi siamo ciò che siamo ora, ciò che scegliamo di essere, e rielaborare quel passato, portarlo nel quotidiano ci pone davanti alle grandi questioni affrontate, e spesso malamente risolte, che ci hanno permesso di essere come siamo. Non importa che il ricordo sia fedele, importa che il passato sia attuabile, che sia fecondo, che non sia l’accarezzare il gatto. Ne otterremmo, un ronfare che rassicura, ma non è nostro. Riconoscere la propria vita e costruire quella che resta è un processo sereno, ma non pacifico.

gaudeamus igitur

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Lionel Barber, il direttore del Financial Times, ha scritto una lettera ai suoi redattori che dice in modo esplicito ciò che sta avvenendo nel mondo della propagazione della conoscenza: la parte cartacea del giornale sarà il risultato della edizione web e non viceversa. Quindi chi lavora nel giornale cambi e si adegui al mondo.

Davanti al Bò, cinque o sei feste di laurea con tortura del laureato seminudo, getti di talco e schiume, canti, un tempo sboccati, che si ripetono senza fantasia. Cerimonie festose di parenti attoniti che saranno seguite da altre tutto il giorno. Ogni anno 7000 laureati. Nel chiostro del cortile antico, tra gli stemmi di professori e studenti di 400 anni fa, un funerale con l’alzabara di un professore. Le feluche nere dei commessi sono attorno in un triangolo perfetto, massonico, gli allievi e gli amici ai lati del cortile. Alcuni studenti hanno i mantelli degli ordini goliardici e i cappelli colorati di facoltà.  Sollevano il feretro tre volte al cielo. Poi passano la mano e cantano il Gaudeamus igitur. Al primo piano del cortile, ci sono le sale museali del Bò che conservano i teschi dei professori che lasciavano il corpo agli anatomisti dell’università. L’anatomia è nata qui. Vicino all’aula magna la cattedra di legno grezzo, dove la tradizione mette il Galilei a insegnare.

Fuori e dentro, speranze e tradizioni fortissime che regolano un mondo a parte, chiuso, dove la cultura si è tramandata, ha creato gerarchie, certezze e rivoluzioni. Ma da troppo tempo non si apre, non abbatte i propri steccati. Il Financial Times sta insegnando qualcosa che riguarda i modi di trasmissione del sapere e ridisegna professioni e modi. In quanti qui dentro si stanno accorgendo che questo riguarderà tutto il modo di apprendere?

Ogni curiosità trova una risposta nei motori di ricerca, manca la verifica, si dice, ma la verifica della rete è superiore a quella universitaria per democrazia e apporti. Ed è proprio il ridurre la cultura a curiosità che sta mutando l’approccio al mondo. Molto è mutato negli ordinamenti scolastici, ma come questi siano in grado di affrontare assieme i privilegi dei detentori di cultura e chi ne fruisce ancora non si capisce. Quel che è certo è che il mondo che vedo ogni giorno passando tra gli edifici dell’università è affascinante proprio per la sua “esclusività” che è esclusione. Extra Gottingam non est vita, ancora attrae, come l’alma mater studiorum, il sapere come sazietà di bisogno di conoscere. Un luogo e una madre che nutre. Solo che all’esterno di quelle mura è avvenuto, e avviene una rivoluzione, i libri si dematerializzano, il sapere diventa altro e ciò che sta dentro quei palazzi onusti di gloria, si avvia a diventare un unico grande museo.

In questo si misurerà il coraggio della sfida dell’intelligenza al mondo: chi saprà per primo interpretare il nuovo e farne una nuova modalità di lavoro anche per la conoscenza, vincerà. Come ai tempi di Marsilio, di Galilei, o di Morgagni, stavolta rovesciando i flussi, non si andrà dal docente, ma questo verrà a chi vuole apprendere. Sembra facile, ma non lo è e sopratutto non ha il fascino e i privilegi di adesso. Resterà la conoscenza come motore. Non è poco.

curricula

Prima di venire a questo colloquio, pensavo a quanto diverse sono le nostre giornate e le vite che conduciamo da qualche parte, e a quanto servano le sensibilità comuni, il modo di vedere le cose e ciò che siamo per comunicare, mettere assieme l’umanità, il bene, l’amore. Poi ho pensato che non era questo il motivo per cui ci vedevamo e ho cercato di darmi un tono. 

Se devo dire le competenze che ho, posso iniziare dicendo che so fare il pane e cucinare. E che mi piace il cibo. Non troppo perché mi sazio presto, e questo magari indica qualcosa, però mi piace mangiare. Ma se devo parlare di ciò che faccio, è meglio si sappia che i miei giorni sono fatti di gioie immotivate, di problemi, di stanchezze, di abitudini a cui tengo, di scrittura. E in più mi piace guardare le persone. Non tutto il tempo, ma quando mi viene.

Se devo quantificare l’abilità linguistica, mi piacciono le parole, parlo il necessario, eppure mi sembra troppo. Mi faccio domande, coltivo dubbi e mi aspetto che i frutti diano certezze, così non faccio quello che dovrei per star bene. Quindi ho un linguaggio impreciso e questo credo dipenda perché usiamo troppo le parole senza attribuire loro il significato che hanno, come ne avessimo paura. Io non ho paura delle parole, temo che spiegare troppo serva a cambiare i significati.

Mi capita spesso di essere stanco e mi nego per stanchezza troppe cose: il cinema, il riposo, la semplicità. Credo che la cifra di questi anni sia la stanchezza, non solo la mia, ma che una gigantesca stanchezza avvolga il mondo e da cosa questa derivi e’ oggetto della mia ricerca. Forse deriva dalla complicazione, dalla necessità di capire anche quando si è stanchi e non si ha voglia. Però le cose comunque si fanno, il mondo procede, i negozi si aprono, gli uffici e gli ospedali funzionano. In fondo della stanchezza che genera abbandono abbiamo cognizione e visione, nelle persone che escono dalle case e pian piano dormono per strada, negli edifici che prima perdono i vetri a sassate e poi le porte e poi tutto si confonde e cade. Quelle sono stanchezze senza uscita, le nostre si fermano alla soglia del sonno e si raccontano che con una buona notte tutto diventa più piacevole. Anche la fatica. Ecco, mi interessa questa stanchezza, che è pure la mia, capirla per risolverla.

Ho accumulato anni. Anche vita ho messo assieme. Ad un cero punto mi sono accorto che il tempo fuggiva in fretta, che natale era appena passato e già finiva l’estate. E’ stato allora che ho rallentato. No, non voglio dire che mi sono fermato, ma ho cominciato a guardarmi attorno e mi sono visto come un colapasta che mette esperienze liquide e non trattiene nulla, così ho cominciato a discutere gli obbiettivi vedendone l’inconsistenza: che obbiettivi erano se non lasciavano traccia. Volevo che da un lavoro, da un sentimento, da una passeggiata restasse qualcosa che mi cambiava. Però lo facevo tra me perché provando a dirlo agli altri mi dicevano: il mondo è così che ci vuoi fare. Ho capito che era un problema mio, perché per me era importante e discutendo la fatica e il suo senso, ho discusso il piacere. Che non era la soddisfazione o la sospensione della mia vita usuale, no, era quella pienezza che durava perché le cose fatte erano quello che mi assomigliavano. Era il piacere altro, quello della psicanalisi, che mi sembrava una costruzione, qualcosa che faceva comodo a qualcuno, che nascondeva qualcosa, come se il piacere si portasse dietro un qualcosa di cui vergognarsi. Ma questo qualcuno mica sapevo chi era, solo che con questo si dovevano fare i conti. Ecco questo è un work in progress, ho detto bene? Qualcosa su cui sto lavorando. 

Insomma vivere, lo si deve scrivere in un curriculum, è equilibrio difficile, come è difficile tenere la schiena ritta se si è alti. Anche se si è meno alti, è difficile, non c’è differenza, ma io sono alto e conosco il mal di schiena per cui so di cosa parlo. E tenere la schiena dritta è necessario, sempre. Anche se si lavora o si fa all’amore, la schiena dritta è la condizione per vedere le cose che accadono, sentirle nostre, non avere paura. Insomma è meglio che si sappia, io alla schiena dritta tengo molto. 

Eppure queste note non sono sincere perché non dico che sogno assai, e non di rado mi chiedo quale sia il confine tra l’immaginazione e la realtà. Mi rendo conto che la realtà è ciò che viviamo, ma la viviamo noi e quindi è un po’ diversa da quella di chi mi sta accanto. Così dobbiamo cercare le cose che ci accomunano per parlarne. Vogliamo comunicare, non essere soli. Odiamo essere soli. Anch’io faccio davvero fatica trattare la solitudine, anche se non lo odio, non ritengo sia colpa di qualcuno, credo dipenda da me, da come cerco di farmi assumere. In fondo se scrivo questo curriculum è perché questa è una domanda di assunzione, e un po’ tutti chiediamo di essere assunti, di essere importanti per qualcuno, di mettere insieme le nostre vite in un progetto. E vorremmo interloquire con quel progetto, dire la nostra, motivare la fatica. Anche quando amiamo succede questo, vorremmo avere un motivo per condividere di più, per oltrepassare qualche limite, ma questa è un’altro capitolo del curriculum, se vuoi ne parleremo a parte.

Certo è che i giorni passano e il curriculum si allunga e così lo accorcio, metto dentro quel che mi pare importante. Lo sai che cerco la leggerezza nel tratto del vivere? Che poi dire tratto del vivere è una cosa da esteti e invece io penso sia il togliere quello ce c’è in più, un lavoro per precisare, mettere nitidezza, vedersi meglio. E’ una questione personale, per questo non l’ho evidenziata subito, se ci si presenta per essere assunti non si può dire che si cerca la leggerezza, pare contino altre qualità nell’assunzione: l’intelligenza, l’affidabilità, la precisione, le lingue. E’ un po’ azzardato dire che vorrei avere le virtù di un palloncino rosso. Ecco non si può dire, per cui non tener conto di questa parte del curriculum, pensa che ho fantasia e a volte la fantasia non guasta anche nelle organizzazioni grigie. La vita se non la si controlla si presta a diventare organizzazione.

Poi mi piace l’aria e il sole, camminare. Chissà se conta qualcosa. 

Per me conta, e magari lo capirai anche tu, perché adesso pensi che lavoro, vita, sentimenti siano separati e invece fanno parte della stessa domanda di assunzione. Sai io credo, che in fondo non si vada mai in pensione. Finché ragioniamo almeno e che una assunzione la cerchiamo sempre, magari tra eguali. Proprio eguali no, facciamo simili. Facciamo una cooperativa, che dici?

ottobre

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Ottobre era la scuola. E quel cortile mi sembrava immenso. Così vuoto e contornato dalle finestre alte delle aule, era una piazza d’armi per piccoli soldatini schierati. Un luogo per adunate e queste accadevano quando iniziava l’anno scolastico o in quelle feste che sembravano arrivare dalla rivoluzione francese o dal libro Cuore. Noi mica lo sapevamo che arrivavano da così distante, ci lasciavamo educare a qualcosa, in cortile, con le classi, allineati.

Il resto dell’anno, con il tempo buono, serviva per ricreazione, si riempiva di corse, merende, chiacchierate, spinte, risate. Oppure era un contenitore deserto in cui fare correre lo sguardo, incantarsi di neve e di pioggia Era il luogo delle tre stagioni scolastiche, il nostro scorrere del tempo. L’estate era altrove, fatta di terra, sabbia, alberi e cespugli, qui c’era ghiaino, uno spiazzo in cemento e un gruppo d’alberi, olmi credo, che sembravano enormi. Tutto sembrava enorme, anche quello spazio vuoto in cui si poteva correre, cadere, rialzarsi, ridere, giocare, guardare, perdersi, essere rimproverati, e poi comunque, col corpo o con la testa, rientrare nelle classi che profumavano di legno, carta e inchiostro.

A ottobre c’erano subito delle feste, san Francesco che era proprio festivo, ma anche delle feste civili, molto scolastiche, senza vacanza: la festa  del risparmio e quella degli alberi.

Ascoltavamo giudiziosi la virtù del mettere da parte. Non avevamo nulla, molti di noi portavano abiti rivoltati e rammendi, ma dovevamo mettere da parte qualcosa. Dopo essere stato indottrinato, a casa, osservavo quella cassettina di metallo che la cassa di risparmio diffondeva tra le famiglie, mettevo una monetina e subito mi pentivo. Quante volte ho cercato di invertire il corso del giudizio per una salutare dissipazione delle mie sostanze, niente da fare, la banca aveva pensato ai reprobi mettendo delle lamelle che impedivano il percorso inverso delle monete. Già allora le banche rivelavano la loro natura rapace che teneva ben stretta le virtù affidate ed era impossibile recuperare il maltolto, così mi restava il rimpianto più che la soddisfazione del gesto. L’idea del risparmio però passava nelle teste, anche attraverso i pentimenti e mi piaceva la cerimonia del vuotare la cassettina in banca. Appollaiato con i gomiti sul marmo del bancone altissimo, scalciavo con i piedi sollevati da terra, ma non perdevo di vista l’impiegato che apriva e contava le monetine. Erano cosa mia quelle poche, per me tante, lirette che nelle mie mani bucate sarebbero finite in un pomeriggio tra l’edicola e il negozio di dolciumi e che guardavo scomparire in un cassetto per venire annotate su un libretto di risparmio. Una cifra e tanti sacrifici. Era allora che cercavo di ricordare cosa mi era stato detto nella giornata del risparmio, almeno per conservare un briciolo di soddisfazione visto che altro non avevo in cambio delle mie privazioni. Quei soldi non li avrei più visti, sarebbero finiti in scarpe o maglioni, al più, invocandoli, avrebbero propiziato qualche giocattolo da vacanze. Insomma una ingiustizia, visto che ciò che mi veniva dato era subito in parte restituito, e questo doveva avere qualche significato salvifico, mi avrebbe preservato dalla miseria forse, ma mi pareva così inconsistente quello che avevo, che dovevo ingigantirlo e sentirmi ricco con niente. 

La festa degli alberi era altra cosa, la guerra aveva distrutto molto e bisognava rimboschire. A me sembrava abbastanza immaginifico quello che mi veniva detto, Padova era una città ricchissima di verde e tutt’attorno c’era campagna, i colli erano pieni di castagni e ciliegi. Ciò che non sapevo allora era che quel verde sarebbe stato sostituito da case, palazzi, fabbriche, cementificazione selvaggia, speculazione edilizia. Però non credo che chi ci insegnava a piantare e amare gli alberi prevedesse tutto questo, c’era solo un baco nel ragionamento, nelle teste perché era naturale che fosse così, il progresso erano case e fabbriche e così chi piantava alberi simbolici contemporaneamente nella sua testa li spiantava per far posto al cemento. Comunque ho imparato allora ad amare gli alberi e non ho più smesso, mi sorprende solo che la mia stessa generazione si sia resa responsabile di tali e tanti scempi ambientali successivi. Certo che un dubbio mi poteva pure venire allora, perché non ho mai capito dove venisse piantato quell’albero che veneravamo nella sua festa, non nel cortile, regno del ghiaino, neppure nell’orto del custode che altrimenti in un paio d’anni avrebbe avuto una foresta, insomma compariva e spariva. Ed io che sperimentavo la virtualità dell’albero, mi tacitavo pensando lo portassero fuori città, magari sui colli, dove c’era bisogno e sarebbe cresciuto forte e sano come noi, Almeno così speravo, perché se fosse stato riportato al suo vivaio, a noi ragazzi di città, sarebbe stata raccontata una bugia in più. E non ci avrebbe fatto bene.

ciò che resta non è ciò che c’era

Non ci si ricorda più l’acuto di una decisione, il dolore che ha accompagnato una scelta, lo stare o l’andare, la situazione, i dilemmi tra sé. Non si ha più l’urgenza del mutamento di allora. E ciò che è cambiato diviene abitudine, perde lo smalto che l’aveva reso così attraente e importante, finché sembra sia stato quasi sempre così: il prima è sfumato nell’adesso.

E anche quando si rimpiange un’età dell’oro, o dell’innocenza, questa è ciò che vorremmo aver vissuto, non ciò che davvero è stato. In fondo ci è stato dato solo il presente e il suo desiderio d’essere altro proiettato in avanti. Del passato serbiamo noi stessi, ciò che siamo, non ciò che siamo stati. E del piacere non si ricorda nulla, mentre dei sentimenti che abbiamo provato resta molto, è parlando con essi che ci ritroviamo ora. In fondo l’esperienza se non è sentimento non è.

attenta al rilucere dei tuoi occhi

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dono e rubo:

attenta al rilucere dei tuoi occhi,

l’ho bevuto per bisogno,

chi mi condannerà?

ma altro ci potrebbe essere

che ti potrei donare.

Ricordi qualcosa che non vuoi perdere ?

Cerca tra i tuoi giochi, quello più caro,

era te,

dove l’avevi nascosto?

Quello era prezioso e mai l’avresti prestato,

avevi ragione, era te,

chissà dove l’avrai messo…

Se vuoi trovarlo ribalta i tuoi pensieri,

cerca nell’attrazione,

in fondo è un po’ lo stesso, 

scoprirai ciò che non trovi.

E non parlarmi di malinconie,

di pomeriggi appiccicosi,

cerca e trova, 

nessuno m’ha insegnato ad assolvermi davvero.

E a te?